Fu «esilio» o «preludio» a un più alto ufficio la stagione ambrosiana di Giovan Battista Montini? Su questi due stereotipi, così cari a chi invece di lavorare a concrete ricerche storiche fa dietrologia, si è giocato per tanto tempo nel ripercorrere quella tappa importante dell’itinerario umano e sacerdotale di colui che fu per otto anni, dal 1955 al 1963, arcivescovo di Milano. Certamente a Milano – che aveva avuto vescovi della statura e santità di vita di un cardinal Ferrari e di un Idelfonso Schuster – Montini giunse dopo un ventennio di lavoro svolto da un osservatorio di prim’ordine, la Segreteria di Stato, e in campi importanti ma pur sempre limitati, come la Fuci e il Movimento Laureati Cattolici.
La completezza pastorale era tutta da conquistare e le decisioni operative avrebbero messo duramente alla prova non tanto il suo coraggio in campo sociale, quanto uno stile di vita ed un tipo di approccio ai problemi reali, essendo venuto a vivere in una metropoli tanto diversa e lontana non solo dalla Città del Vaticano, ma anche da Roma capitale: la Milano degli Anni Cinquanta, città complessa, tumultuosa nel suo processo di crescita e di modernizzazione, dove il patto di convivenza civile non metteva affatto a tacere non solo le differenze, ma le opposizioni e i rifiuti, fuori e dentro il mondo cattolico.
Che cosa significò. Dunque, per l’arcivescovo Montini l’esperienza milanese? Ci aiuta ad entrare, per così dire, nel problema il volume, fresco di stampa, Giovanni Battista Montini – Religione e lavoro nella Milano degli anni ’50 , edito dalla Morcelliana di Brescia. Questa ricerca è opera di Giselda Adornata, già nota per aver raccolto scritti e discorsi di Montini proprio in tema di lavoro; ed è opera penetrante, senza preconcetti fini apologetici, tale cioè da far risaltare non solo i risultati positivi del periodo montiniano per la diocesi milanese, ma anche le resistenze non vinte, le illusioni, e dunque, la «lezione» che dall’impatto con una realtà moderno-urbana come Milano seppe trarre un uomo di fine intelligenza e di evangelica disponibilità come Montini. Da un certo punto di vista, la tanto abusata antinomia «esilio-preludio» viene composta e superata, se si guarda al risultato finale: se la nomina a Milano, come vescovo e solo in seguito anche come cardinale, fu voluta da tutto un certo «partito romano», timoroso della carica di potenzialità innovative che l’addetto alla Segreteria di Stato indubbiamente rappresentava, quell’«esilio», gettando Montini nel cuore stesso della dura e affascinante realtà pastorale, diventò per lui scuola di vita, un’esperienza formativa necessaria, anche con i suoi scacchi, di cui il «Monsignorino», diplomatico e intellettuale di razza, aveva certamente bisogno.
Insomma, senza l’esperienza ambrosiana – senza l’assillo e le tensioni che accompagnarono lo sforzo del vescovo di Milano per capire il mondo del lavoro e per costruire ex novo un più profondo rapporto tra la Chiesa e i lavoratori – avremmo avuto da Paolo VI due contributi alla questione sociale come la Populorum progressio nel ’67 e quel testo maggiore, nella forma minore di una «lettera apostolica», l’Octogesimo adveniens del 14 maggio 1971? Quanto gli veniva dalla sua formazione bresciana e dal lungo tirocinio romano sarebbe bastato a fare di Giovanni Battista Montini Papa Paolo VI? Forse no.
Questa mi pare sia la meditata convinzione anche dell’illustre prefatore, Giorgio Rumi, per il quale il Montini dei difficili rapporti con le Acli e con l’impresa «non esce dalle pagine di questo libro come conquistatore e tanto meno come uomo di successo o di potere».
Il dramma di Montini vescovo fu quello di affrontare problemi che erano in gestazione e su cui era arduo conciliare esigenze opposte, ugualmente da lui riconosciute come legittime. Come salvaguardare l’ispirazione cristiana delle Acli e della Cisl e nel contempo evitarne assolutamente la clericalizzazione? Come rendere operanti i valori del solidarismo cristiano nell’acuirsi dello scontro sociale? Come realizzare una nuova spiritualità nel mondo dei lavoratori nel momento stesso in cui il fascino dell’ideologia marxista tendeva a subordinarli a una visione della vita che nega la stessa dimensione religiosa? In qual modo riconoscere la specificità del mondo del lavoro e della produzione e far avanzare in esso una presenza cristiana caratterizzante? E, d’altra parte, molti degli interlocutori cattolici, forti della loro fedeltà cristiana e della loro lunga milizia, univano al senso del servizio una ruvida, gelosa coscienza della loro piena autonomia e non si facevano illusioni sulla riduzione, allora forte in Usa, del problema della giustizia sociale a quello delle «relazioni umane» in fabbrica, come pensavano invece i dirigenti dell’Unione cattolica italiana dirigenti d’industria.
Alla fin fine, il giudizio più equo sulla stagione ambrosiana dell’arcivescovo Montini mi è sembrato quello riportato dall’Adornato nelle pagine conclusive dell’interessante volume: «A Milano l’azione di Montini fu rivolta a tre mete: anzitutto a risvegliare una religiosità profonda come quella che sola può vincere la pressione esercitata dalla infatuazione tecnica, economicistica, materialista, edonista di questo nostro tempo. In secondo luogo a fare unità tra i cattolici attorno al grande, immutabile ma sempre nuovo messaggio della Chiesa… In terzo luogo a cercare, a incontrare e abbracciare i lontani» . Quel giudizio, apparso su «L’Italia» il 22 giugno del ’63, all’indomani della elezione di Montini a pontefice, era di Giuseppe Lazzati.
Giornale di Brescia, 6 novembre 1988.