A Dachau era diretto nel novembre del 1943, con duecento ebrei, Bernhard Lichtenberg, la personalità cattolica di maggior spicco della capitale del Reich, dopo il vescovo Preysing. Era la conclusione a cui lo avevano condotto le scelte fatte e i rischi consapevolmente affrontati nel suo ministero. Lichtenberg aveva letto e annotato i due classici dell’ideologia nazista, La mia battaglia di Hitler e Il mito del XX secolo di Rosenberg, e dal trionfo di idee criminali non si attendeva che crimini. I capi del nazismo lo conoscevano bene; egli, infatti, era sulle barricate contro di loro ancor prima che afferrassero il potere. Presidente della «Comunità di lavoro delle confessioni cristiane per la pace», fu additato al linciaggio da Goebbels.
Nessuna meraviglia, quindi, se dopo il 1933 i nazisti incominciarono a praticare nei suoi confronti perquisizioni e minacce di ogni genere. Temevano tanto il coraggio di quell’uomo pacifico che il giorno successivo alla «notte dei cristalli», il 10 dicembre del 1938, accerchiarono la cattedrale per premunirsi da una eventuale azione di forza del prevosto. Tuttavia, alla preghiera serale, Lichtenberg osò dire: «Ciò che è accaduto ieri lo sappiamo, lo abbiamo vissuto: brucia la sinagoga ed è anch’essa casa di Dio». E cominciò la preghiera pubblica per gli ebrei perseguitati, per i quali organizzò presso il vescovado in modo continuativo l’«Opera di soccorso».
Nell’autunno del 1941 l’offensiva antiebraica toccò il culmine. Dal 15 settembre gli ebrei dovettero portare la stella di David e la scritta «giudeo». Era il preludio alle deportazioni in massa e all’annientamento. Un ignobile volantino anonimo, stilato da Goebbels, incitava a odiare e a denunciare gli ebrei. Lichtenberg sentì ancora una volta il dovere di professare a viso aperto, in maniera solenne, il rifiuto del razzismo e la piena solidarietà con gli ebrei minacciati di genocidio. Conosceva gli avversari e quindi anche il pericolo. Stilò in otto righe un fermo avvertimento ai fedeli perché non si lasciassero sviare dall’odio razziale, venendo meno al comandamento supremo dell’amore. Voleva leggerlo la domenica successiva alla distribuzione del volantino; ma il giovedì fu tratto in arresto. Due studentesse fanatizzate, non berlinesi, entrate per curiosità nel duomo, avevano ascoltato le accorate invocazioni del prevosto «per gli ebrei, per i prigionieri nei campi di concentramento, per i milioni di profughi senza nome e senza patria, per i soldati dell’una e dell’altra parte, per le città bombardate in un Paese amico o nemico» e lo avevano denunciato alla Gestapo.
Il verbale dell’interrogatorio del 30 ottobre 1941 – lo si può leggere nel libro di Otto Ogiermann, Contro il nazismo un martire cristiano, tradotto in italiano dalla Morcelliana di Brescia – è un documento straordinario di chiarezza interiore e di coraggio. Lichtenberg spiega ad una ad una le annotazioni da lui scritte a margine delle pagine de La mia battaglia. «Se il popolo tedesco deve venir portato alla convinzione d’essere incondizionatamente superiore agli altri popoli, questi non si lasceranno imporre il suo dominio e sarà la guerra…Nelle sedute del Reichstag parla solo il Führer e poi la riunione si scioglie; dunque in Germania si pensa con un solo cervello… Bisogna opporsi alla esaltazione totalitaria dell’assemblea di massa: le persone che si sentono sicure solo nel branco, sono dei vili…». E così una contestazione segue all’altra. Di più: è lo stesso Lichtenberg che tira le somme dei chiarimenti dati: «Per finire, vorrei osservare che le annotazioni a margine da me fatte nel libro Mein Kampf dimostrano che non mi sono accontentato di una lettura superficiale.È stato lo studio intensivo di quel libro a confermarmi nella convinzione che la visione della vita nazionalsocialista è inconciliabile con la dottrina e i precetti della Chiesa cattolica». Nel dibattimento al Tribunale speciale, Lichtenberg non cerca e non offre alcuna chance né a se stesso, né all’avversario. Richiesto su che cosa avesse da replicare, Lichtenberg rispose: «Signor Procuratore dello Stato, vorrei ringraziarla per una cosa sola: lei ha riconosciuto che non mi debbano essere concesse circostanze attenuanti, non potendo assolutamente contare su un cambiamento di sentimenti dell’imputato. Ciò è puntualmente esatto e io di ciò la ringrazio». Lichtenberg ringrazia, dunque, per la motivazione della sentenza, che accerta la «incorreggibilità» della sua scelta; ma lo fa, accompagnandola con una confessione della propria vulnerabilità d’una grandezza che scuote e commuove: «Signori, in questi mesi, dall’ottobre 1941 in poi, ho sperimentato molte cose. È stato un periodo ricco di grazie dietro le mura del carcere. Ringrazio Dio che negli ultimi mesi non sono stato costretto a soccombere alla disperazione. Vi sono, infatti, ore in cui anche un prete è tentato di disperare».
Dopo la condanna, Lichtenberg entrò nel carcere di Berlino-Tegel, dove sperimentò in maniera crudele la fame, il freddo, l’altalena tra lazzaretto e carcere, le malattie renali e cardiache e, soprattutto, le orribili torture. Di due infamanti episodi di tortura scrisse poi a Pio XII e al vescovo di Berlino il compagno di prigionia, il pastore evangelico dottor Schulze. Fu, infatti, sotto le terribili randellate di Satana che le due confessioni cristiane, la cattolica e la protestante, riscoprirono, nella comune assunzione della croce di Cristo, il senso della ecumenicità, il bisogno di concrescere di nuovo a formare una unione organica. Il vescovo di Berlino chiese di avere un colloquio col suo fedele amico. Era giustamente convinto che Lichtenberg avesse fatto fino in fondo la sua parte e che ora occorresse trarlo fuori dalla prigione. C’era una sola condizione della Gestapo: di non predicare fino alla conclusione della guerra. La risposta di Lichtenberg fu: «Non posso. Se noi preti tacciamo, la gente perde del tutto la bussola e non sa più dove andare». L’indomito prevosto fu allora aggregato a un contingente di ebrei incamminati verso il lager di Dachau, accomunato in tutto al destino di quei fratelli perseguitati, come egli stesso più volte aveva chiesto. Nel campo intermedio di Wuhlehide conobbe ancora insulti e bestiali bastonature. Ultima stazione, la prigione di Hof.
Pio XII, che aveva fatto comunicare dal vescovo di Berlino all’eroico prete la riconoscenza della Chiesa cattolica e la personale affettuosa partecipazione alle sue sofferenze, scrisse di averne appreso la morte «con profonda mestizia, ma anche con un senso di intimo conforto». Lichtenberg, infatti, era caduto per tutto ciò che doveva allora e deve sempre essere difeso da un cristiano.
Giornale di Brescia, 20 settembre 1987.