La mia prima pietra d’inciampo fu in realtà una pozzanghera. Diciassette anni fa, nella stazione ferroviaria di Udine, mi aggiravo come un sonnambulo, quando inavvertitamente, in una piazzola accanto ai binari, misi il piede nell’acqua. Ebbi l’impressione che qualcuno volesse dirmi: guarda dove stai camminando! Era l’inizio di un viaggio, compiuto con mezzi un poco al di sotto del bisogno, verso il campo di concentramento di Auschwitz. Sapevo dove andare, ma non avevo ancora conquistato il ritardo necessario a capire la tensione che mi animava.
Quel passo falso mi aiutò a trovarlo: avevo rischiato di scivolare nel punto in cui mia madre era riuscita a scappare da un treno di deportati, durante la Seconda guerra mondiale. Qualche giorno prima della fuga, favorita da un uomo che aveva portato via la prigioniera in bicicletta, mio nonno, partigiano antifascista, era stato fucilato dai nazisti, insieme a nove cittadini italiani. Credo che gli esseri umani siano il frutto di innumerevoli congiunture storiche e biologiche dalle quali derivano le azioni che poi scelgono di compiere.
Era prevedibile che uno come me incrociasse le Stolpersteine, piccole targhe incastrate a terra da Gunten Demnig in numerosi paesi europei: l’operazione di questo artista tedesco cominciò proprio al tempo in cui io decisi di rompere il silenzio che mia madre aveva sempre mantenuto. Le pietre d’inciampo hanno punteggiato le ricerche che andavo facendo, fuori e dentro me stesso, rimescolando nel passato torbido del Vecchio Continente: a partire da quelle poste a Roma, la mia città, troppe volte divelte e oltraggiate da teppisti fragili e rabbiosi, ne ricordo diverse a Colonia, al tempo in cui la mia testa era tutta rivolta ad Heinrich Böll; ad Amburgo, vicino alla stazione ferroviaria distrutta e più volte ricostruita, e soprattutto a Berlino, nello stesso istante fucile e bersaglio del Novecento, dove mi ero messo sulle tracce di Dietrich Bonhoeffer. A queste ultime ho voluto dare una voce in un libro dedicato alla capitale tedesca:
“Tanti visitatori camminano sopra di noi. Ci calpestano, ma siamo contente. L’ottone è stato scelto apposta per questo: a forza di strusciarci sopra, viene tirato a lucido e colpisce lo sguardo, stimolando il ricordo. Molti sostengono che Berlino sbagli a voltarsi indietro, dovrebbe andare avanti, non continuare a costruire monumenti e memoriali. Queste persone non si rendono conto che ogni generazione ricomincia da capo e quello che per alcuni può essere scontato, ad altri appare inedito. Noi siamo felici quando vediamo gruppi di scolaresche lavorare alle pietre d’inciampo, come previsto dal progetto di Demnig: studiano i documenti d’archivio, fanno interviste ai parenti delle vittime, partecipano alle installazioni e ne propongono di nuove”.
Mi capita spesso di parlare della Shoah. A un certo punto pronuncio sempre la stessa frase che ora ripeto anche qui, in occasione della posa in opera di nove pietre d’inciampo davanti alle residenze di altrettanti deportati bresciani mai più ritornati a casa: “Se mia madre non fosse scappata, il 2 agosto del 1944 alla stazione di Udine, io e mio fratello non saremmo nati.”
Negli anni mi sono accorto che questa dichiarazione non riguarda soltanto me. Lo capisco specialmente a scuola. Ammiro i tatuaggi di Ivan, sorrido alle battute di Fabrizio, spiego Rosso Malpelo a Fausto, illustro il Risorgimento ad Alì, gioco a pallone con Luca e penso: se ricombinassi in altro modo quelle parole, esse accenderebbero una luce rossa dentro ognuno di loro. Così è accaduto, circa un anno fa quando ho invitato Piero Terracina, uno degli ultimi reduci di Auschwitz, a parlare ai miei studenti alla “Città dei Ragazzi”. L’incontro si è rivelato talmente intenso che Piero ha ricevuto la cittadinanza onoraria della celebre comunità educativa fondata nel 1951 da monsignor Joseph Patrick Carroll Abbing.
Gli stessi adolescenti inquieti e smarriti, incapaci di stare fermi sui banchi anche un solo minuto, indisciplinati, ripetenti, sempre in corsa, sono rimasti bloccati per due ore di fila, seduti sulle gradinate dell’assemblea, occhi fissi, pugno sotto il mento, ad ascoltare attoniti il racconto del grande vecchio, a osservare con sguardo incantato la cicatrice del numero tatuato sull’avambraccio.
La medesima convinzione che aveva spinto me a interrogare il volto del nonno nella foto sbiadita sul comodino di mia madre agiva in loro. A maggior ragione molti giovani presenti potrebbero affermare: “Proprio perché Mario Ballerio, Roberto Carrara, Angelo Cottinelli, Alberto Dalla Volta, Guido Dalla Volta, Emilio Falconi, Severino Fratus, Domenico Pertica e Andrea Trebeschi non ce l’hanno fatta, proprio per questo noi siamo qui.”
Per definire il singolare rapporto che lega chi vive a chi non c’è più sarei tentato, visto il luogo in cui ci troviamo, di usare l’indimenticabile espressione coniata da Ugo Foscolo nel carme I sepolcri pubblicato a Brescia oltre duecento anni fa dall’editore Bettoni: “corrispondenza d’amorosi sensi”. Ma questi versi, che illuminarono la mia giovinezza scontrosa e solitaria, non mi bastano più. Un cuore di tenebra pulsa nel fango e io lo interrogo. Le pietre d’inciampo bresciane, lo abbiamo appena detto, sono nove. Guido e Alberto Dalla Volta, padre e figlio, abitavano in Piazza Vittoria n. 11. Il 1 dicembre 1943 era stato arrestato il capofamiglia, di origine mantovana, trasferitosi a Brescia nel 1936 dove aveva rilevato un negozio di forniture mediche. Alberto aveva studiato nel liceo scientifico “Calini”. All’università scelse chimica industriale. Quando seppe che suo padre era in questura, non esitò a raggiungerlo e venne arrestato insieme a lui. La madre, Emma, e il figlio più piccolo, Paolo, riuscirono a porsi in salvo a Magno, paesino di montagna, grazie all’aiuto disinteressato della famiglia Rizzini che li ospitò sino alla fine della guerra.
Il destino ha voluto che i due deportati, dopo essere tragicamente scomparsi, Guido nella camera a gas l’11 novembre 1944, Alberto quasi sicuramente in una marcia della morte, entrassero nella storia della letteratura italiana dove molti di noi, assai prima di essere qui a celebrarne il ricordo, li hanno conosciuti. La fonte, preziosa quant’altre mai, è Primo Levi.
Alberto e Primo sembravano gemelli, non solo fisicamente. Entrambi avevano studiato chimica, erano razionali, lucidi, intelligenti. Divennero subito amici. Ma questa definizione è insufficiente. Amico è troppo poco. Siamo di fronte a un rapporto speciale. I due giovani, poco più che ventenni, si erano incrociati nel campo di smistamento di Fossoli, ma avevano stretto un legame profondo durante la deportazione, nel viaggio ferroviario all’interno del vagone che, come sappiamo, partì da Fossoli il 22 febbraio 1944 e raggiunse Auschwitz quattro giorni dopo. Per comprendere cosa ci fosse in Alberto ad attirare Primo dobbiamo rileggere l’opera del grande scrittore. Da Se questo è un uomo:
Alberto è il mio migliore amico. Non ha che ventidue anni, due meno di me, ma nessuno di noi italiani ha dimostrato capacità di adattamento simili alle sue. Alberto è entrato in Lager a testa alta, e vive in Lager illeso e incorrotto. (…)
Ho sempre visto, e ancora vedo in lui, la rara figura dell’uomo forte e mite, contro cui si spuntano le armi della notte.
Nella Tregua, il libro dell’incredibile tortuoso ritorno, resta indelebile il ricordo di Flora, l’italiana delle cantine di Buna, una ex prostituta di provincia, finita in Germania con l’organizzazione Todt, pronta a regalare il pane ai due Häftlinge spaventati e intimoriti, che s’innamorano di lei e, dopo che Alberto ha regalato un pettine alla ragazza, se la sognano di notte, quasi ritrovando un mondo che credevano perduto e nemmeno tanto scalfito dalla scoperta che Flora aveva convegno con altri uomini.
Cerio, uno dei racconti del Sistema periodico, rievoca il piccolo commercio dei cilindretti rubati nel laboratorio di chimica. Ai timori e agli scoraggiamenti di Primo, Alberto contrappone una volontà indomita e fiera.
Per lui la rinuncia, il pessimismo, lo sconforto, erano abominevoli e colpevoli: non accettava l’universo concentrazionario, lo rifiutava con l’istinto e con la ragione, non se ne lasciava inquinare. Era un uomo di volontà buona e forte, ed era miracolosamente rimasto libero, e libere erano le sue parole ed i suoi atti: non aveva abbassato il capo, non aveva piegato la schiena. Un suo gesto, una sua parola, un suo rigo, avevano virtù liberatorie, erano un buco nel tessuto rigido del Lager, e tutti quelli che lo avvicinavano se ne accorgevano, anche coloro che non capivano la sua lingua. Credo che nessuno, in quel luogo, sia stato amato quanto lui.
La forza incrollabile di Alberto subirà un’incrinatura soltanto quando il padre Guido, nella grande selezione dell’ottobre 1944, verrà scelto per il gas. Una sorte che il figlio non accetterà arrivando a negare l’evidenza. Così leggiamo in una pagina amara dei Sommersi e i salvati:
Alberto cambiò, nel giro di poche ore. Aveva sentito voci che gli sembravano degne di fede: i russi erano vicini, i tedeschi non avrebbero più osato persistere nella strage, quella non era una selezione come le altre, non era per le camere a gas, era stata fatta per scegliere i prigionieri indeboliti ma recuperabili, come suo padre, appunto, che era molto stanco e non ammalato; anzi lui sapeva perfino dove li avrebbero mandati, a Jaworzno, non lontano, in un campo speciale per convalescenti adatti soltanto per lavori leggeri. Naturalmente il padre non fu più visto, ed Alberto stesso scomparve durante la marcia di evacuazione del campo, nel gennaio 1945.
Il futuro scrittore aveva diviso tutto con Alberto: il cibo che si poteva raccattare anche grazie al puro altruismo di pochi giusti, come scopriamo in Il ritorno di Lorenzo, uno dei testi più belli della raccolta Lilit, e perfino il preziosissimo pacco dono ricevuto dall’Italia, la cui metà verrà rubata: è il tema di L’ultimo Natale di guerra.
Ma proprio una scodella di zuppa, che Primo ricevette da un polacco in cambio di una dozzina di tubetti di vetro usati per trasferire i liquidi nei laboratori di chimica, risultò fatale. Chi poteva averla lasciata ancora mezza piena se non un malato incapace di mangiarla tutta? È una storia incredibile che lo stesso Levi rivelò in uno dei suoi ultimi racconti dal titolo Pipetta da guerra:
Quella sera stessa io e il mio amico ed alter ego Alberto ci spartimmo quella zuppa così sospetta. Alberto aveva la mia età, la mia statura, il mio carattere e il mio mestiere, e dormivamo nella stessa cuccetta. Ci somigliavamo perfino un poco, i compagni stranieri e il Kapo ritenevano superfluo distinguere fra noi, e pretendevano che quando chiamavano “Alberto!” o “Primo!” rispondesse comunque quello di noi che era più vicino.
Eravamo dunque per così dire intercambiabili, e chiunque avrebbe pronosticato per noi due lo stesso destino: entrambi sommersi o entrambi salvati. Ma proprio a questo punto entrò in funzione l’ago dello scambio, la piccola causa degli effetti determinanti. Alberto aveva avuto la scarlattina da bambino, ed era immune; io invece no.
Mi accorsi delle conseguenze della nostra imprudenza pochi giorni dopo. Alla sveglia, mentre Alberto stava bene, a me la gola doleva intensamente; stentavo a deglutire e avevo la febbre alta.
Quella malattia, come sappiamo, salverà Primo perché gli consentirà di restare nell’infermeria fino all’arrivo dei russi, che lo raccoglieranno ormai allo stremo delle forze insieme a pochi altri compagni. Alberto invece, non contagiato dalla scarlattina, lascerà il campo ancora sotto le grinfie delle SS per affrontare il temibile inverno polacco.
Mai titolo fu più stupefacente dei Sommersi e i salvati: come il vecchio marinaio di Coleridge, citato in esergo, non sa resistere alla forza che lo spinge a rievocare, ancora una volta, lui, unico sopravvissuto, la storia agghiacciante patita insieme ai suoi amici affogati nell’ingordo oceano, così Primo Levi sente di dover tornare a ricordare una catastrofe, non naturale, bensì provocata da uomini contro altri uomini. È questa la tremenda responsabilità del salvato che scrive in nome di chi non ha potuto farlo, pur essendo dolorosamente consapevole della clamorosa insufficienza che avranno le sue parole: coloro che sono stati davvero “sul fondo” avrebbero potuto testimoniare una verità indicibile da chi, per fortuna, destino, capacità, egoismo, piccole o grandi cause, vallo a capire, è riemerso.
Ecco perché le due pietre d’inciampo che poste in Piazza Vittoria n. 11, a Brescia, possiedono un valore speciale. Alberto non era soltanto l’alter ego di Primo Levi. Sapendo quanto lo scrittore piemontese amasse Joseph Conrad, potremmo considerarlo il suo “compagno segreto”, se non addirittura la spina nel fianco che, fino all’ultimo, non smise di pungerlo. Ma ora che i protagonisti della Shoah, per evidenti ragioni anagrafiche, stanno per lasciarci raggiungendo i sommersi, la spina di Primo Levi passa a noi. Ed io credo che molte persone oggi, gli adulti ma soprattutto i giovani, siano pronte a raccoglierla.
Testo pubblicato nel n. 108, dicembre 2012, della rivista Città & Dintorni.