Giornale di Brescia, 7 ottobre 1998
Il titolo dell’ultima opera di Edith Stein è Scientia crucis: la scrisse quando era già al Carmelo, ed è una esposizione della dottrina di san Giovanni della Croce; può tuttavia servire come motto per scandire le tappe della sua vita. Una vita iniziata serenamente a Breslavia nel l891, in una famiglia ebrea retta con mano ferma da una donna (la madre era rimasta vedova quando Edith aveva due anni) che fa invincibilmente pensare alla donna forte descritta nel libro dei Proverbi. La morte prematura del padre aveva reso dure le condizioni economiche della famiglia. In una lettera di una sorella di Edith, Erna, di poco maggiore di lei, si dice: “Vivemmo per molti anni nella povertà. Solo verso il 1910 avemmo una vita più agiata”. Ma l’agiatezza non chiuse nell’egoismo la famiglia Stein: la madre era pronta ad aiutare chi ne aveva bisogno, fosse bisogno di legna per scaldarsi (mandava avanti la famiglia dirigendo una azienda per il commercio di legname), fosse bisogno di aiuto per proseguire gli studi all’università. Questo amore del prossimo aveva un fondamento profondamente religioso. Dice infatti H. I. Marrou nella sua mirabile prefazione alla biografia di E. di Miribel: “Edith Stein non è arrivata a Dio partendo da zero – partendo da quella assenza di Dio, da quel deserto spirituale nel quale erra la miseria di tanti nostri fratelli di oggi – ma è stata una figlia di Abramo, una erede del Popolo della promessa. Occorre ricordare, in una parola, poiché troppi cristiani in Occidente si compiacciono di ignorarlo, quale era la profondità della fede, la nobiltà morale, l’intensità di vita religiosa in quelle famiglie ebree ortodosse dell’Europa centrale e orientale, eredi di tanti secoli di fedeltà e di raccoglimento”.
Ma, se forte rimase sempre l’impronta morale dell’educazione ricevuta, si obnubilò in Edith la fede religiosa: non risulta precisamente quando ella si sia staccata dalla fede della madre, ma certo negli anni universitari si dichiarava atea. Si iscrisse alla Facoltà di filosofia dell’Università di Breslavia, ma dopo quattro semestri desiderò cambiare sede (cosa molto comune fra gli studenti tedeschi) e nel 1913 si trasferì a Gottinga. “Cara vecchia Gottinga – scrive Edith – credo che solo chi vi ha studiato nel breve periodo di fioritura della scuola fenomenologica, fra il 1905 e il 1914, può misurare ciò che vibra in noi all’udire questo nome”. La descrizione che Edith fa di quegli anni universitari è divertente: la si può leggere nella biografia di madre Teresa Renata. Vita di studio intenso, ma anche di letizia. Insegnava allora a Gottinga il filosofo Edmund Husserl, il capo della scuola fenomenologica: Edith, che era andata a Gottinga proprio per ascoltarlo, entrò nel gruppo dei fenomenologi, il che voleva dire non solo seguire le lezioni e partecipare ai seminari, ma frequentare anche la casa di Husserl e affrontare il giudizio di Malvina, la onnipresente moglie del filosofo. Voleva dire anche partecipare alla“Società filosofica”, un gruppo di persone che si riunivano per discutere liberamente di problemi filosofici. L’anno in cui Edith entrò a far parte del gruppo fu invitato a parlare Max Scheler e da lui per la prima volta ella sentì esporre da un filosofo una concezione religiosa. Di Husserl l’affascinava la “radicale onestà intellettuale” (sono sue parole), di Scheler l’affermazione che esistono sfere di realtà oltre quelle conoscibili dalla ragione, e tuttavia essenziali all’uomo. Un altro passo verso la religione, e più precisamente verso la religione cristiana, fu compiuto da Edith quando andò a trovare la vedova di Adolf Reinach (colui che l’aveva presentata a Husserl), morto in guerra nel 1917. Edith si aspettava di trovare disperazione nella vedova, e invece trovò l’accettazione della Croce. “Fu il primo incontro con la Croce, la mia prima esperienza della forza divina che dalla Croce emana e si comunica a quelli che l’abbracciano”.
Tuttavia la preparazione remota alla sua conversione fu la sua sete di verità. Lo dice lei stessa: “La mia sete di verità era una preghiera continua”. Così, preparata da lontano, la decisione fu rapida. Mi attengo a ciò che ne dice madre Teresa Renata, che lo ha quasi certamente udito da Edith stessa. Trovata per caso nella biblioteca di amici la Vita di santa Teresa d’Avila, scritta da lei stessa, si mise a leggerla e ne fu presa a tal punto da continuare la lettura per tutta la notte, fino alla fine del libro. “Quando lo chiusi, dovetti confessare a me stessa: questa è la verità!”. Chiese il battesimo e lo ricevette il 1° gennaio del 1922. Ma dopo la gioia di avere trovato la verità, venne anche la croce: la pena di dover confessare alla madre il distacco dalla religione della famiglia. Edith non nascose alla madre la sua conversione, come avrebbe potuto fare facilmente, poiché anche dopo la conversione, consigliata da sacerdoti intelligenti, probabilmente dallo stesso abate di Beuron, suo direttore spirituale, continuò ad accompagnare la madre alla sinagoga, meravigliandola perché recitava con lei i salmi. Ma Edith non era da compromessi e confessò candidamente alla madre: “Mamma, sono cattolica”. E la donna che, con un eroismo degno degli antichi patriarchi, aveva saputo affrontare tutte le dure prove della vedovanza, che da sola era stata capace di preparare sette figli alla vita, questa vera donna forte, in quel momento pianse. Era ciò che Edith non si aspettava: ella non aveva mai visto una lacrima negli occhi di sua madre. Era preparata a ricevere aspri rimproveri… perfino ad essere cacciata di casa, e invece la donna forte piangeva!” Pianse anche la figlia. “Ognuna di loro – scrive madre Teresa Renata – forte e invincibile nella propria fede, offriva sull’intimo altare del proprio cuore l’olocausto reclamato dalle leggi immutabili dell’Altissimo”.
Intanto Edith era diventata da alcuni anni assistente di Husserl e come tale lavorò a riordinare i manoscritti del maestro e tenne un seminario per preparare gli studenti alle lezioni di lui. Nel 1923 lasciò il lavoro di assistente per dedicarsi all’insegnamento del tedesco nell’Istituto magistrale diretto dalle Suore domenicane a Spira. Qui, lo dice lei stessa, senza essere suora, viveva come una suora, anzi con maggiore impegno di preghiera, poiché recitava ogni giorno il Breviario. Trascorreva poi ogni anno la Settimana santa presso l’abbazia benedettina di Beuron per seguirne più intensamente la liturgia. E cercò anche, lei studiosa di filosofia, di rendere più consapevole la sua adesione al cristianesimo studiando le opere di san Tommaso d’Aquino, del quale tradusse in tedesco le Quaestiones disputatae de veritate; si accinse pure ad un’ampia opera teoretica ispirata al pensiero di san Tommaso: Essere finito ed essere eterno. Più che in questo libro, tuttavia, il suo pensiero mi sembra riflettersi nello scritto Vie per la conoscenza di Dio. La Stein vi commenta l’opera dello Pseudo-Dionigi Areopagita nella quale mi sembra che ella si trovasse pienamente a suo agio. Edith veniva dalla fenomenologia e aveva una vocazione mistica: si trovava quindi a suo agio in una visione del mondo come simbolo delle realtà divine, nella teologia negativa che sottolinea l’ineffabilità di Dio, dell’abisso dell’essere, che le spianava la strada all’esperienza a quella notte dei sensi e alla notte dello spirito di cui parla san Giovanni della Croce come via all’unione mistica.
Un capitolo dell’ultimo libro di Edith Stein é intitolato La Croce e la notte. La notte, il silenzio lo preparava lei con la sua vita di preghiera, la Croce gliela preparavano gli altri (come del resto la prepararono a Nostro Signore). Dietro consiglio di persone autorevoli nel mondo cattolico, Edith si era adoperata per ottenere una docenza universitaria e l’aveva ottenuta nel 1932, ma poté esercitarla solo per un anno perché, andato al potere Hitler, fu negato agli ebrei il diritto di insegnare (erano colpiti coloro che non erano di razza ariana: non importava di che religione fossero). Era l’inizio della persecuzione: Edith, che aveva avuto, fin dalla conversione, il desiderio di una vita contemplativa, vide in questo una porta aperta all’esercizio della sua più profonda vocazione e chiese di essere accettata al Carmelo di Colonia. Ma doveva comunicare alla vecchia madre la sua decisione, e il congedo dalla casa materna fu particolarmente doloroso. Al Carmelo, Edith che prese il nome di Suor Teresa Benedetta della Croce, rifiorì: all’austerità era abituata e al noviziato, lei quarantenne, con alle spalle una vita di studio e di rapporti con intellettuali, si adattò benissimo con le sue giovani compagne. Ai lavori manuali non aveva attitudine (“sa cucire?” aveva chiesto una suorina quando la comunità doveva decidere se accettarla) ma ci si impegnava con serietà, pur riconoscendo senza dispetto e senza far tragedie la sua inettitudine. Ma la Croce incalzava. Ogni settimana Edith scriveva una lettera alla madre, e non riceveva risposta. La madre morì il 14 settembre del 1936; ora il 14 settembre si rinnovano al Carmelo i voti religiosi: “Quando venne il mio turno, scrive suor Teresa Benedetta, mia madre fu con me. Sentii chiaramente che mi era vicina”. E in quel momento la madre moriva. In una lettera del 4 ottobre 1936 suor Teresa Benedetta scrisse: “La notizia della conversione di mia madre è del tutto infondata. Chi l’abbia inventata non so: mia madre ha conservato la sua fede fino all’ultimo. Ma poiché questa e la sua fiducia nel Signore hanno perseverato dalla prima infanzia fino ai suoi ottantasette anni, e sono state l’ultima scintilla rimasta viva in lei durante la sua agonia, ho fiducia che ella abbia trovato un giudice molto benigno, e sia diventata la mia sollecita protettrice per aiutarmi ad arrivare a mia volta alla meta”.
Nel 1938 la vita di un’ebrea in Germania (che fosse cristiana o monaca non contava) divenne difficile anche al Carmelo, e le sue superiori chiesero al Carmelo di Echt, in Olanda, di accoglierla. Ma il diluvio arrivò anche in Olanda con la guerra, e suor Teresa Benedetta non fece in tempo a emigrare in Svizzera. H. I. Marrou scrive a proposito dei tentativi, purtroppo falliti, di sottrarsi alla persecuzione da parte di suor Teresa Benedetta: “Riconosco in questi tentativi il comportamento che ebbero storicamente i nostri più autentici, più grandi martiri. Durante le persecuzioni dei primi secoli i capi della Chiesa esortavano i fedeli a non esporsi da sé alla polizia romana. Erano i montanisti, eretici, ed altri tipi di esaltati quelli che prendevano l’iniziativa di andare incontro al supplizio (salvo poi a cedere sotto tortura): i santi sapevano che il martirio è una grazia, la più alta di tutte, e che non è permesso tentare il Signore nostro Dio. Così vediamo i grandi martiri del II e III secolo sfuggire alle persecuzioni, nella misura delle loro forze, e darsi alla macchia”. Il 2 agosto del 1942 due membri delle SS si presentarono al Carmelo di Echt e ordinarono a suor Teresa Benedetta di uscire con loro, in cinque minuti. La caricarono su un camion e la portarono nel campo di raccolta di Westerbork. Poi fu trasferita “verso Oriente”. Non si hanno notizie precise sulla sua fine. Si crede – si spera – che sia stata uccisa dopo pochi giorni, il 9 il 10 agosto, nelle camere a gas di Auschwitz. Da Westerbork poté mandare due biglietti alla sua priora, In uno di questi è scritto. “Sono contenta di tutto. Una scientia crucis si può acquistare solo se la Croce si sente pesare in tutta la sua pesantezza. Di questo sono stata convinta fina dal primo momento, e ho detto di tutto cuore: Ave Crux, spes unica”.