Ringrazio la Cooperativa Cattolico-Democratica di Cultura di Brescia per avermi invitato a fare una chiacchierata, che, almeno per me, vuole essere un’occasione per riflettere ad alta voce insieme ad altra gente su problemi, su linee e logiche di sviluppo della società intorno alle quali lavoro tutti i giorni, ma che, nega mia testa, non sono poi sempre trasparenti e necessitano molto spesso di una chiarificazione. Spero, pertanto, che questa mia chiacchierata venga accolta proprio come una riflessione ad alta voce sui problemi che, in questo momento, non dico mi angoscino, ma mi “stanno in testa” e mi creano qualche preoccupazione.
Qual è il problema di fondo che mi “rode dentro” e che desidero subito evidenziare? Negli ultimi anni la nostra società ha manifestato una sua logica interna di evoluzione che è tutta prevalentemente economica, mentre il momento culturale, il momento sociale, il momento politico sembrano quasi non esistere. Per uno come me che ha lavorato quarantadue anni a riflettere sul sociale, questa idea che esso sia, tutto sommato, meno importante del dato economico, che la capacità di fare cultura non incida sull’economico, anzi ne sia in qualche modo lontana, quasi in modo consolatorio, che il politico non chiuda, non prema, non afferri la realtà sociale, ma la rincorra costantemente, non è certo una affermazione facile, e neppure una affermazione felice. Ciascuno di noi sa, infatti, che una società cresce se crescono la coscienza e il dominio di se stessa, se crescono operazioni culturali di coscienza, di autocoscienza e di autodominio, quindi operazioni socio-politiche di controllo e di orientamento dei processi in atto.
Di fatto, invece, in tutti gli anni ’80 la società evolve per meccanismi eminentemente economici: il culturale, il sociale, il politico sono, forse, nel cuore, nella testa di qualcuno di noi, ma di fatto non incidono, non modificano la realtà. Non cosi era stato negli anni precedenti; non così era stato nell’immediato dopoguerra, quando la ricostruzione e il ritorno all’ordinaria vita della società furono l’espressione di una specie di energia di popolo. Non così era stato negli anni ’50 e’60, quando l’industrializzazione, l’urbanizzazione, la spinta ai consumi, l’acquisto della prima casa o l’acquisto della prima automobile era stato un fatto sociale, un fatto di liberazione nella cultura collettiva, ancor meno negli anni ’70 che, a mio avviso, sono stati anni molto “sociali”, molto culturali, in parte anche molto politici, forse in forma di scorta.
Negli anni ’70, dal punto di vista economico, c’era poco: un po’ di sviluppo di piccola impresa, un po’ di crisi petrolifera, un po’ di crisi della bilancia commerciale, ma l’economico non incideva profondamente nella società. Assai di più c’era nella realtà sociale: la contestazione giovanile, la contestazione generazionale, il femminismo, la grande stagione del sindacato (con i grandi scioperi, la grande spinta per le riforme, il nuovo modello di sviluppo) e, sotto il profilo culturale, i grandi referendum sull’aborto e sul divorzio, lo sviluppo di una piccola e piccolissima impresa che nasceva dal basso, dall’ex artigiano o dall’ex operaio che volevano diventare “qualcosa di più” nella società, lo sviluppo delle realtà locali, da Lumezzane fino a Prato, da Biella fino a Casarano, che rappresentava il ritorno dello sviluppo alla periferia, alla cultura locale, alla storia culturale di questo Paese. Se si pensa agli anni ’70, si deve riconoscere che, nel bene e nel male, sono stati anni molto socio-culturali, in cui i fenomeni sociali – fossero essi la contestazione o lo sviluppo del sindacato e i fenomeni culturali – fossero essi le lotte per l’aborto, il divorzio, la liberazione sessuale, i diritti individuali o fossero invece la spinta individualistica a “fare impresa” o trasformazione del proprio “status” – sono stati gli elementi fondamentali.
Negli anni ’70 – se si vuole – anche due grandi fenomeni politici, quali l’esperimento della solidarietà nazionale e il terrorismo, hanno inciso profondamente sulla società. Nel bene e nel male: non intendo dire, infatti, che tutto quello che è avvenuto nel sociale, nel politico, nel culturale durante lo scorso decennio fosse meraviglioso. Non dico certo che il referendum sull’aborto è stato un’affermazione di valori o che il terrorismo è stato una grande cosa: dico soltanto che la trasformazione avveniva perché nel sociale, nel politico e nel culturale c’erano spinte forti, c’erano persone e movimenti che si impegnavano, c’era qualche cosa che modificava la società dalla sfera socio-culturale-politica. L’economico era in ombra.
Negli anni ’80 registriamo esattamente il contrario. L’economico si modifica radicalmente e fa cambiare la società; il sociale il culturale e il politico è come se non ci fossero. Ho già precisato che non voglio fare una vera e propria conferenza, ma solo una riflessione ad alta voce; permettetemi, quindi, di essere un po’ “tranchant”, un po’ “fazioso” nelle affermazioni. Quando affermo che sociale, culturale e politico è come se non ci fossero, non penso naturalmente che non ci siano per nulla, ma piuttosto che siano in chiara inferiorità psicologica, di affermazione, di presenza, di forza di trasformazione.
Di seguito, farò il tentativo di riassumere le trasformazioni di questi anni ’80 e di dimostrare come la loro logica di lungo periodo sia tutta economica; non economica/economicistica, non economica/tecnicistica, ma una logica economica che diventa fatto sociale. E se qualcosa dobbiamo oggi affrontare in termini di nostra intelligenza è se questa logica, tutto sommato molto “strutturale”, molto “marxiana” (questa società sta cambiando la struttura, mentre la sovrastruttura è in crisi) sia destinata a continuare immutata per i prossimi anni o se, invece, abbiamo la capacità, la cultura, la voglia, la grinta, l’intelligenza, appunto, per modificarla.
Per documentare la mia “faziosità”, che mi porta a dire che da alcuni anni tutto cambia in base a fatti economici e non muta nulla in base a fatti socio-culturali o politici, devo riferirmi a sei recenti grandi fenomeni di trasformazione.
Dal 1980 in poi l’economia italiana ha registrato: un processo di ristrutturazione interna alle aziende, un processo di forte innovazione del prodotto, un processo di espansione dei fattori post-produttivi (in particolare del fattore distributivo delle reti di vendita), un processo notevolissimo di espansione dei consumi di qualità a livello di massa, un processo di intensa finanziarizzazione (cioè di sviluppo della finanza) ed una grossa formazione di sottosistemi finanziari ed economici di tipo oligarchico. Queste radicali trasformazioni meritano ciascuna una rapida riflessione, per ritornare poi sul tema delle difficoltà del politico, del sociale e del culturale nel far fronte a questa ondata di innovazioni di origine economica.
Come accennato, fra il 1980 e il 1982-83 l’economia italiana ha, in primo luogo, subito un grosso processo di ristrutturazione dei processi. Nella cultura collettiva di molti la ristrutturazione è un qualcosa che ha fatto la Fiat, con una grinta “romitiana”, “facendo fuori” il sindacato. La ristrutturazione, dunque, come reimpossessamento da parte dell’impresa delle decisioni su se stessa. Il che è vero, ma soprattutto dal punto di vista giornalistico e cronachistico: la ristrutturazione è stata un processo in cui è risultato evidente che l’impresa recuperava la sua dimensione di autodecisione; non importava affatto che ci fossero i sindacati che urlavano, non importava che ci fossero i brigatisti che sparavano in fabbrica, non interessava affatto che arrivasse Berlinguer ai cancelli di Mirafiori per convalidare col suo timbro prestigioso l’occupazione degli stabilimenti. La Fiat è andata per conto suo.
Se in tutto ciò c’è del vero, si deve però capire che, in realtà, il processo di ristrutturazione è stato molto più complesso, molto più generalizzato. Complesso perché non era soltanto rivolto alla grinta sindacale; generalizzato perché non è stato tipico soltanto della Fiat, della grande impresa del Nord, ma ha coinvolto tutta l’industria, tutte le aziende italiane, anche il commerciante dell’angolo.
Tutti hanno fatto ristrutturazione e la ristrutturazione è stata un fatto complesso, perché si è concretizzata in almeno una decina di operazioni. Ristrutturazione è stata grossa spinta di innovazione nella tecnologia dei processi, larga diffusione dei robot e di altre tecnologie di questo tipo, grande uso di informatica e – in qualche modo – di telematica in azienda, nuova organizzazione del lavoro, eliminazione delle catene di lavorazione e addirittura delle isole, superamento anche di una certa moda di indotto verso l’esterno. La ristrutturazione ha significato, inoltre, un nuovo modo di organizzare, non solo il lavoro, ma anche i rapporti sindacali, i rapporti con i partiti politici, con il clima politico che si era creato, con la gente.
Ristrutturazione è stata forte ricapitalizzazione delle imprese (dai duemila miliardi di aumento di capitale della Fiat dell’84 fino alle modeste ricapitalizzazioni delle piccole imprese, che da aziende di persona diventavano aziende di capitale e, quindi, dovevano almeno avere i duecento milioni di capitale necessari per fare una S.p.A.), grosso aumento del peso dei quadri intermedi – soprattutto degli intermedi informatici, robotici e di qualità medio-alta -, grossa riacquisizione di potere da parte dei quadri direttivi, dei dirigenti e dei managers. Ci sarebbero altre due o tre modificazioni da segnalare – dall’internazionalizzazione ai problemi di strategia, di concentrazione, di appalto o non appalto della produzione – ma bastano questi dieci per chiarire che il processo di ristrutturazione non è stata la rivincita dell’impresa sul sindacato, non è stata la forza di spinta del gene egoista, dell’egoismo aziendale rispetto alla solidarietà di gruppo, alla solidarietà del sindacato, alla forza o ai problemi dei cassintegrati.
Si è già avuto modo di segnalare che la ristrutturazione non è stata solo un fatto complesso, ma anche un processo generalizzato: non si trova nessuna impresa italiana, fosse anche la più piccola azienda di produzione di lampadari di Colle Val d’Elsa, che non abbia fatto ristrutturazione, cioè che non abbia riorganizzato, che non abbia acquisito nuovi macchinari, che non abbia introdotto un po’ di informatica – magari per fare magazzino o contabilità – che non abbia licenziato o messo in cassa integrazione un po’ di lavoratori, che non abbia assunto dei giovani diplomati per fargli fare gli intermedi di buon livello. Tutti hanno fatto ristrutturazione e chi non ha operato in questa linea si è trovato in enorme difficoltà, alcune volte ha rischiato di chiudere, perché ristrutturare significava recuperare efficienza, recuperare competitività, recuperare le regole interne dell’impresa.
Ma anche il negoziante d’angolo ha fatto ristrutturazione; certo non ha messo i robots o ha modificato i macchinari, ma la tecnologia di processo di un negoziante qual è? E’ la stigliatura. E se la stigliatura viene fatta non secondo i canoni tradizionali, ma in modo che vi sia una specie di percorso obbligato a “self-service”, significa che si è intervenuti sulla tecnologia di processo del punto di vendita. Il commerciante non mette in cassa integrazione i quarantamila che ha messo in cassa integrazione la Fiat, però, con il minimarket fatto a percorso obbligato, mette il padrone alla cassa e magari licenzia l’unico commesso che aveva, cioè il cento per cento della forza lavoro. L’informatica Fiat è un’informatica estremamente complessa, mentre l’informatica del negozio d’angolo è un’informatica che va poco al di là della tenuta dei libri contabili, del flusso e del valore delle merci, magari imposto dal registratore di cassa, ma che rivela che anche i piccoli negozi italiani hanno ristrutturato in termini informatici.
Si è trattato, in conclusione, di una generale razionalizzazione e riorganizzazione delle imprese che viene da motivazioni economiche, che è stata pensata secondo una cultura strettamente economico-aziendale, ma che ha avuto effetti socio-culturali-politici enormi. Ha avuto l’effetto sociale di creare disoccupazione adulta, l’effetto culturale di valorizzare le tecnologie di processo e l’informatica l’effetto politico di “rompere la schiena” al sindacato o di aver rotto alcuni atteggiamenti di “appeasement” delle imprese nei confronti di giunte rosse (pensiamo soltanto alla rottura radicale del rapporto fra la giunta rossa di Torino e la Fiat).
In politica, nella cultura, nella società si sono avuti i riscontri di questa ristrutturazione, gli effetti epigonali, ma non c’era la radice dei processi; questa non era nella società, nella cultura, nella politica, ma nell’economia, nell’azienda. E le imprese hanno ormai concepito la ristrutturazione come un’esigenza ed un processo continuo, da realizzare anno per anno, mese per mese, semestre per semestre.
Il secondo processo di trasformazione che desidero, in questa sede, richiamare è stato ancora più forte e dirompente: quello di una forte tendenza ad innovare i prodotti. Le aziende italiane avevano capito che potevano anche licenziare la gente, mettere in fabbrica i robots, fare tanta informatica, producendo quindi i vecchi prodotti a metà costo rispetto a due anni prima, ma i vecchi prodotti non si vendevano più. Dovevano avere dei prodotti nuovi, dovevano avere dei progetti nuovi, dovevano vendere il nuovo.
A partire dal 1981/82 si ritrova, così, la grande spinta di tutti gli imprenditori italiani a fare innovazione di prodotto. Si pensi soltanto alla crisi della Fiat. Non è stata superata solo perché ha fatto la ristrutturazione, ma perché ha “imbroccato” tre modelli: la Ritmo, la Uno specialmente e, adesso, la Thema, cioè perché ha innovato il prodotto. Se avesse continuato a produrre 126, 127, 128, Argenta, e quant’altro produceva a quell’epoca, sarebbe ancora con l’acqua alla gola.
Si pensi, su un altro versante, a cosa sarebbe tutta l’industria dolci” se fosse rimasta ancorata ai prodotti di sei anni fa. E’ sufficiente soltanto citare i due casi di Barilla e Bauli: Barilla che inventa il Mulino Bianco, Barilla che inventa il “rigatone” disegnato da Giugiaro, che inventa addirittura paste nuove, come la “bifora” o le altre in circolazione. Dal canto suo Bauli, in fondo, distrugge il vecchio monopolio del prodotto da forno fresco da ricorrenza (cioè il panettone) attraverso il pandoro e poi scatena sul pandoro altri prodotti di stagione, che vanno dai “primineve” a novembre ai “primifiori” ad aprile, oppure i pandoro farciti di cioccolato, di crema, di non so bene cos’altro. Chi stava sul vecchio prodotto, tipo Alemagna o Motta – cioè sul panettone – non si è rinnovato, è rimasto lì, a Roma dicono “col sedere per terra” non ce l’ha fatta.
L’innovazione del prodotto è diventata un fatto essenziale per tutti e non solo per le imprese Fiat, Barilla, Bauli o Benetton. E’ diventata una esigenza anche per mestieri che non sembravano toccati da questo: il mio mestiere, il ricercatore. Oggi io non potrei dare a un mio cliente lo stesso prodotto che davo sei, cinque o quattro anni fa. Il prodotto “ricerca” in senso tradizionale con uno che prende un argomento, ci fa la ricerca sopra, il questionario, le interviste, raccoglie i dati, non viene più venduto; io sarei fallito se ancora vendessi il prodotto antico. Devo, invece, vendere un prodotto misto, un prodotto di ricerca e di “service”, di ricerca e di consulenza, di ricerca e di simulazione degli effetti di un qualsiasi intervento. Su cinque/sei miliardi di fatturato, i due terzi li faccio con contratti che cinque/sei anni fa non esistevano neppure in termini culturali.
L’innovazione del prodotto è qualcosa che ha modificato di fatto il nostro modo di vivere. Ma, anche qui, non si tratta di un’operazione facile. Per fare l’innovazione di un prodotto ci vuole qualcosa di estremamente sofisticato: bisogna prima di tutto idearlo, sapere che tipo di prodotto può andare. Ad esempio, la produzione “Mulino Bianco” è stata inventata letteralmente da zero, cioè dicendo “ma perché non facciamo questo?”, per iniziativa di Francesco Alberoni, che in quel periodo scriveva di innamoramento, di amore e di altre cose, ma che nella sua professione più vera, che è quella di fare il consulente aziendale, inventava appunto il “Mulino Bianco”.
Ma non ci vuole soltanto una cultura dell’invenzione, cioè la capacità di capire che la società in questo momento è pronta a recepire un biscotto tipo il “Mulino Bianco”, che non è altro che l’industrializzazione della pasticceria da tè che si comprava nella pasticceria sotto casa. E già capire questo significa, in fondo, avere una cultura sociologica profonda.
Ci vuole anche chi disegna questo prodotto, ci vuole chi lo progetta, chi lo commercializza, chi lo pubblicizza, chi “gli sta dietro” il prodotto non è mai solo l’invenzione, il prodotto è un insieme di operazioni. E quel terziario avanzato di cui tanto si parla, in qualche modo è nato ed esploso solo perché c’era da innovare il prodotto.
Che cos’è infatti il terziario avanzato? E’ il design, la consulenza, la progettazione, la commercializzazione, la pubblicità: questo è il terziario avanzato. E non avrebbe spazio, non avrebbe avuto “boom” se non ci fossero state le imprese che per innovare il prodotto chiedevano pubblicità, design, consulenza, progettazione, commercializzazione, eccetera. La società è cambiata, e lo sviluppo del terziario non è avvenuto perché il sociale chiedeva terziario, come hanno pensato, per esempio, i nostri serissimi amici emiliani che hanno fatto il terziario calibrato sul sociale: gli asili nido, le biblioteche comunali; il terziario avanzato in Italia è esploso per induzione industriale.
La società è cambiata, è cambiata la professionalità, è cambiato il gusto, è cambiato il modo di disegnare i prodotti, e di pubblicizzarli. Si pensi ad un manifesto pubblicitario di oggi e ad un manifesto pubblicitario di sei anni fa; oggi le aziende, quando devono lanciare un prodotto, fosse anche un bicchiere, non fanno più un accordo con una società per affidarle poi la campagna pubblicitaria, ma chiedono a sei società di fare sei progetti di campagna pubblicitaria, li pagano tutti e sei, per non avere un preventivo da tre o quattro soldi, e poi scelgono quello che va bene. Con quello che ciò significa in termini di moltiplicazione di occupazione nel terziario avanzato, di piccole società di consulenza, di pubblicità e di progettazione, perché il mercato si allarga. Naturalmente si allarga anche la competizione fra di loro, si affina il livello culturale.
Può darsi che ci sia poi il bluff del terziario, che quelli che fanno terziario siano degli “yuppies” inaccettabili e insopportabili; questo è anche vero, e neanche a me piace tanto questa genia di ragazzotti altezzosi del terziario avanzato. Ma questo non importa; c’è uno spazio diverso rispetto alla cultura della produzione, alla cultura del lavoro, alla cultura del piccolo imprenditore, alla cultura del prodotto “hard” cioè di fabbrica. Qui si produce ricamo sull’aria, disegno, progettazione, pubblicità, però è questo che sta cambiando la società.
Il terzo macro fenomeno, che intendo brevemente richiamare, è – come detto più sopra – quello della crescita dai fattori post-produttivi, e della forza enorme che ha avuto in questi anni il momento distributivo, la rete di vendita.
La cultura vincente è diventata quella commerciale. Le aziende avevano capito che potevano anche aver fatto ristrutturazione, quindi produrre una penna a metà del costo precedente; potevano anche aver fatto innovazione di prodotto, e quindi mettere in produzione una penna con un disegno più raffinato ed attivare una campagna pubblicitaria molto forte. Però se non hai la rete di vendita, se non sai come commercializzare questo prodotto, tu resti con il prodotto in mano.
Da qui è nata questa attenzione, fra l’83 e l’85, al momento distributivo. Se uno non aveva la rete distributiva, ha cercato disperatamente di farsela. Chi non aveva la rete distributiva, ha cercato di avere un accordo con qualche rete già esistente o di comprarsene una.
Si pensi ad esempio ad una realtà qual è quella di Benetton. Benetton oggi non produce più nulla: se uno va a Treviso e dice: “dov’è lo stabilimento Benetton?”, lo guardano stravolti, perché non c’è uno stabilimento Benetton, c’è soltanto la sede di Benetton, da cui dipendono duemilacinquecento negozi. Benetton fa produrre i suoi prodotti dai terzisti, gente cioè che lavora per proprio conto, che arriva fino a Termoli, cioè a 450 km da Treviso. Il grosso sta a Carpi, vicino a Modena, buona parte sta ancora nelle Marche, ma si arriva fino a Termoli. Benetton è una rete di vendita, che consente di sapere ogni giorno che cosa viene venduto il giorno precedente, se è stato venduto più un golf rosso o un golf verde, più un golf rosso bordeau o rosso bandiera, più un golf rosso con l’apertura alla marinara o un golf rosso con l’apertura alla militare, col collettino fatto in una maniera o in un’altra. La produzione segue.
Si è realizzata un’inversione mentale, che molti di noi non hanno ancora fatto, un’inversione mentale totale, dove il vero problema è quello di “stare nella rete distributiva”, perché la rete distributiva ha due vantaggi. In primo luogo si prende il grosso del valore aggiunto, ricaricando del 50%, del 100% i costi di acquisto, pagando i produttori a 120/180 giorni, portando sul produttore le spese di pubblicità locale, eccetera. Ci sono settori, ad esempio le piastrelle o le scarpe, che vivono sostanzialmente prigionieri della forza di chi commercializza, perché non sanno commercializzare in proprio, non possono commercializzare in proprio. Solo adesso i piastrellari di Sassuolo fanno la loro “trading” per distribuire in proprio e non essere prigionieri dei loro commercializzatori, ed i calzaturieri del Brenta cominciano a far da soli la parte commerciale.
Il valore aggiunto va prevalentemente sul momento commerciale; chiunque produca qualcosa e lo deve distribuire sa che vende a quaranta il prodotto che poi il commercializzatore metterà in vendita a cento.
Questo è il primo grande vantaggio della trasformazione in termini distributivi del sistema. Ma la seconda grande forza che deriva da questo mutamento consiste nel fatto che chi ha in mano la rete distributiva ha anche un grande flusso di ritorno di informazioni che gli permette di fare strategia nuova. Se io so che si vende di più, in questo periodo, un certo tipo di piastrelle, o un certo tipo di libro, o un certo tipo di golf, o un certo tipo di scarpa, non devo produrre milioni di pezzi che poi mi restano in carico. Organizzo la produzione in modo tale da avere un costante rapporto con il mercato, anche se non riesco a raggiungere i vertici di un Benetton, che è mostruoso dal punto di vista organizzativo (riesce a produrre praticamente su ordinazione, perché rimpiazza quello che è stato venduto il giorno prima e, quindi, non ha magazzino, non ha costi, non ha appesantimenti).
Nessuno sa, ad esempio, che Gianni Versace, che non è Benetton, ma è una “griffe”, una firma, un grande stilista, uno da collezione e da sfilate, oggi ha centodieci negozi diffusi in tutto il mondo. Significa che anche lui segue, dal suo angolo visuale, con la sua cultura “artigiana”, la stessa logica di Benetton: deve avere la rete, senza rete non si vende.
Si capisce allora perché anche i grandi capitalisti italiani sono andati a far politica di distribuzione. Agnelli si è ricomprato Rinascente, che aveva precipitosamente abbandonato dieci anni fa; Schimberni si tiene stretto Euromercato e Standa perché sono fonte di potere economico nei confronti di potenziali concorrenti su altre realtà; la Lega delle Cooperative deve la sua forza alla catena di supermercati fatti propri; lo stesso Carlo Bonomi, pure sconfitto l’altro anno nella rotta sulla BI-Invest, si è tenuto una sola cosa, la Postalmarket, cioè una rete distributiva di fondo; e Carlo De Benedetti, che pure è un personaggio di grande innovazione, i due grandi “slam” che ha cercato di fare, i due grandi colpi sono stati, sull’Italia, l’acquisto della SME e, sull’Europa, l’acquisto della catena distributiva della Beatrice Food americana. E la SME per lui non era la ditta Cirio che produce cipolline sott’olio o pisellini; per De Benedetti la SME era l’ultima grande catena di supermercati ancora in vendita, cioè la GS, ed era tutta la catena degli autogrill delle autostrade: Pavesi, Motta, Alemagna.
Il capitalismo è diventato negli ultimi anni un capitalismo distributivo, proprio perché c’è questa forza del momento della vendita. Ma non è soltanto la forza del venditore, è la forza della capacità di avere rapporto con la realtà, di avere rapporto diretto con il consumatore attraverso una buona rete di vendita, in assenza della quale per arrivare al consumatore devi incrementare di tre volte la pubblicità che fai. Lo stesso Barilla, che aveva avuto sempre pessimi rapporti con la distribuzione ed ha “litigato” con Standa, con GS, con tutti i supermercati italiani, alla fine, per avere una forza di contrattazione con la distribuzione, ha dovuto rincarare la dose della pubblicità, perché il consumatore finale sapesse che se un negozio non ha i prodotti del “Mulino Bianco” è un negozio di serie B.
In questo momento il capitalismo italiano è un capitalismo di distribuzione, così come avviene nelle altre aree di sviluppo del mondo. Andate in giro in America e trovate, ad esempio, che nei supermercati la pasta italiana è venduta in busta bianca con il timbro del supermercato: non c’è scritto sopra Agnesi, De Cecco o Buitoni, ma c’è il timbro del distributore, perché è il distributore che garantisce addirittura la qualità dell’origine. Nell’epoca del metanolo in Germania c’erano i negozi di vini tedeschi che dicevano “vino italiano garantito dal negoziante, garantito dal distributore”, non da chi l’aveva fabbricato. Il distributore diventa un elemento essenziale.
La quarta grande trasformazione che si è verificata negli ultimi anni è riconducibile all’aumento di dimensione del mercato di tipo medio-alto. Il mercato italiano, negli anni ’70, era un mercato molto schizofrenico; da una parte c’era il consumo di base, lo zoccolo basso, che era proprio uno zoccolo di mediocrità, e sopra di esso c’era, invece, un sovrazzoccolo estremamente variabile, nell’ambito del quale si ritrovavano anche cose raffinatissime: c’era la Cinquecento Fiat e c’era la Maserati. Non c’erano fasce intermedie. C’era questa specie di grande “split” fra il mercato raffinato alto e il mercato basso, che sembrava adagiato su una “quota trenta” rispetto a un massimo di cento, con pochissimi prodotti che arrivavano a novantacinque-cento, ma che duravano pochissimo ed erano patrimonio di segmenti piccolissimi di consumatori.
Oggi invece cosa sta succedendo? Si sta verificando un compattamento al centro, un compattamento sulla fascia medio-alta dei livelli di consumo. Non abbiamo più tanto la Maserati o la Ferrari (anche se ce ne sono ancora), ma abbiamo delle macchine che vanno a coprire un segmento di mercato molto più ampio: pensate qual è la strategia della 190 Mercedes, seguita in qualche modo con grande intelligenza dalla Lancia Thema Fiat. La Thema ha sfondato non come ammiraglia di pochi, ma ha sfondato come macchina – non dico di uso comune perché io non l’ho e molti altri non l’avranno – di ampia diffusione.
Da sotto, non si è rimasti alla fascia mediocre dello zoccolo basso (la 500, la 126, la 127), ma si è sparato un prodotto, la Uno per esempio – potrei dire la 305 Peugeot, o la Renault 5 degli ultimi anni – che in qualche modo ha spostato il livello più in alto; lo zoccolo non è più uno zoccolo di mediocrità, ma è uno zoccolo di buona qualità. E’ come se il mercato, che una volta era per grandissima parte sotto i trenta e per pochissimi a livello fra i novantacinque e i cento, si sia spostato fra i cinquanta e gli ottanta, dove la distanza fra la Uno Turbo e la Thema o la Croma non è poi così tanta, in termini di prestazioni, di gusto della guida, eccetera. C’è un processo di compattamento in alto.
Questa è una strategia di mercato chiarissima tra le imprese, che va a rivolgersi ad una lenta evoluzione dei consumi e che sta cambiando anche il gusto di tutti quanti noi. E’ l’azienda che viene incontro ad una nostra tendenza ad avere qualità di massa, qualità di massa nel prodotto di abbigliamento, nel prodotto automobilistico, nel prodotto alimentare (in effetti dalle paste alimentari al tipo di surgelati presenti sul mercato si vede una trasformazione enorme). Se uno pensa che il sovrazzoccolo più sofisticato, che era Gualtiero Marchesi, produce prodotti da bancone di supermercato, surgelati, cioè anche lui sbassa il sovrazzoccolo e va su fasce medio-alte, si comprende che tutto viene portato ad una dimensione di massa, ma di alta qualità.
Lascerei ora questo tema, che mi pare piuttosto evidente, per passare brevemente alla quinta trasformazione in atto nella nostra realtà. Non ci perdo molto tempo, anche perché è a tutti nota: la formazione di un grande processo di finanziarizzazione. La finanza è diventata il protagonista degli ultimi due anni, o almeno dell’ultimo anno e mezzo. La borsa è passata da un indice Comit che stava sotto i trecento quasi a quota mille, i fondi di investimento hanno raccolto enormi risorse e la stessa vendita dei titoli del Tesoro è andata negli ultimi tempi benissimo.
Tutti ormai parlano di finanza. Non c’è giornale quotidiano o settimanale che non abbia le sue pagine economiche (addirittura alcuni hanno l’inserto), non ci sono realtà locali che non abbiano anche il loro giornaletto finanziario di alto livello, penso a “Milano Finanza”, non c’è, in pratica, edicola che non abbia il suo “Gente Money” o “Guida ai fondi di investimento”. La, finanza è diventata un fatto invasivo di tutte le nostre vite, anche di quelle che forse non avevano il gusto per la finanza, ma un sano gusto di produrre frigoriferi o di produrre scarpe.
Come Censis abbiamo fatto una ricerca sui borsini delle banche locali, dove si trova della gente incredibile: dal diciottenne che non è andato a lezione alla scuola media o superiore, fino alla casalinga, al pensionato che ha tutte le quotazioni, addirittura quelli che si chiamano in questo momento i “grafisti”, cioè quelli che sanno fare i grafici, le curve, “giocano” solo sulla base di queste.
Io sono uno di quelli che ha scritto e ha litigato su questo peso che abbiamo dato tutti al momento finanziario, perché ritengo sia stato un errore, una montatura. Peraltro avevamo una così forte sottofinanziarizzazione (una borsa inesistente, solo un’intermediazione bancaria e nessun prodotto effettivo) che un processo di recupero doveva avere questa forte spinta. In fondo, la finanza ha fatto quello che avevano già fatto le imprese, cioè ha inventato qualche prodotto relativamente nuovo, come il fondo di investimento o una polizza integrativa di pensione, ha fatto una innovazione di prodotto e una innovazione sulla rete di vendita, perché i fondi di investimento hanno avuto la capacità – pensiamo a Fideuram di riscoprire il porta a porta, cioè un modo di distribuzione non più attraverso la banca, ma tramite una struttura di distribuzione e rete nuove.
La politica stessa ne è stata condizionata; penso a certi miei colloqui con il Presidente del Consiglio, recentemente, entusiasta del fatto di essere stato alla borsa di Milano, dove ha avuto la percezione che sta cambiando tutto. Vagli a dire che non è vero, che non cambiava tutto, che i processi sono più lenti; la politica si è anch’essa sborniata di finanza.
Anche perché la finanza crea ricchezze nuove, crea possibilità di guadagni nuovi, crea – se si vuole – modi nuovi di fare tangenti (perché senza dover portare la valigetta con i soldini, basta comprare – e si può azioni al momento in cui vengono emesse, farsi dare dalle banche la prelazione sulle azioni e rivenderle il giorno dopo, e il partito guadagna quello che gli basta a vivere per un mese). E alcune emissioni molto chiacchierate di azioni nuove sono state governate da questi processi politici di finanziarizzazione, anche della tangente.
La finanza ha cambiato il mondo, ha cambiato questo paese in un anno e mezzo; pur essendo un processo abbastanza bolso, un processo non del tutto rivoluzionario, ha modificato profondamente la realtà socioeconomica.
L’ultima tendenza che vorrei sottolineare, maturata in questi sei anni, è la formazione di sottosistemi oligarchici, un fenomeno analizzato in dettaglio nell’ultimo rapporto del Censis.
Cosa significa il termine “sottosistema”? Significa la formazione di strutture economiche – strettamente economiche – che “hanno dentro” funzioni diverse collegate fra di loro, e che portano chi gestisce il sottosistema ad una presa di vertice di tipo oligarchico sulla società, provocando una diminuzione della presa dei soggetti semplici, degli operatori di base.
Faccio alcuni esempi. Il sottosistema che mi ha colpito per primo poi siamo andati a rivederne altri con il rapporto Censis di quest’anno – è stato il “sottosistema IMI”.
L’IMI è un sottosistema di credito speciale, che dovrebbe quindi fare credito a medio termine, in ottemperanza alla sua legge istitutiva. In realtà, l’IMI ha anche una banca ordinaria, la Manusardi, una rete di vendita dei fondi, Fideuram, con i suoi trecento agenti, che da venditori porta a porta sono ritornati ad essere consulenti finanziari, ma potremmo dire sono degli sportelli bancari impropri. L’IMI ha, inoltre, una società di gestione, una sorta di Mediobanca moderna, che è la Sige, due società di partecipazioni in aziende diverse (è di oggi la notizia che partecipa ad un consorzio di grandi aziende di opere pubbliche, quindi diventa azionista, non soltanto gestore), una fiduciaria, tre banche all’estero, società di leasing e di factoring, sta tentando di entrare nel credito al consumo attraverso l’acquisto di carte di credito.
Non è più, dunque, un istituto di medio credito, non è più una banca di medio termine, ma è un sottosistema, nel quale la differenziazione settoriale è governata da una interazione intersettoriale molto forte. Ed è un sottosistema che può vivere soltanto se nei singoli ambiti si esprime meglio di quanto già c’è. Per cui – che so io – l’IMI, che è entrata negli ultimi due anni anche nel settore assicurativo attraverso la Fideuram Vita, deve fare assicurazione meglio di come la fa l’INA, o la Toro, o la SAI, di come la fa la Phoenix Soleil, o le Generali e la Fondiaria. In effetti, se voi andate a vedere le strategie assicurative di Fideuram. Vita, trovate li la maggiore innovazione del momento; ad esempio, le polizze per i ventenni, sfruttando il mammismo italiano.
Ora, questo per dire che se, nel fare sottosistema, uno deve fare la banca d’affari, non può fare una banca d’affari di serie B, deve fare una banca d’affari come la Sige, che diventa competitiva, addirittura mette in crisi Mediobanca, che era il tempio tradizionale della finanza italiana. L’IMI esprime, pertanto, un potere oligarchico, non solo perché governa un software in orizzontale di tanti settori, ma anche perché dispone del meglio dei vari settori, il meglio dell’assicurazione, il meglio della banca d’affari, il meglio della banca ordinaria (la banca ordinaria dell’IMI, cioè la Manusardi, ha uno sportello solo a Milano, ma ha un volume d’affari di trecentocinquanta miliardi potenziale). Ma l’evoluzione dell’IMI cominciano a seguirla anche altri. Con il rapporto Censis abbiamo fatto un’analisi, per esempio, della strategia di CREDIOP, un’altra banca di medio termine pubblica, per far vedere le somiglianze con quella dell’IMI. E quando noi siamo usciti a dicembre 1986, abbiamo ricevuto una lettera di CREDIOP che segnalava alcune omissioni. Infatti noi abbiamo lavorato sul bilancio semestrale del CREDIOP, al 30 giugno 1986, e loro, dal 30 giugno ai primi di gennaio 1987, hanno fatto due società di leasing, una di factoring, hanno comprato il 14% del Banco Ambrosiano, e non so bene cos’altro; cioè anche loro hanno seguito lo stesso processo. Così come, per certi versi, la stessa Montedison e la stessa Banca Nazionale del Lavoro hanno tendenza a fare sottosistema.
A questo punto, chiudo allora la mia lunga cavalcata sugli ultimi sei anni con una domanda. Questi sei processi – ristrutturazione, innovazione dei processi, forza delle reti distributive, qualità medio-alta dei consumi, crescita di sottosistemi, finanziarizzazione – stanno cambiando l’Italia. Ma che c’è nel sociale, nel politico, nel culturale, di altrettanto importante?
Che cosa sono stati questi sei anni sul piano culturale? Il nulla. Basta rileggersi gli ultimi sei mesi di giornali: roba da vergognarsi. L’estate l’abbiamo passata nella discussione sui saccopelisti e sulle canzoni dei gondolieri a Venezia.
Ed in campo politico è un anno e mezzo che parliamo solo di staffetta. Non c’è neppure una linea di programma: ma che si fa dopo la staffetta? Che facciamo: una legge diversa da quella che stiamo pensando oggi? No, perché oggi non c’è nessuna legge e domani non ci sarà egualmente.
Si pensi poi alla tematica dello scontro fra le classi, fra i gruppi sociali, fra le generazioni: c’è, forse, uno scontro fra generazioni? I figli sembra vogliano stare comunque in casa, c’è una tendenza addirittura alla reinfetazione. I nostri giovani sembrano quelli che, a Roma, vengono individuati con la seguente frase: “io qui resto perché qui mi ci riscaldo”, cioè io sto bene. Le nostre ricerche sui giovani dei quartieri dell’ELTR o di Jesi o della provincia di Ancona dimostrano che l’85% dei disoccupati giovanili fra i venticinque e i trent’anni, quelli che si dichiarano disoccupati giovanili, dichiarano di essere “agiati”. Abbiamo la figura nuovissima del disoccupato agiato, che è un po’ strana, ma deriva probabilmente dal fatto che stanno in famiglia, hanno un lavoretto di mezzo tempo.
La tensione generazionale, dunque, non esiste, ma la tensione di classe: dove sta la tensione di classe? La tensione fra i gruppi sociali, anche le grandi rincorse e battaglie corporative: le giungle corporative, le giungle categoriali. Non c’è stato nessuno che abbia detto che gli ultimi contratti della pubblica amministrazione per gli impiegati e gli insegnanti sono una follia, perché danno un avvio di recupero di inflazione notevolissimo. Ma che ci importa? Perché dobbiamo litigare con i maestri dei nostri ragazzini? Ma per carità, stiamo buoni! Gli hanno dato duecentomila lire di aumento, il che significa in termini percentuali altro che il tetto dell’inflazione. Due anni fa, cinque anni fa avremmo gridato; qui nessuno, nemmeno il tondinaro più focoso di Brescia, dice: “ma come, qui la spesa pubblica va a pallino perché sono stati dati i soldi agli statali!”.
Il processo evolutivo di questi ultimi tempi è un processo in cui l’economico vince su tutto, il sociale non esiste, dove sta il sociale? Il massimo che sappiamo evocare è il concetto di solidarietà. Dio l’abbia in gloria, per carità, nessuno lo nega; però che significa oggi solidarietà, se non un processo di ridistribuzione, molto spesso un processo di decongestionamento delle responsabilità, piuttosto che un impulso che viene da una tensione sociale.
Le società non vivono di buone maniere o dì buoni sentimenti; vivono di tensioni, di comportamenti che sono legati a forze endogene, che vengono dal sottosuolo della realtà sociale, come sono venute le tensioni generazionali, la tensione della nuova imprenditoria locale e del localismo, la tensione a liberarsi dei vincoli morali, giuridici, ecclesiali, dell’aborto, del divorzio, degli impegni diversi, e non so di che cos’altro. La società vive se ci sono tensioni profonde, tensioni calde, tensioni sanguigne, non se ci sono valutazioni pacate del tipo: “qui bisogna fare qualcosa di serio e di pulito, di preciso, di solidale e di organizzativamente importante”.
Abbiamo invece una società che non ha nel suo versante sociale, culturale e politico una forza paragonabile alla forza delle strutture economiche. Se ci si pensa bene, i sei fenomeni sopra indicati finiscono per creare delle situazioni nuove anche sul piano ideologico-culturale. Ad esempio, la finanziarizzazione ed i sottosistemi, i due più recenti, finiscono per creare una situazione di sostanziale indifferenziazione fra pubblico e privato. Si verifica, infatti, un tentativo, una tendenza a fare di questi grandi sottosistemi oligarchici, sottosistemi di presenza congiunta di pubblico e di privato insieme. L’IMI è presente in alcuni casi come ente pubblico, ma in altri diventa socio di privati, o diventa il mallevatore di alcune grandi operazioni dei privati, dall’aumento di capitale di META alla stessa operazione, sembra, della scalata di Gardini.
E dove sta il confine fra pubblico e privato? C’è un mix fra pubblico e privato nel sottosistema. Ideologicamente noi siamo ancora divisi fra chi difende il pubblico perché è importante e chi ritiene di essere moderno dicendo che è ora di privatizzare. Ma il ”locus” alchemico del nuovo in questo momento sta nel mix tra il pubblico e privato, non nella loro distinzione.
Così come la storia di questi sei anni di economia ci fa rendere conto che il ”locus” alchemico dell’innovazione è spostato dai livelli di base – il piccolo imprenditore, il localismo, la periferia, la lotta di gruppo sociale al primo piano, al livello intermedio, al formarsi dei circuiti finanziari, al formarsi di mercati medio-alti di qualità di massa, al formarsi dei sottosistemi. Slitta in alto la formazione del nuovo, slitta nel mix, nel continuo fra pubblico e privato.
Per uno come me che fa mestiere da intellettuale, quindi un mestiere culturale, da quarant’anni attento al sociale, con una presenza quotidiana nel rapporto con i politici, dentro le cose di palazzo, quello che stiamo vivendo è uno dei periodi più frustranti. Perché, da intellettuale, vedo che non c’è più cultura, da attento ai fatti sociali vedo che non vi sono tensioni sociali, da uomo che capisce o almeno frequenta la politica vedo che la politica non c’è, non esiste.
La logica di evoluzione di lungo periodo della società italiana si è, in questi cinque anni, trasformata radicalmente. Quella che sembrava una società con forte autocoscienza, con forte autodominio, con forte capacità di fare cultura in proprio, diventa una società che invece recepisce dall’economico l’innovazione. Come ho cercato di spiegare, l’economico cambia sei volte in sei anni, il culturale non cambia. Il sociale è fesso, fesso nel senso di stoppaccioso, e il politico è inesistente.
Può vivere una società con questo squilibrio forte? Chi vede i problemi economici non può che dire che questa è una società vitale, ricca, forte, che va avanti, che è cambiata. E chi vive, invece, la realtà culturale si ritrova, come deve fare il mio amico Alberoni, ad occuparsi di AIDS, di paura e di preoccupazioni, di bellezza delle donne, di cose che non incidono più, non incidono più perché sono tutto sommato la fine.
La cultura e la società secolarizzano se stesse. Ma la politica che cosa produce? La staffetta, che riguarda soltanto i politici, i quali, se dovessero porsi il problema: “noi in questa società chi siamo, che facciamo”, probabilmente non avrebbero una risposta lontana dal suicidio.
I gruppi sociali o coloro che guidano i gruppi sociali, pensiamo al sindacato, che deve fare in una società come questa? O abbozza, come ha abbozzato in questi ultimi sei anni o se no su che cosa fa una battaglia? Sul porto di Genova dove non ha neppure un iscritto?
C’è questa specie di dissoluzione progressiva del sociale, del culturale e del politico, che naturalmente crea, come ho detto prima, una frustrazione ed, a mio avviso, anche una preoccupazione per questa società che non ha alimentazione di nuova cultura, in cui le tensioni non esistono più, in cui i fenomeni sociali sono sempre meno capaci di incidere, perché tutto viene in qualche modo spappolato.
Si pensi soltanto ad una realtà che ci ha colpiti tutti: il terrorismo. Che cos’è il terrorismo oggi? Il terrorismo oggi è una cosa impressionante, per me che vado ogni mese, ogni quaranta giorni in galera a Rebibbia, dove alcuni vogliono parlarmi. Un anno fa si andava a Rebibbia con questi dissociati, con questa gente, e c’era un dialogo con loro; magari la prima volta abbiamo fatto urli stratosferici, loro mi accusavano di essere un “reazionario fottuto”, io li accusavo di altre cose, però poi abbiamo parlato tanto e si creava un rapporto in cui c’era, sia da parte loro che da parte mia, un tentativo di capire per superare il fenomeno. Perché io gliel’ho detto: “non potete chiedere a me, come a Bachelet, di mettere semplicemente una pietra sopra, che non se ne parli più, perché noi siamo cattolici e perdoniamo. No a me dovete spiegare che è successo, perché non è pensabile che abbiate ammazzato tre o quattro amici e poi non mi spiegate neppure perché”. C’è stato , insomma, un contrasto enorme Sono tornato adesso, prima e dopo Natale, ed in sei-sette mesi è cambiato tutto, la maggior parte di queste persone vive soltanto nella speranza di andar fuori. Non si riconoscono più in un’identità, in un gruppo sociale omogeneo, ma ognuno di loro percorre vie diverse: uno ha la libertà provvisoria, uno può uscire soltanto la mattina, un altro ha la possibilità di andare a lavorare fuori, altri sono agli arresti domiciliari; ognuno ha un percorso diverso forse perché – loro dicono – il “regime” ha spappolato questa identità collettiva.
Ma loro stessi di fronte a me vogliono parlare d’altro, mi hanno chiesto se posso dare, come Censis, del lavoro di elaborazione dati, visto che la Charitas di Roma gli ha regalato quattro piccoli personal computers. Gliel’ho dato, a dicembre; quindici milioni di elaborazioni di calcolo, ma mi sono ritrovato l’altro giorno, quando sono tornato, con una tensione spaventosa, perché quelli che avevano firmato il contratto, quelli che stanno fuori, in libertà provvisoria o agli arresti domiciliari, si sono presi tutto il lavoro loro e non l’hanno mandato in carcere. Emerge l’egoismo più duro, più cattivo, c’è addirittura la lotta per la “struggle of life”, la lotta per vivere, perché quelli che stanno agli arresti domiciliari, magari con un padre e una madre vecchi, con la luce tagliata perché non pagano la bolletta, sono portati a sfruttare una possibilità dì lavoro per due mesi.
Su un altro versante, mi viene spontaneo richiamare la più recente intervista rilasciata all’Espresso da una donna come Rossana Rossanda. E’ un’intervista allucinante, di una bellezza stilistica meravigliosa, è una delle cose più belle che io abbia letto – a parte il fatto che fa anche una citazione su di me, ma questo è un aspetto secondario, anche perché precisa che non è affatto d’accordo con quello che dico io -. Ma quello che è impressionante è che questa donna dice: “non sono una pentita, però mi rendo conto che, nel difendere sempre, negli ultimi venti anni, la coerenza di quello che pensavo, ho rinsecchito me e ho rinsecchito tutti coloro che mi hanno vissuto accanto”. E finisce, in un modo struggente, dicendo che se ha un rimpianto è quello del figlio che non ha mai voluto, che le sovviene quando, girando per le strade, vede qualche trentenne e pensa che potrebbe essere suo figlio.
Qui non siamo più al riflusso, che – d’altro canto – la Rossanda non avrebbe mai fatto, ma siamo alla constatazione che “l’unica cosa che ho è la mia vita”, che mi sembra la dimensione vincente di tante realtà. L una storia di rifugio nell’esistenziale, di rifugio nel fatto che quello che posso gestire non è il rapporto con la società, non è il rapporto con le proposte culturali, non è il rapporto con la politica, ma è il rapporto con me stesso, nella coerenza o nel rimpianto di non aver voluto figli, nel fregarsi quei pochi soldini che il Censis dà ai carcerati, nel desiderio di poter tornare in Italia di Scalzone senza pagar dazio. Non c’è in questa società il disegno di una cultura, di una umanità, di una forza della società che non sia questa del rifugio, non del riflusso nel personale, nel privato, ma proprio in questa dimensione esistenziale della vita.
Può darsi che le società non possano vivere sempre di tutto e non possano essere di fatto compatte; che, cioè, una società come quella italiana abbia potuto avere un decennio di primazia del sociale, di primato della politica, di primato della cultura, e che oggi debba vivere di un primato dell’economia, mentre il singolo ritorna alla sua vita, ritorna al parametro che “l’unica cosa che ho è la mia vita”. E’ questa una sorta di ulteriore spinta al soggettivo, un soggettivo in cui però non c’è la responsabilità. C’è alcune volte il gioco, la cerimonia, il peccato, la competizione.
A cena con amici ricordavo la figura del dottor Cuccia che a ottant’anni ha ancora una specie di tensione fortissima a difendere la sua immagine prima di morire, perché l’unica cosa che ha anche lui è la sua vita e la sua immagine di vita, il che, da un certo punto di vista; è anche bello.
Ma quello che appare più evidente in questa spinta al soggettivismo è il fatto che – e qui se volete parlo da cattolico – che qui manca l'”Altro”.
Il vero problema dei prossimi dieci-quindici anni non è di sapere se i processi economici ci daranno consistenza facendoci magari arrivare dal quinto al quarto posto nella graduatoria dei paesi industrializzati del mondo (io credo che ci arriveremo, perché chi gira la Francia sa che sta già dietro di noi). Non è questo, il vero problema.
Ciò che importa è se noi che facciamo cultura, che facciamo società, noi che facciamo Chiesa, avremo la capacità – prima della fine del secolo – di rilanciare cultura, società, forse anche politica. E rilanciarla non nei discorsi generali di rifare un progetto a lungo termine, un piano a medio termine o di rianimare l’utopia e l’ideologia, ma di rilanciarla nella radice di fondo che abbiamo perso, cioè il rapporto con l’Altro, la responsabilità verso l’Altro, perché da lì comincia la cultura, da lì comincia la società, da lì comincia la politica. Per esempio, noi che pure siamo giustamente così attenti a fare volontariato, a fare solidarietà sociale, dobbiamo sapere che non è possibile rilanciare la solidarietà sociale e il volontariato se non abbiamo questo messaggio da portare, e cioè che quello che è importante è il rapporto con l’Altro.
L’etica moderna, l’etica post-heideggeriana, post-lévystraussiana, post-ermeneutica, l’etica moderna è un’etica dell’Altro, un’etica della responsabilità dell’Altro. In fondo, se oggi una cosa si può leggere seriamente è Levinas, perché Levinas ci riporta, da ebreo, a questo rapporto con l’Altro, quando dice: “Le colpe verso il Signore ti saranno perdonate nel giorno del kippur, le colpe verso l’Altro non ti saranno perdonate nel giorno del kippur”. Lì sta la radice della società moderna, la radice della responsabilità religiosa, la radice fondante del fare politica, del fare società, del fare cultura: le colpe verso l’Altro; non tanto le colpe verso il Signore, meno ancora le colpe verso se stesso. Ché il Signore è onnipotente, è onniscente, ma l’altro no, e pertanto tu ne sei responsabile.
Un altro versetto talmudico, che è molto bello e dove si ritrova la radice della cultura moderna, della cultura che ci spetta di fatto, della cultura di cui abbiamo necessità per rilanciare società e politica, è il versetto che dice: “se non do conto di me, chi darà conto di me? ma se do conto di me, sono ancora io?”. L’identità individualista, quella che dà conto solo di se stessa, è infatti del tutto vanificata se non c’è rapporto con l’Altro.
Ecco, io sono partito da una logica molto economicistica, ma a me sembrava giusto dare l’idea che, sul piano tecnico-economico, questa società le sue linee di evoluzione le ha e le ha fortissime, probabilmente a livelli di competizione forte con tutti gli altri paesi del mondo. Quello che non ha, quello che sta perdendo – la colpa sarà dei giornali, della televisione, dei maestri elementari, degli insegnanti, dei ricercatori, degli intellettuali, dei politici, degli organizzatori sindacali, o non so, della Chiesa quello che sta perdendo è proprio questa dimensione di fare politica, di fare cultura, di fare società. Ma la radice comune a questa triplice crisi, del sociale, del culturale e del politico, sta proprio in questa specie di rinserramento nel fatto che l’unica cosa che ho è la mia vita e questo quasi patologico rispondere solo di noi stessi, non sapendo che, in questa logica, alla fine non siamo più neppure noi stessi nel profondo.
NOTA: testo, non rivisto dal’Autore, della conferenza tenuta a Brescia su invito della Cooperativa Cattolico-democratica di Cultura il 30.1.1987.