La settimana santa dei filosofi

La Settimana Santa dei Filosofi è l’ultimo ramo delle mie lunghe ricerche su Cristo e la filosofia, ma l’idea ne è antica, mi era balenata più di trenta anni fa, quando lessi il prezioso volumetto di Stanislav Breton, La Passion du Christ et les philosophies. P. Breton non aveva detto tutto! Ora il desiderio di riprendere il suo abbozzo s’inquadrava in un progetto molto più ampio di inchiesta attraverso le filosofie storiche, di mira ad una eventuale cristologia filosofica, progetto che misi a fuoco venti anni fa, dopo avere pubblicato la mia opera su Schelling. Quindi la lettura sistematica e l’insegnamento hanno recato un certo numero di articoli e soprattutto tre libri, che spesso sfruttano i corsi e gli articoli: La Cristologia idealistica, Filosofi davanti a Cristo, il Cristo della filosofia. Prolegomeni a una cristologia filosofica, di carattere più sintetico ed ermeneutico. Ora, La Settimana Santa dei Filosofi è stata redatta sulla scia di quest’ultimo libro, di cui presuppone l’impostazione teorica, ma non è soltanto un’appendice, ha le sue caratteristiche proprie cui accennerò alla fine.
Ho raccontato nel Liminario del Cristo della Filosofia (che felicemente è anche in procinto di essere tradotto) come l’avvio di tale impresa è stato una specie di debito nei confronti di un giovane amico scomparso che, lettore di S. Agostino, sognava uno studio su Cristo nella filosofia. Il pensiero mi aveva colpito. Poi la decisione più tardiva di mettere mano all’opera è stata il frutto di una sorpresa: il contrasto stridente fra la presenza insistente di Cristo nella filosofia moderna, con poche e significative eccezioni, da un lato e dall’altro il silenzio stampa della critica e della storiografia nel riguardo del Cristo dei filosofi, fino ad una data recente: e adesso il ghiaccio è rotto. Ma il celebre articolo di Benedetto Croce “Perché non possiamo dirci cristiani” è un inganno, il vago ricordo cristiano è avvolto in un involucro tutto laico. Tuttavia non attribuirei al laicismo moderno dominante la noncuranza e l’omissione del Cristo nei commentari e nei manuali filosofici, almeno non assegnerei tutta al colpa. Poiché il pregiudizio dell’illiceità di una presenza filosofica di Cristo è radicato e condiviso da molti, incluso da cristiani, talora i più accaniti avversari della cristologia filosofica.
E’ stato uno strano accanimento. Che il rifiuto sia smentito dai fatti non disarma l’ostilità, poiché il Cristo introdotto per frode nella filosofia non può essere altro che un idolo, un fantasma. Credebant phantasmum videre. Prima di tutto bisogna disaminare i motivi, creare ciò che c’è di valido nel rifiuto di contaminare e compromettere Cristo con la filosofia. Dobbiamo prestare ascolto all’atteggiamento dei cosiddetti pensatori religiosi, tanto più quanto le loro obiezioni danno la trama dell’argomentazione ostile dei filosofi e teologi avversi.
Tutto comincia con la frustrazione di S. Paolo dopo l’insuccesso del discorso sull’Areopago. Ne è sorto il mirabile brano della Prima ai Corinzi, vero e proprio sfogo, con la contrapposizione della saggezza del mondo e della follia della Croce. I Greci cercano la saggezza e noi predichiamo un Dio crocifisso, scandalo e demenza, stoltezza e delirio. La veemente condanna della filosofia pagana è durata a lungo – ci sono ancora tracce nell’Agostino – finché i Padri recuperino il termine per applicarlo alla nuova saggezza (sapienza) cristiana e i grandi filosofi pagani, Platone, Aristotele, siano battezzati e confermati dai dottori medievali. Ma la corrente paolina antifilosofica persiste, il nome di Tertulliano è quasi simbolico, quello di S. Pietro Damiano nemmeno. Ma all’alba dei tempi moderni l’attacco più feroce contro la ragione e la filosofia è stato sferrato da Lutero; egli ha visto nella ragione l’antagonista assoluta della fede. Ne è rimasto qualcosa nelle filosofie di stampo protestante fino a Thévenaz e a Ricoeur, anche in Kant. Ma i due araldi dispregiatori della contestazione della ragione sono Hamann, il mago del Nord, e Kierkegaard, l’uno in lotta contro l’ottimismo dei Lumi, l’altro in aperta contesa con Hegel e l’idealismo tedesco. Hamann è poco conosciuto in Italia, malgrado i pregevoli lavori dell’erudito milanese Angelo Lupi. Invece Kierkegaard è un esponente massimo della crociata antifilosofica. La fede è il paradosso e il paradosso è la crocifissione della ragione filosofica. Kierkegaard, meraviglioso cavaliere mascherato della polemica antirazionalista, sta dietro tutte le reticenze e obiezioni nei confronti della cristologia filosofica. Ma occorre osservare che la sua critica beffarda è diretta palesemente contro il sistema hegeliano, cioè contro il concetto onnicomprensivo e onnivoro che scioglie il mistero. Fuori di tale bersaglio le sue frecce ricadono troppo presto come quelle degli arcieri genovesi di Crécj. Comunque Kierkegaard è un avversario con il quale bisogna fare i conti.
Il caso di Pascal è un po’ diverso. Come studi recenti lo hanno messo in evidenza, non era il nemico accanito della filosofia che alcuni hanno dipinto. Ma è vero che la filosofia è fuorchiusa dalla Rivelazione; e che la tentazione d’orgoglio spia la ragione. Però è ragionevole la sconfessione di se stessa da parte della ragione. Quindi c’è un cammino, o un passaggio aperto per giungere a Cristo dal superamento della ragione. Cristo compie le deficienze della filosofia, ma la carenza stessa punta sul compimento: “Jesus-Christ est l’objet de tout et le centre où tout tend”. Quindi anche per Pascal Cristo è un summum cogitabile e un summum intelligibile. Egli ha voluto anzitutto ridurre l’autorità della ragione.
Per dire la verità, la diffidenza, anzi l’ostilità, nei riguardi della legittimità di una cristologia filosofica, colpisce prima l’idea di filosofia cristiana, senza la quale la cristologia filosofica manca di un fondamento. La stessa argomentazione vale contro l’una e contro l’altra. In effetti entrambe sono delle contaminazioni, degli ibridi- né filosofia, né cristianesimo. La vicenda è assai conosciuta. I rappresentanti dell’autonomia della religione si incontrano con i fautori del secolarismo e della laicità della filosofia. Un neo-tomista come Maritain può porgere la mano a Heidegger che dichiara: “La filosofia cristiani è un circolo quadrato”. Insomma è l’atteggiamento tradizionale di S. Paolo: l’incompatibilità del kerigma e della filosofia pagana, ma, questa volta, la filosofia laica rialza la testa. La tendenza segreta dell’autosufficienza stretta da parte della filosofia è di far a meno della religione e della rivelazione: il filosofo ha le sue norme, la sua vita, si può vivere e morire come filosofo esclusivamente, senza aderire ad un’altra credenza. Il pregiudizio contrario dei credenti, se si dedicano alla filosofia, è che la filosofia “separata” serve a tenere intatta e rigida la fede: Heidegger e Bultmann sono alleati. Meno chiara per me l’impostazione di filosofi cattolici, per esempio neo-tomisti (la scuola di Lovanio), che si oppongono accanitamente alla filosofia cristiana sotto il pretesto di difendere la filosofia, l’autonomia dell’ordine naturale.
Capisco molto bene l’atteggiamento dei pensatori religiosi, poiché c’è davvero un pericolo di “furto delle cose sante” da parte della filosofia che può profanare i misteri sacri. La loro protesta deve sempre stare dinanzi agli occhi di qualsiasi filosofo. Però è più difficile cogliere i motivi di filosofi di professione che vogliono confinare la filosofia in uno stadio subordinato, insomma farne una schietta logica dell’essere, e impedire ogni ampliamento dei compiti della filosofia.
Giova ricordare invece che per S. Tommaso la filosofia è la filosofia aristotelica “battezzata” con ingredienti della Rivelazione. Una philosophia ancilla theologiae, nell’orbita della fede, può a buon diritto chiamarsi filosofia cristiana. Una philosophia perennis è ipso facto cristiana. Ma oggi è un riflesso di autodifesa della fede di emarginare la filosofia; gli avversari della filosofia cristiana hanno paura di un’intrusione anche tramite una funzione di sostegno. Infine le reticenze nascondono una profonda diffidenza nei confronti della filosofia stessa, di cui si si toglie lo slancio metafisico. L’opus perfectum rationis di Maritain non porta l’intelletto alla fede. Viceversa Cartesio ambisce di condurre la filosofia alla perfezione, e lascia la teologia intatta come una pagina “bianca”. Spesso la negazione della filosofia cristiana di diritto appare come avvolta in una di scuole. Ad ogni modo misconosce le filosofie fattuali e la tendenza intima della filosofia.
Ma c’è un altro aspetto. Curiosamente s’incentrano solidali pensatori laici e tomisti tradizionali. Emile Brehier assicura che il cristianesimo non ha inciso per niente sui destini della filosofia, o pochissimo. Dello stesso parere è il Padre Mandonnet, domenicano.La filosofia segue la sua strada naturale, asettica, senza essere intaccata dagli avvenimenti. Anche un goloso custode della divisione dei compiti come Gilson non può nascondere il proprio sbalordimento. Precisamente l’idea di fondo della filosofia cristiana, nella diversità delle sue apparizioni, è quella di un rinnovamento, addirittura di una rigenerazione della ragione sotto la spinta della Rivelazione. Il cristianesimo ha scavato nell’uomo delle profondità sconosciute, ha capovolto la sua relazione con la morte, ha cambiato il rapporto con la natura, ha dato uno slancio all’infinito, ha rifatto la concezione del tempo, del male, della sofferenza …. Leibnitz dice che il cristianesimo ha cambiato la faccia delle cose umane. Vale a dire che tutte le filosofie, anche le più prudenti, sono almeno sfiorate dal raggio della Rivelazione cristiana; e le più grandi tematizzano il contrasto.
E’ un fatto sorprendente che si metta in dubbio la liceità della filosofia cristiana quando ci sono tanti esempi e campioni insospettabili. Ricordiamo, all’entrata dei tempi moderni, Niccolò Cusano, poi la grandiosa filosofia di Malebranche, tutta centrata sul theologoumenon della Gloria di Dio, la straordinaria fioritura della “filosofia cristiana” nel tradizionalismo dell’Ottocento, da Federico Schlegel e Lamennais a Laberthonniere. Si tratta, secondo la felice espressione coniata da Rosmini, di una filosofia ricavata o meglio “sviscerata” dalla dottrina cristiana, partorita dalla sapienza cristiana, anteriore ad ogni dualità o divisione: dal cristianesimo, in effetti, fluiscono un sistema, una logica, una metafisica, un’estetica, una filosofia della storia, insomma una vera e propria “teosofia”. Invece di stabilire due potenze separate, una ragione filosofica pura e una ragione battezzata, teologica, bisogna partire dall’unicità di una ragione rivelata a se stessa, profondamente rifatta e rigenerata dal Cristo. La ragione illuminata dalla fede stenta sempre a ricollegarsi con i saperi umani se non coincide già dall’inizio con il Verbo immanente in ciascun uomo. La somma pubblicata da Coreth e Schmidinger è una conferma eloquente del valore oggi appannato della filosofia cristiana che chiamerei enfatica. La cosiddetta disputa della filosofia cristiana in Francia negli anni 30 è stata una vicenda sciupata, poiché ha seminato il dubbio sulla grande tradizione di filosofia cristiana. Eppure non ha cancellato almeno una via della filosofia cristiana, cioè la via che conduce a Cristo, la filosofia che “passa a Cristo”, secondo la felice espressione di S. Giustino, oppure itinerarium mentis ad Christum. In questa funzione pedagogica, la filosofia fa leva sulle sue aporie, sulle domande, enigmi, interrogativi, istanze, a cui Cristo rivelato dà una risposta su un piano superiore. Questa filosofia è una filosofia del desiderio, della mancanza, della sproporzione, dell’indigenza…e gli esempi abbondano: Pascal, Marie de Biran, Schelling, Blondel, Laberthonniére, Scheler. Così si verifica il famoso detto di Pascal: “Cristo è la ragione di tutte le cose”. Qui si incontrano i pensatori religiosi con i metafisici cristiani. Da sola la filosofia non può “chiudere”, perciò si compie in un’altra conoscenza preordinata, ma di origine diversa: Cristo rimane fuori. La filosofia indipendente si mette sotto la dipendenza della Rivelazione possibile, ma senza straripare, senza sconfinare nel terreno teologico. Blondel ha magnificamente segnato questa strada. Ribadisce l’autonomia della filosofia, ausiliare quando libera, libera quando ausiliare. Bisogna insistere: l’autonomia è la condizione sine qua non della filosofia cristiana, la sua ragione di essere filosofia e di garantire l’assolutezza della Rivelazione.
Tuttavia lo slancio della mente verso Cristo, la dinamica della volontà, è un aspetto, il più visibile, della filosofia di stampo cristiano. In realtà, spesso senza saperlo, suppone l’andamento inverso, la prudenza e l’anticipo della Rivelazione. “Tu ne me chercherais pas, si tu ne m’avais déjà trouvé”. Abbiamo accennato la destinazione cristologica della filosofia, il suo esodo, il suo compimento fuori le mura. Ma la filosofia che guida a Cristo non è automaticamente, né integralmente filosofia cristiana oppure cristologia filosofica. Essa abbozza perlomeno una precomprensione del Cristo. Ma può capitare, è il caso del Cusano, di Malebranche, di Leibnitz, di Rosmini, persino di Blondel, a causa degli schematismi inseriti nell’argomentazione, che la precomprensione cristologica sia una vera e propria prolessi che attesti il movimento complementare e, per così dire, imprescindibile, dalla cristologia alla filosofia. In effetti c’è una destinazione filosofica della cristologia, che riecheggia e puntella la destinazione cristologica della filosofia. Sarebbe stranissimo che Cristo non avesse niente da dire ai filosofi, che non potesse anzi giudicare la filosofia. La paura, la timidezza dei filosofi, anche cristiani, si manifestano su questo punto. Ora Cristo è presente comunque dalla sua Idea, che volens nolens assilla i paraggi filosofici. Inoltre la cristologia (intesa come luce intellettuale del Cristo) è gravida, come Rosmini l’ha mirabilmente presentito, di una filosofia autentica, teodicea, cosmologia, antropologia, filosofia della storia, estetica, ecc.. che richiama il suo statuto noetico. Anche lì si affacciano i modelli, dopo quelli già additati: Soloviev, Berdiaeff, Teilhard de Chardin, Nabert ecc.
So che è molto difficile, ad onta degli esempi, far ammettere la latenza cristologica della filosofia. Sembra un’intrusione, una metabàsi. E l’abate Nédoncelle, che ha sfruttato egregiamente le incidenze filosofiche del Cristo, teme, nonostante una cattura filosofica della persona intangibile del Signore. Se intende una manomissione sul mistero di Cristo nella sua individualità ineffabile, o uno scioglimento dell’unione ipostatica, non si può far a meno di dargli ragione. Ma se vuole proibire ogni ricerca sull’essere e la coscienza del Cristo, allora misconosce i compiti della cristologia sia teologica sia filosofica. Poiché la cristologia filosofica è il riflesso della cristologia teologica in chiave ontologica. Molte obiezioni rivolte alla cristologia filosofica puntano anche sulla cristologia classica. Ora la cristologia trascendentale di Karl Rahner è uno sforzo notevole per utilizzare la filosofia ai fini della teologia. Essa non è né un’antropologia sublimata, né una teologia diminuita, è un’analisi delle condizioni di comprensione dell’Incarnazione, cioè del teologumenon dell’Uomo-Dio. E’ palese che, nell’elaborazione del concetto di cristologia filosofica, stiamo sul filo del rasoio e che spesso, nel contesto, non si può distinguere tra filosofia e teologia, apologetica e teologia fondamentale. Pure la filosofia cristiana “enfatica” sfiora la teologia. Ma i problemi di frontiera non sembrano preoccupare troppo i filosofi che operano sui confini, come Rosmini, Blondel, Edith Stein….inoltre i contenuti religiosi non sono fuori dalla portata della religione, secondo la sentenza famosa di Lachelier. Se nessuno è teologo che non è anche filosofo, inversamente il filosofo deve essere allo stesso tempo teologo. E’ vero che i grandi idealisti hanno ceduto alla tentazione di spiegare i misteri, ossia di trasporli in un linguaggio razionale, in nozioni simboliche. Ma la colpa è nell’eccesso, non nel progetto. Alla teologia dogmatica e positiva restano molti problemi specifici; però alla teologia fondamentale e speculativa appartiene tutto un aspetto filosofico. L’intelligibilità del cristianesimo è condivisa e senza esclusivismi. Il filosofo non è pronto a scambiare la preda per l’ombra.
Confesso che c’è una difficoltà della cristologia filosofica nei confronti della filosofia cristiana. Qui il cristianesimo qualifica la filosofia e rischia di smarrirla come filosofia. Là la filosofia si collega con la cristologia, con il pericolo di assorbirla. Ovviamente una filosofia cristologica sarebbe il risvolto della filosofia cristiana e le farebbe un miglior riscontro. Invece mi pare che il chiasma sia una garanzia per la salvaguardia di entrambe. La cristologia al riparo della filosofia cristiana si sviluppa come filosofia. Una filosofia “laica” o “secolarizzata” genera una cristologia difforme, irriconoscibile.

Vorrei adesso dire qualche parola in più, come l’ho annunciato, sul libro adesso pubblicato in italiano, con l’auspicio della Morcelliana e la traduzione attenta di Sansonetti. E’ un’opera di immediata attualità, poiché è una lettura di Quaresima. In effetti non è soltanto un libro di filosofia, ma anche di spiritualità. E’ stato ispirato, prima di tutto, dalla travolgente bellezza dei racconti della Passione, che entusiasmava Simone Weil. Avevo come punto di riferimento l’ammirevole scritto di P. von Balthasar, il Triduum Mortis o Theologie der drei Trage. Non volevo gareggiare con lui, ovviamente, ma in certo modo offrire un equivalente filosofico. Allo stesso tempo Balthasar avvertiva di non lasciarsi ingannare dall’astuzia della ragione, che “fiuta dappertutto una preda”, dagli artifici della speculazione.
Occorreva non dimenticare la “stoltezza della Croce”. Di fatto l’anatema paolino aleggia su queste pagine. Eppure ho dovuto dare ampio spazio a Hegel, pensatore della Croce, la cui filosofia è una vera e propria staurologia e sembra smentire la crudezza dello scandalo, l’impenetrabilità del Dio crocifisso. Il Venerdì Santo speculativo si erge come una sfida all’opacità del Venerdì Santo storico. Tuttavia mi pareva possibile “salvare” Hegel, traendolo nella scia di un pensiero tragico. Il momento abissale, vero stupore della ragione, la morte di Dio- Dio è morto!- non viene sciolto, almeno nella rappresentazione. La Theologia Crucis, ove la Croce come concetto non annienta il concetto come Croce. C’è un’ultima rifrangenza sulla Filosofia della Religione di Hegel, una fattività non riassorbita, che attacca per sempre la speculazione al Calvario storico, a un evento passato. Non si può dire altrettanto di alcuni discepoli. Perlomeno Hegel è ambiguo- “il peggio non è sicuro”-, e conviene ricordare l’importanza per lui del Verweilen, dimorare, indugiare. Ora la Croce, la morte sulla Croce, esige un Verweilen, una battuta d’arresto, uno squarcio nel tempo; quindi la sua Aufhebung conserva il lato della Erinnerung, del memoriale, che implica raccoglimento e attesa. La sonorità cristiana non è percepita da tutti, e il suo senso ultimo è forse il segreto di Hegel, ma non siamo obbligati ad ammettere l’anatema di Baader e Federico Schlegel.
Del resto Hegel è quasi l’unico palcoscenico speculativo che serve di fondo alla nube dei testi. I pellegrini del Golgota sono credenti o catecumeni, tanto è vero che nei confronti della saggezza umana, “la Croce confuta”, secondo il ritornello di un sermone del giovane Fichte. Non ho provato a fare un censimento. I fedeli della Croce si sono presentati da soli, uscendo dai nascondigli della memoria, e non ho proceduto ad un’inchiesta. I paragrafi si sono agganciati con una specie di necessità. Spiccava Pascal per il Giovedì Santo, Hegel per il Venerdì Santo, Blondel per il Sabato Santo (sebbene non gli ho dato abbastanza spazio), avevo dunque capisaldi fermi, attorno ai quali cristallizzavano altri pensieri. Così il filo della meditazione non si rompeva. Perché si tratta insomma di un libro di meditazione più che di riflessione. E’ un libro di “devozione alla Croce” e, ripeto, di spiritualità piuttosto che di filosofia. Come Simone Weil volevo rendere più viva l’emozione della Passione del Salvatore, la semplicità straziante del racconto. Quindi i patetici vengono alla ribalta: Pascal, Chestov, Rozanov, Unamuno, Simone Weil, araldi della sofferenza e antidoti di Nietzsche, senza che venga meno l’equilibrio della Sapientia Crucis rappresentata da Edith Stein. D’altra parte, la meditazione non è solo una contemplazione, poiché si sofferma sulla condizione umana: nello specchio senza macchia del Cristo s’intravedono meglio la vita, la morte, il tradimento, il dolore, la sofferenza, il peccato….Spero che la vibrazione, il brivido della mossa personale, si conservi attraverso le righe.
La Settimana Santa dei filosofi è una settimana di tre giorni, e i filosofi sono soltanto una parte dell’effettivo. Dunque il contenuto corrisponde a metà al titolo. Tuttavia il tono è dato dalla filosofia, a causa del carattere profondamente inserito di uno sforzo d’intelligenza di fronte al martirio dell’Uomo-Dio: l’impostazione antropologica si stacca dai problemi prettamente teologici e si vedrà che c’è poco da raccogliere sui dogmi, Redenzione, Giustificazione, soddisfazione, ecc…Tutto sommato direi che è un libro sulla morte, nell’arco dell’agonia, del morire e del sonno letale. Pertanto non è troppo paradossale che abbia cominciato i miei preparativi con il Sabato Santo, di cui Maurice Blondel dice che è il “nostro giorno”- parola semplice e profonda. E’ il nostro giorno, poiché la redenzione è compiuta, Cristo è entrato nella morte, non è ancora risuscitato. E noi quaggiù, sicuri della salvezza e del riscatto, siamo truffati in una specie di morte, di liturgia, sepolti con Cristo, in una situazione di attesa e di speranza, più morti che vivi, e tuttavia sereni e fiduciosi. E’ la lunga giornata della storia irreversibile, avviata dal Sacrificio del Calvario, la cui fine è anticipata dalla Pasqua gloriosa, però per noi soltanto pegno e pedaggio del passaggio ancora rinviato. L’atmosfera dolce-amara del Sabato Santo, così vuoto e silenzioso nella Nuova Liturgia, mi ha commosso dall’infanzia; e la confusione dei sentimenti ha trovato più tardi una chiarezza d’intendimento quando lessi Blondel, appunto, ma soprattutto Balthasar (e Adrienne von Spejr), Gaston Fessard, e più tardi Antonio Rosmini, la cui bellissima teoria eucaristica mi avvinse. Anche da Blondel ricavi il significato eucaristico e la latenza sacramentale del Sabato Santo. Balthasar mi insegnò il valore cosmico e storico-mondiale della Discesa agli inferi, e Fessard additò il privilegio e òa funzione salutare della Pietà. Con questi preziosi capisaldi non era difficile sistemare un’esposizione, la quale nelle grandi linee è stata pubblicata nella bella rivista, oggi interrotta, Les Quatre Fleuves (I quattro fiumi); l’articolo è stato apprezzato da von Balthasar; P. Fessard era già morto. Il quaderno era dedicato alla Risurrezione, e il mio saggio accennava Gesù primitiae dormientium. Mi è stato chiesto, più di una volta dopo l’uscita del libro, perché non avevo incluso un capitolo sulla Pasqua; mi sono accontentato di qualche citazione. Però l’omissione accade apposta; non volevo varcare la frontiera del Triduo della Morte; la Settimana Santa è segnata dal dolore e dal lutto, pure la speranza deve rimanere nascosta. Inoltre non esiste una filosofia trionfante, la filosofia è grave, triste, come il pensiero e come la vita umana. Essa è mossa dallo spirito di serietà, non sorride, non piange, esibisce la piega amara del sapere, la scienza è fonte di dolore.
Non avevo molta difficoltà a percorrere la Via Crucis del Venerdì Santo, avendo in un libro precedente sfruttato il Venerdì Santo speculativo, di modo che lo sforzo a me richiesto era piuttosto di scansare le ripetizioni. Ma la materia, attorno ai due poli del Venerdì Santo hegeliano e della kreuzeswissenschaft Edith Stein, era abbastanza ricca per scegliere altri riferimenti, altre angolazioni. Poi Nietzsche, araldo della sofferenza, fornisce una quantità di aspetti che convogliano sempre qualche novità. Restava il Giovedì Santo, il capitolo più arduo, il meno filosofico, innescato da un Hegel giovane e miseramente filisteo. Poi non volevo slittare sull’Eucarestia, la quale in questa vicenda può apparire solo come istituzione. Grazie a Dio c’era la sublime meditazione pascaliana del “Mistero di Gesù” per contrastare la insulsaggine di Hegel; anche il momento agonico recava commoventi apporti di scrittori ai confini, come Bernanos e Unamuno. Qui ancora, per essere pienamente onesto, debbo confessare che c’era un testo previo, breve, che mi è servito di nucleo, apparso in italiano, dopo una conferenza urbinate, in un oscuro opuscolo collettivo, così che nella Civiltà Cattolica, e più tardi nella modesta e moribonda rivista francese Axes.
Ma la storia di un libro interessa l’autore, il suo destino invece i lettori. A loro spetta il giudizio. Aggiungerò che l’edizione italiana comporta qualche pagina supplementare; volevo completare le rapide indicazioni della prefazione e fare un posto un poco più ampio a Caracciolo, ma anzitutto a Pietro Piovani e a Luigi Parrejsan, l’uno laico, l’altro cattolico- tutti e tre filosofi della Croce, tutti e tre scomparsi; perciò li volevo accomunare in un omaggio indiretto. So che il connubio Piovani-Parejsan, sebbene felpato, sarebbe spiaciuto a Parejson, credente intrepido, restivo a ogni associazione. Ma l’ultima filosofia di codesti, tormentata e austera, autorizza il ravvicinamento, fino ad un certo punto. Del suo cristianesimo agonico, sofferto, avrò l’occasione di parlare dopodomani a Torino, durante la seduta solenne in onore del compianto pensatore.

Testo, rivisto dell’Autore, dell’incontro tenuto il 23.3.1993 a Brescia su iniziativa della Cooperativa Cattolico-democratica di Cultura.