Chi ha vissuto le grandi speranze che per l’Africa rappresentò l’anno 1960 – l’anno in cui ben diciassette Paesi a sud del Sahara ottennero l’indipendenza – non può nascondere il suo disappunto nel tracciare un bilancio dei trent’anni di autogoverno africano. Certamente, a partire da quell’anno, il continente africano è padrone del suo destino, ma l’Africa Nera ha malamente imitato l’economia degli ex-Stati colonizzatori, deviando dallo sviluppo dell’agricoltura l’aiuto finanziario dell’Occidente. Avendo constatato che, salvo poche felici eccezioni, il trapianto di progetti e criteri di sviluppo propri delle società occidentali in tre decenni non è riuscito, oggi, nel 1991, ci si domanda se nei prossimi lustri l’Africa Nera potrà finalmente decollare ed avviarsi ad uno sviluppo economico tale da garantirle l’autosufficienza e l’uscita dall’area dell’assistenza.
Su questi problemi abbiamo interpellato un eminente studioso francese, Jacques Giri, un ingegnere minerario divenuto uno dei più autorevoli consulenti internazionali sulle questioni dello sviluppo economico africano, in questi giorni ospite della nostra città per dare il suo alto contributo al IX Colloquio Internazionale su “Pace, diritti dell’uomo, sviluppo dei popoli.”
– Attraverso quali esperienze, signor Giri, lei è venuto a conoscenza della realtà del continente africano? Le profonde diversità delle situazioni geo-politiche ed economiche come si possono situare in un quadro d’insieme che abbia una sua plausibilità?
“L’ho raccontato nel mio libro Africa in crisi, edito in Italia dalla Sei di Torino, una casa editrice che ha intitolato un’intera collana “la nuova Africa”. Misi piede in quel continente per la prima volta nel 1957 e da quel lontano giorno ne ho seguito ininterrottamente le vicende, tentando per vie diverse di contribuire al suo sviluppo. Nei miei numerosi viaggi e soggiorni ho maturato una salda amicizia sia verso gli uomini sia verso la terra africana, ricavandone profondi arricchimenti, ma anche altrettanto profonde delusioni. Quanto poi alla seconda domanda io credo sia quanto mai opportuno tener ferma una tripartizione dell’Africa. Il Nord dell’Africa – il Maghreb, la Libia e l’Egitto – appartiene al mondo arabo e sta a sé; in un certo senso è eterogeneo rispetto al resto dell’Africa anche il Sud Africa, così come le sue dépendances, perché è troppo forte in quelle zone la presenza di popolazioni di origine europea. L’Africa Nera propriamente detta è quella a sud del Sahara.”
– La “bomba demografica” riguarda solo l’Asia e 1’America Latina o minaccia di scoppiare anche in Africa?
“Per essere onesti, la prima cosa da dire, quando si parla del numero di persone che vivono in Africa, è che si tratta di una realtà assai poco conosciuta. Le cifre riportate un po’ dovunque devono essere accolte come approssimative. Ad esempio, fino al 1990 un vero e proprio censimento in Paesi come l’Etiopia, il Ciad e lo Zaire, non era stato ancora effettuato. Un fatto, però, e certo: il continente africano, per secoli sottopopolato, assiste oggi a un popolamento accelerato che batte tutti i primati mondiali. Paradossalmente la limitazione delle nascite c’è là dove c’è un capitale, per quanto esiguo, da trasmettere (gli allevatori danno ai figli i loro armenti); dove, invece, non c’è nulla da trasmettere, i genitori vedono in una numerosa prole una specie di assicurazione per la loro vecchiaia (sono i giovani che devono mantenere i vecchi). Le donne senegalesi sperano di avere otto o nove figli! E sono di poco sotto quel livello di fecondità le donne keniane. Incide parecchio l’istruzione: più aumenta il grado di istruzione, più si riduce il numero dei bambini voluti. Il quadro dell’incremento della popolazione dell’Africa Sahariana, ad esempio, vede salire i 182 milioni di abitanti del 1950 a ben 488 milioni nel 1990. Di questo passo quella parte dell’Africa, da sola, toccherà gli 883 milioni di abitanti. Altro che Cina!”
– Coloro che hanno a cuore le sorti dell’Africa non si stancano di denunciare lo scacco più doloroso di questi primi trent’anni di indipendenza: il fallimento dello sviluppo agricolo. Le chiediamo, signor Giri, perché in Africa il rendimento delle colture cerealicole è, in media, inferiore alla metà rispetto a quelli ottenuti in Asia o in America Latina e non è aumentato, se non marginalmente, negli u1timi trent’anni?
“I Governi africani ricorrono regolarmente alla siccità per spiegare il loro crescente deficit alimentare e per chiedere ulteriori aiuti ai Paesi industrializzati. È senza dubbio vero che parti molti estese dell’Africa, come il Sahel, sono state colpite da ripetute siccità negli ultimi quindici anni. Altri accusano la povertà del suolo, poco spesso e povero di materie organiche, facilmente soggetto all’erosione. Ed è vero che ci sono terre tropicali improduttive e fragili; eppure ci sono casi evidenti in cui questo tipo di discorso non regge, come nel caso della Repubblica Centro-Africana e dello Zaire, le cui risorse sono sottosfruttate. Lì la crisi agricola non è dovuta alla mancanza di terra o alla sua povertà. La verità è che il rendimento della terra dipende in primo luogo dalle tecniche impiegate e che, inoltre, la terra coltivabile può essere sia creata che distrutta. In Europa e in Asia generazioni di contadini, spinte dalla necessità, hanno creato le terre coltivabili oggi esistenti, talvolta a prezzo di uno sforzo gigantesco.In Africa, invece, eccettuate alcune zone, come quelle dei Dogon e dei Kirdi, non sono state create nuove terre coltivabili. In passato vi era abbondanza di spazio in Africa, e quindi, nessuno era spinto dal bisogno a creare nuove terre coltivabili. Adesso, però, lo spazio si è ridotto a causa della paurosa crescita demografica e si assiste alla distruzione delle terre. Ma il fenomeno è dovuto alla natura del suolo o non piuttosto al modo di trattarlo?”
– Ingegner Giri, si può fermare il processo in atto di non-sviluppo dell’Africa? E quale potrà essere il domani di quel continente?
“L’Africa uscirà dal tunnel, se finalmente sulle follie dei dittatori neri e sullo sperpero finora fatto degli aiuti dell’Occidente comincerà a farsi valere la saggezza che hanno accumulato nei secoli gli uomini delle savane e delle foreste. L’instabilità politica dei Paesi africani, generata anche dalle guerre endemiche fra le diverse etnie all’interno di uno stesso Stato, ostacola lo sviluppo economico e aumenta le razzie da parte dei provvisori detentori del potere. Con o senza l’adesione al modello comunista, in Africa s’è fatto di tutto per privare del suo significato originario il motto ‘un uomo, un voto’. Nelle pseudo-democrazie africane, marxiste e no, tutti hanno diritto di voto, ma per eleggere un… solo candidato. L’Occidente non deve lasciar andare alla deriva l’ Africa Nera, che nella sua totalità ha un prodotto interno lordo pari a quello del piccolo Belgio; ma lo si può solo con una rigorosa finalizzazione dei suoi aiuti.
Io mi chiedo: se la Corea del Sud, Taiwan, Singapore, l’India stessa sono stati capaci in qualche decennio di superare la soglia critica della povertà e di iniziare con ritmi sorprendenti uno sviluppo economico molto promettente, perché l’Africa non dovrebbe trovare in sé la forza di attivare il suo progresso economico e sociale? L’Africa avrà certamente un domani migliore, se il principio della convivenza ordinata renderà vivibile per tutti l’appartenenza ad uno stesso Stato e se i rapporti tra gli Stati africani diventeranno di reale cooperazione. La regola d’oro dei diritti umani, se prevarrà, può aiutare l’Africa Nera a ritrovare il suo slancio, la sua unità e soprattutto la determinazione eroica a uscire dalla logica del presunto diritto perpetuo all’assistenza per imboccare la via della ricostruzione economica, sociale e politica.”
Giornale di Brescia, 6.10.1991. Articolo scritto in occasione dell’incontro promosso dalla Ccdc su “Africa in crisi”.