Laicismo, marxismo e cultura cristiana

A) ‑ ANALISI E RUOLO

a) L’analisi

Non si può realisticamente definire un ruolo senza un’adeguata analisi. Detto in termini di fede: non è possibile definire realisticamente un’efficace prassi che emerga dall’evangelizzazione senza la delineazione della nuova mappa che la storia e la cultura dell’uomo hanno stabilito sulla terra.

Come contributo all’analisi qui si vogliono proporre due tesi che metodologicamente potrebbero essere inserite in quel tipo di indagine che i tedeschi chiamano filosofia della cultura. La prima delle due tesi è questa: ci troviamo già dentro alla crisi dell’egemonia culturale marxista fino al punto, forse, di poter parlare di una fine dell’età marxistica sotto il profilo del fenomeno filosofico e culturale nel suo slancio creativo e non, pertanto, della fruizione scolastica e di partito che di lì discende.

La seconda tesi, che completa il quadro dell’analisi, consiste nel ritenere che l’erede di questa crisi, anche in forza di istanze generate dallo stesso marxismo, sia la coscienza radicale; e, soprattutto, consiste nel ritenere che del radicalismo si dà una doppia faccia o un doppio movimento. Il primo di essi può davvero condurre all’isolamento dell’uomo, quasi per un’ebbrezza di solitarismo, anche per reazione all’imperante dogmatismo collettivistico e alla imperversante burocratizzazione. E’ la faccia che scende con ininterrotta lena dal senso classico del radicalismo filosofico e che possiamo chiamare libero pensiero.

La seconda faccia del movimento radicale presenta una ben altrimenti incisiva portata; non va più intesa come un preciso contenuto filosofico, di marca utilitaristica e individualistica, come la precedente, ma come una forma di ogni contenuto, per cui rappresenta un’istanza, antidogmatica e antiautoritaria, di dolorosa serietà etica, sciolta da ogni mediazione compromissoria.

b) Il ruolo

Sono questi per me i due coefficienti più vistosi che attuano l’oggi del nostro Areopago e non sono soltanto nel segno della realtà, ma del valore. Se la storia non va intesa, secondo l’avvertimento di Jacques Maritain, come un “ripostiglio di rifiuti”, quindi un prendere atto che è così, ma va intesa come l’inesorabile, anche se accidentato, rallentato, e talora dirottato, cammino verso l’avvento del regno di Dio, ogni epoca, ogni frammento, ogni coagularsi nei dinamismi della caducità è più che un lato, è un momento; è più che un fatto, è una istanza; è più che un semplice erramento, è la costruzione della domanda. Questa è la vera fame; erompe dalle fauci della storia, come questa è lo srotolarsi dell’essere. Nasce in questo modo dall’analisi, il ruolo.

E quello cristiano, oggi, lo indicherei nel segno della coscienza tragica con quanto di indicativo teologico e di imperativo pratico esso comporta: ossia la pascaliana logica di far professione dei due contrari, dove paradossalmente Dio è tutto, e toglie valore alle cose, quando vengono comparate, nel tessersi e ritessersi della tela, alla riva eterna dell’essere; le, per la misteriosa assenza di questa presenza, onde Gesù, il primogenito esemplare di tutti i fratelli, è detto “in agonia fino alla fine del mondo”, anche il mondo risulta un tutto, sì che Pascal che, pur aveva avuto la notte di gioia e di fuoco, consumerà gli ultimi anni della sua vita nel progettare carrozze meglio viabili per Parigi e farà ricerche sulla cicloide.

Ho chiamato altra volta, questa mia proposta del ruolo, progetto puro ed ho indicato il suo maggior nemico in quel neointegrismo che nasce dal complesso dell’assenza; oggi, per legare meglio il momento dell’indagine con quello del ruolo, vorrei parlare senz’altro di cristianesimo radicale.

c) La strategia

A questo punto il discorso preambolare potrebbe infastidire, e potrebbe far scattare l’impazienza di chi chiede: ma dove sono poi questi segni della età postmarxistica, quali i segni di questa doppia possibilità della coscienza radicale.

Richieste più che legittime; e il resto di questo studio vi intende corrispondere. L’analisi non basta programmarla, l’analisi bisogna farla. E pur avvertendo che in campi come questi, dove domina l’interpretazione, c’è sempre una volizione del significato, e mai una cogente esibizione del dato, noi intendiamo esperire questa analisi, che ha al suo vertice una tesi quasi scandalosa, quella della fine della età marxistica, che qui ovviamente, si propone non in funzione politica, ma di filosofia della cultura.

Sarà bene che prima di passare allo srotolamento effettivo dell’analisi si chiarisca un terzo aspetto dell’atteggiamento generale, dopo quelli già considerati di analisi e di ruolo.

Parlerei di strategia o meglio di confronto o meglio di atteggiamento di base del cristiano di fronte ai tentativi e alle spinte teoriche, etiche o totalizzanti in senso di salvezza e di riscatto elaborate dagli altri uomini suoi fratelli. Procedendo per accostamenti concentrici potremmo indicare quattro tipi strategici, al termine dei quali c’è, a quanto mi pare, il vero esercizio di quell’amore cristiano, per cui Dio stesso charitas est.

Il primo di questi tipi è quello del muro contro muro. “Ridotto” il messaggio diverso o alternativo ad una teoria di proporzioni e di atteggiamenti nemici lo si considera nell’area della non verità o della dissipazione e lo si combatte pertanto frontalmente. E un atteggiamento fondamentalmente ingiusto, perché non legge con amore e con spregiudicatezza; è un atteggiamento controproducente, perché l’alzare muri rafforza ciò che, letto nella sua logica interna, risulta fragile. E’ infine, un atteggiamento pericoloso e un po’ disumano, perché crea nel credente la tentazione della posizione di minoranza che potrebbe creare la doppia libido o dello stare in attesa in rivincita astiosa oppure quella di lasciare gli altri nei guai, senza dare una mano, senza condividere la complessità ogni giorno più grande del mondo.

Il secondo atteggiamento è quello, brillantemente svolto dai grandi apoligisti inglesi nell’età recente (Chesterton, Belloc, ecc.), che sgomenta gli altri contesti nella misura in cui vi trova verità cristiane allo stato di impazzimento oppure, come fece il Maritain di Umanesimo integrale con il marxismo, lo intende nella misura in cui ha dato una sostanza ad esigenze di verità che la infedeltà cristiana non ha saputo gestire, per cui, come già appare a Thurneysen, esso è da considerare come uno dei tanti flagelli che nella storia Dio manda al suo popolo perché si ravveda e si converta. Si tratta di una sopraffazione di logiche che genera, quanto meno, il sospetto di cattura del progetto altrui, minando peraltro la specificità cristiana con questi apporti allotrii che snaturano il vero volto di Dio.

Di un terzo tipo di approccio ha parlato Battista Mondin nel L’osservatore Romano (16-V11-76) trattando de La teologia di fronte all’ateismo. Anch’egli parla di strategia e la chiama strategia della doppia conversione. La vede al fondo del lavoro teologico del francese Yves Congar, dell’americano Richard Niebuhr, dell’inglese Eric Mascall, del belga Gustave Thils, del tedesco Walter Kasper e di chi scrive queste note. Lo schema di impegno avrebbe due tempi: una rivendicazione sul piano della mentalità comune di uno spazio per l’invocazione lavorando insieme per la distruzione degli assoluti terreni, e facendo poi intervenire su questo spazio liberato e aperto il messaggio di Cristo, attualizzato nella sua genuinità soprannaturale. Mondin ritiene questa una “strategia eccellente”, anche se elitaria e pertanto non ampiamente efficace.

Ma io penso che ci sia un modo più fecondo di intendere questa strategia della doppia conversione, intendendo con ciò non soltanto il doppio momento del discorso cristiano, ma intendendo la reciproca intenzione che deve investire entrambi i movimenti, quello cristiano, per esempio e quello marxista, o quello radicale, affinché si passi dalla innegabile difformità storica, dottrinale, ideologica e pratica alla loro riconciliazione in contesti inediti. Quest’ultimo tipo di approccio è quello che non solo sottostà alla presente ricerca ma a tutto il lavoro che ho svolto in questi ultimi anni e che ho affidato alla trilogia Futuro dell’uomo e spazio per l’invocazione (1975), Con quale comunismo (1976) e ora Con quale cristianesimo (1977). Ecco, presenterei questo metodo sinteticamente così: esso ripete l’opera salvifica di Dio che ha investito ogni carne, anche quando era verminosa e insensuata. Il tragitto è quello che parte dalla posizione dialettica intesa come “coscienza conseguente della non identità”, che è rigorizzazione adorniana del tema hegeliano dell'”immane potenza del negativo”, e vuole arrivare alla riconciliazione, non come sintesi di opposti, che sarebbe un monstrum non solo logico, ma anche etico, implicando una rinuncia alla fedeltà, ma come assunzione nella speranza teologica di ogni principio speranza che emerga come Affekt dell’uomo. Tutto ciò non può risultare dalla semplice presentazione dei termini in questione, ma da vere lotte per il significato, ossia nel contesto di una conversione cristiana che liberi la sua speranza trascendente da sensi impropri, quando non sono mistificatori, e liberi il principio speranza da inutili gonfiature antiteologiche, che sono propri della cattura ideologica di ogni genuino prodotto della spiritualità umana.

Può l’uomo cristiano non sentire il tormento di questo amore di riconciliazione, che, pur lasciando intatto il giudizio, chiede alla grazia la sua e l’altrui conversione affinché la libertà del cristiano si faccia carnale, e visibile nell’incontro con tutti i fratelli, senza nulla concedere alle forme quotidiane e istituzionalizzate della caduta? Non è questo il gesto di fede che ha spinto Tommaso d’Acquino a riconciliarsi con Aristotele, un’operazione di confronto e di interamento difficile e decisiva ben altrimenti di quella che noi stessi, e siamo in tanti, ci accingiamo a compiere? E’ così fragile la nostra fede da temere il tiepido rigore del disgelo o le correnti della navigazione all’aperto; è così legalizzata la grazia da presentarsi in catene per dover agire in contesti istituzionalmente delimitati?

B) – FINE DELL’ERA MARXISTA?

La problematica che vorrei applicare al tema del post-marxismo è questa: non si tratta di un puro venir meno, ma di una fine qualitativa o, se si vuole, catartica. I segni di questo fenomeno sono l’esigenza del superamento culturale (Sartre) e politico (Marcuse), la mancanza di una soddisfacente dottrina dello stato, la revisione del giudizio marxiano sulla religione, il dissenso nei paesi dell’est e l’oltranzismo dei gruppi della estrema sinistra.

A – Il primo di questi segni ci viene dagli ultimi scritti di Jean Paul Sartre; sono pagine che il filosofo, ormai quasi cieco, ha dettato; ma non sono estemporanee, in quanto riassumono, semplificate, le sue convinzioni da La critica della ragione dialettica (1960) in qua.

Di fronte alla alternativa di scegliere fra la filosofia esistenzialistica e l’adesione al marxismo, Sartre non esita a preferire la prima, anche se la trova inadeguata ad esprimere le sue conquiste recenti; è tanto convinta in lui questa tematica di approdo da portarlo ad una quasi utopica valutazione del maggio francese. “Secondo me – afferma – il movimento del Maggio è il primo movimento sociale di grande portata che abbia valorizzato, momentaneamente, qualche cosa di prossimo alla libertà”.

Antilibertari al massimo, e quindi lontani e contrari a questi modelli offerti dalla filosofia esistenziale e dal gauchismo degli studenti, sono la struttura del partito comunista francese e il legame, piuttosto corrente, tra marxismo e dialettica naturalistica. Parlando del primo, Sartre fa uso dell’espressione paranoia, per indicare la unidirezionalità di un procedere che non fa i conti con l’interesse reale ma solo con quello burocratico e istituzionale del partito; lascia popolo e storia fuori della sua presa; quasi un paraocchi che impedisce di vedere che “un apparato emana il pensiero incarnato delle sue strutture, e che le strutture del partito, ossificate, burocratizzate, fortemente gerarchizzate, avrebbero prodotto pensieri gerarchici e burocratici, perfettamente opposti al pensiero popolare”. Meglio precisato: “ciò che attraverso la sua paranoia il partito comunista respinge è l’idea che gli operai possano produrre un pensiero autonomo”.

Si tratta dello sviamento tipico del cosiddetto centralismo democratico, che risulta una spina nel fianco della stessa attuale gestione comunista italiana in cerca di autonomia, nel segno dell’eurocomunismo.

Per Sartre – e qui la sua analisi si avvicina a quella di Arcipelago Gulag lo sviamento arretra fino ai tempi leninisti, anche se l’esasperazione fu tutta staliniana. “E’ dal tempo di Lenin e non dal tempo di Stalin che il partito s’è imposto sui soviet, prima come organo di controllo, poi, a poco a poco, penetrando in essi. La rivolta dei marinai di Kronstadt è stato lo sforzo compiuto da un soviet per tornare ad essere democratico. Dicevano: bisogna che non vi sia un partito a dominare il soviet. Furono sconfitti. Fu il partito a far regnare la dittatura del proletariato: esso divenne istituzionale, e la dittatura del proletariato divenne anche essa un’istituzione. E fu la dittatura sul proletariato”.

Non è possibile, a questo punto e in questo contesto, seguire Sartre nella ripulsa del materialismo dialettico, che, lungi dall’umanizzare la natura, come ambiva il Marx dei Manoscritti, naturalizza l’uomo, facendone la vita un ciclo meccanico come quello dell’atomo e della scimmia, privandolo di ogni legame con la memoria e la fantasia.

Basterà, per tener legato il discorso che ci occupa, leggere la seguente dichiarazione: “Credo al materialismo storico nella misura in cui spiega certi comportamenti umani, ma non al materialismo dialettico che tenta di ricollocare gli uomini nella natura e di trovare un tipo di necessità dialettica che si applicherebbe prima alla natura e poi agli uomini”.

B – Herbert Marcuse riprende il tema in termini più propri del dibattito politico che non di quello filosofico-culturale. Tutto ciò lo porta a :segnalare le forze che per sé non sono più in grado di rompere il continuum repressivo delle forze di conservazione cieca e quelle che invece hanno capacità di promuovere nell’uomo la “nuova base biologica” che, arginando i bisogni, renda più umano il lavoro, e gli possa dare la gioia creativa. Come si vede sono quattro asserti precisi: la base biologica che diventa funzione politica; il rivendicazionismo dei partiti e dei sindacati che rafforza lo schema consumistico della società opulenta; l’individuazione di forze veramente alternative e discontinue; la soluzione, neppure riuscita a Marx, del dramma del lavoro che, da realtà maledetta, dovrebbe ritornare ad essere umano nella gioia e nella libera creazione.

C – Un terzo segno di questo cambiamento di ispirazione culturale e politica ci può venire dal più interessante fatto culturale gestito in Italia nel 1976; intendo riferirmi all’osservatissima polemica suscitata da Norberto Bobbio, i cui testi fondamentali egli stesso ha raccolto nel volumetto Quale socialismo. Dopo l’esigenza del superamento culturale, esaminata nel primo segno con Sartre, e dopo l’esigenza del superamento politico, esaminata nel secondo segno con Marcuse, Norberto Bobbio presenta ora l’esigenza di una trasformazione nel segno istituzionale o della dottrina dello stato, in cui l’irriducibile dottrina della democrazia rappresentativa, con i suoi due drammatici nodi della partecipazione e del controllo, lanci non solo una sfida al centralismo democratico o dittatura del proletariato, ma ne rappresenti una riserva critica e un deciso cambiamento di rotta.

Il motivo fondamentale della denuncia bobbiana riguarda la mancanza nel marxismo di ieri e di oggi di una dottrina dello stato che esamini non solo teoricamente ma nella stessa realizzazione delle istituzioni statuali socialiste la possibilità della coesistenza pluralistica, e il permanere di quella lotta per il diritto e per l’esercizio della libertà. che sono il frutto più valido di tre secoli di teoria “borghese”. Ecco come Bobbio stesso presenta il tema centrale della sua istanza: “i teorici del marxismo sono stati molto abili nel criticare la teoria delle élites e la sua applicazione agli stati capitalistici, ma non altrettanto solleciti nel promuovere studi sul fenomeno negli stati socialisti. Sappiamo per esempio che negli stati capitalistici non ci sarebbe un’élite al potere, ma una classe dominante; non sappiamo invece se negli stati socialisti ci sia una classe dominante o un’élite al potere o qualche altra cosa”. A questa insufficienza nell’esame delle istituzioni socialiste, per raggiungere una dottrina dello stato analoga a quella su cui si è affaticato il pensiero politico moderno da Hobbes in poi, se ne aggiunge un’altra, più spiccatamente teorica, quella che dovrebbe rispondere al quesito di come conciliare la molteplicità autonoma delle istituzioni con il concetto di dittatura, sia pure del proletariato, che ha come carattere specifico la limitazione dal tempo, data la straordinarietà del potere. Non ci si può difendere su questo punto facendo appello al noto tema della fine dello stato al sopravvenire della società socialista, perché questo appartiene al mondo di quelle utopie perfettistiche, che non hanno dalla loro parte il realismo storico.

I motivi di questa carenza del marxismo di fronte al problema istituzionale Bobbio li trova in tre ordini di considerazioni, che ricordo brevemente. Primo. La conquista del potere, il di chi lo stato, è stata preminente nella storia comunista; e pertanto l’organizzazione del partito è stata preminente su quella dello stato, o sul come del potere. “Rispetto al tema centrale di ogni riflessione sulla politica, non par dubbio che il movimento operaio sia pienamente interessato ai problemi inerenti ai modi con cui il potere si conquista, non ai modi con cui il potere sarà esercitato dopo la conquista”. Secondo. Il motivo che abbiamo già ricordato, della naturale estinzione dello stato, una volta attuata l’emancipazione socialista. E qui, tra l’altro, c’è la stessa difficoltà che emerge quando si proclama la fine della religione unicamente in seguito al fatto che l’uomo, riscattato dalle sue distrette, per effetto della emancipazione della sua base reale, non si sentirà più dipendente e debitore. Ma quando l’uomo sarà, a questo modo, in pari con se stesso?

Sono, questi, due nodi critici antichi e ricorrenti nella denuncia bobbiana; ma ora egli ne aggiunge un terzo; aggiunge il principio di autorità che caratterizza l’attuale costume culturale marxista, e lo isterilisce nella chiosa dei testi marxiani piuttosto che nella reale discussione di quei problemi istituzionali, che le spinte politiche esigono.

L'”abuso del principio di autorità” fa sì che invece “di studiare con strumenti sempre più perfetti di analisi la realtà presente”, quasi sempre uno cerca di cavarsela andando “a vedere che cosa aveva detto Marx”. E così non si ha alcun vantaggio “per lo stato alternativo del futuro” attraverso l'” ennesima chiosa a Marx”. “Il continuare a leggere e rileggere Marx abitua a credere che una buona lettura, anzi una lettura migliore, ci liberi dalla fatica di pensare”.

La denuncia bobbiana non riguarda, ovviamente, quello che egli chiama “marxismo da strapazzo”, quello che “sta dilagando nelle nostre università, un marxismo che troppo spesso serve da pretesto e da viatico alla propria pertinace ignoranza, e favorisce la pigrizia con una buona dose di presunzione e talora anche di opportunismo”; no, qui si tratta del “marxismo serio”; oppure anch’esso “getta uno sguardo distratto o sfuggente o sospettoso o addirittura infastidito alla cultura non marxista chiamata in blocco ‘borghese’, o ‘pre-marxista’”.

D – Un quarto segno che ci permette di analizzare questa trasformazione di interessi e di mentalità lo possiamo trarre dal modo nuovo con cui è valutato il contributo dei credenti nella prassi di liberazione. Soprattutto nei gruppi marxisti di natura politica e non speculativa, una revisione dottrinale del giudizio marxista classico sulla religione viene fatta, o quanto meno vien lasciato aperto lo spazio perché lo si possa fare, con gesti di libera ricerca. Al riguardo è significativa una recente risoluzione (settembre 1976) del Partit socialista unificat de Catalunya, dove è riconosciuta al cristianesimo basco la egemonia nella lotta di liberazione etnica e politica.

E – Il forte vento della contestazione che arriva dall’est europeo indica un quinto segno della crisi. E’ di ieri la Charta 77 di Praga, ma questo non è che uno dei vertici visibili del rumoreggiare sotterraneo di cui non è facile disegnare il confine. Un arcipelago Gulag alla rovescia. Si tratta di cose grosse e drammatiche i cui sviluppi sono difficilmente prevedibili.

F – Un ultimo motivo, che segnala la crisi che andiamo analizzando, lo indicherei nella disappetenza dei più giovani di fronte al tema e alla forma di lotta comunista.

Che dire di quei “collettivi autonomi”, che rappresentano oggi il fatto nuovo della contestazione giovanile, dominati da un oltranzismo rivoluzionario che nessun partito incanala; rifiutano come gregarismo ogni legame di partito, considerando “scheletri” i raggruppamenti di estrema sinistra che fino a ieri li avevano portati, “briganti” i leader che perseguirebbero soltanto interessi personali di carriera. Qui la politica sembra sostituita da un avviluppante carica di psichismo che lega e mura il gruppo in un al di dentro di passione e con solo la ripulsa per tutto il di fuori. Mai spinta radical-comunista era giunta a tanto nella equivoca turbolenza della reazione e nel rifiuto di tutto l’altro.

C) ‑ LA DOPPIA FACCIA DEL RADICALISMO

a) I tre modi di intendere il radicalismo

Del radicalismo si può dire in tre modi. Accennarne tre significa, credo, serrare la cosa molto da vicino. Il primo, di natura tecnica, individua il suo preciso luogo storiografico, ossia l’ambiente della filosofia utilitaristica inglese nei primi decenni dell’Ottocento. Il secondo, di natura tecnica e polemica, lo identifica con quanto di individualistico, sensualistico, compiutamente lucido, al livello di progetto semeiotico oppure cibernetico pur esiste nella civiltà attuale, e che potrebbe avere nel partito radicale la sua istanza politica. Il terzo, di natura più complessa e storicamente intrecciata con le culture alternative sviluppatesi nel controcorso dell’età moderna, presenta elementi che, pur inglobando anche i significati presenti negli altri due modi, in realtà estolle una forma ribelle a concreti contenuti e, nello stesso campo teologico e cristiano, una resa di conti che non sono stati finora del tutto saldati.

A – Nella sua Storia del liberalismo europeo, pubblicata cinquant’anni fa, Guido De Ruggiero individua il tempo, la forma e il principio del radicalismo. Si tratta del partito radicale che, sull’onda dei principi del Bentham, produce notevoli conquiste ai Comuni; e si tratta del principio utilitaristico attraverso il quale si ritiene non solo dovere per ogni uomo il conseguimento del suo utile individuale, ma in forza di una concezione armonica del rapporto tra bene individuale e bene sociale, si ritiene che ogni espressione dell’utile individuale è in realtà espansione dell’utile, e quindi del bene, di tutti; onde ogni individuo è in dovere due volte di lavorare per questa ricerca dell’utile, una volta per sé e una volta per gli altri. E solo quando questo “per sé” sia immoralisticamente disatteso, allora deve intervenire lo stato e la società a imporlo con leggi e istituzioni. Allo scopo di far valere questo “radicale semplicismo logico”, che si basa sul doppio asserto della riduzione del bene ad utilità e dell’armonia tra utilità individuale e vantaggio collettivo (non si dimentichi che il bersaglio polemico de Il Capitale di Marx non è Hegel, ma il Bentham), occorre una riforma del costume con “la massa enorme dei pregiudizi da sfatare, di bizzarre consuetudini e di leggi da rifondere in una nuova unità, di privilegi da eliminare”.

Nonostante la tenue vena logico-politica, il radicalismo risulta “un fenomeno complesso e torbido, che contiene in sé i germi del liberalismo, della democrazia e del socialismo. Il tema dell’utilità, dell’interesse, ha una schietta impronta individualistica e liberale; implica l’autonomia delle iniziative, la capacità di ciascun uomo di fare da sé. Ma esso è come sopraffatto dal concorrente tema dell’utilità del maggior numero, che pur dovrebbe essere il risultato finale e complessivo delle singole attività individuali; e che, invece, nella pratica può imporsi solo artificialmente, mediante l’autorità di uno stato, che impersoni i bisogni e gli interessi della maggioranza e li faccia valere contro l’egoismo dei particolari. C’è qui la sostanza di una democrazia autoritaria”.

Sotto il profilo religioso si tratta di un movimento dalla sensibilità limitata, con aspetti vistosamente anticlericali.

B – Venendo ora al secondo senso, diremo subito che esso parla di modo di essere della nostra società come di “società radicale” per estensione della prassi tipica del partito radicale, operante tra noi, e che ha nella norma sessuale, furiosamente contraria alla morale cristiana in tema di amore e di famiglia, il suo obiettivo primario.

Scrive il Baget-Bozzo che il modello radicale “non riconosce più un valore né all’etica, né all’universalità, né alla natura”; criterio ultimo di giudizio è la soddisfazione dell’individuo. “L’uomo è qui ridotto in quanto persona e spirito a un purum nihil, “il bene e il male etico vengono così completamente sostituiti dal bene e dal male fisico “. Si assiste, insomma, a una “integrale riduzione dell’uomo alla sfera corporeo-sensibile “.

Secondo il Baget-Bozzo, anche la democrazia cristiana si è allineata con questa società radicale, sì che riesce a sopravvivere solo avendo rinunciato ad essere un partito cristiano, e attestandosi sull’area della società radicale. “La DC abbandonava il modello del partito cristiano per adottare una struttura di tipo individualistico, omogenea alla società radicale che si andava costituendo nel paese. La rapida decrescenza dell’influenza sociale della Chiesa aveva esposto la DC ad una influenza dei modelli radicali molto più ampia e significativa che non quella subita dai partiti di sinistra”.

Ma c’è di più, c’è che la stessa Chiesa per il teologo genovese si sarebbe arresa, soprattutto nel campo dell’etica sessuale, al modello radicale. Non arresa in sede dottrinale, come stanno a testimoniare i più importanti atti magisteriali dell’attuale pontefice, con la Humanae vitae in primo luogo, e poi la soluzione del tema celibatario (Sacerdotalis coelibatus), che il papa sottrasse di proposito al concilio; ma arresa nella pratica pastorale, che, se fosse vero e così univocamente fatto, a me parrebbe cosa più grave in quanto compromette la sua prassi quotidiana, il suo soccorso al mondo. La posizione ora espressa pecca di semplicismo ed è una grave forma di massimalismo confutativo, senza rispetto per la fede e la pena di uomini e gruppi che, pur tra tanti conati e tentennamenti, hanno almeno una pari fedeltà al nome e all’esempio di Cristo e non possono accettare una così dura condanna di accondiscendenza al modello radicale.

C – Senza nessuna pretesa di farne un discorso modello, io intendo proporre non solo un senso positivo e fecondo della prospettiva radicale, ma addirittura ritenerlo il vero modo di attuare, il più fedelmente possibile, il ruolo cristiano, che ci sta dentro nel cuore, e che mettiamo ogni giorno a confronto con le attese dei giovani. Non pensiamo con questo alla ricostruzione di una cristianità di tipo medievale, ma soltanto di dare una mano allo sviluppo storico e salvifico del messaggio di Gesù; lo riteniamo senza alternative, né politiche né culturali, sia nella storia di ieri come in quella di oggi. Proprio in forza di questo impegno totale, non vorremmo, neppure un istante, desistere dal porre il problema della sua qualità. Con quale cristianesimo, appunto. Quello lefevriano non ci farebbe continuare a credervi. Per questo, nonostante forme impazzite di pretesa radicale siamo davvero sostenitori di un radicalismo cristiano, o del suo progetto puro, che fu l’arsura drammatica degli spirituali suscitati da Francesco d’Assisi, modello non solo della povertà come virtù (e fu spogliamento per la dedizione), e della chiesa povera, anche del suo aspetto teologico e dottrinale, ma soprattutto della chiesa dei poveri, intesi questi non come mera classe economica, ché un concetto di classe di questo tipo è entrato in crisi dopo le analisi francofortesi, ma come gli indigenti di fronte all’essere, alla vita e all’amore; i poveri come malriusciti, inappagati, aridi negli affetti.

 b) L’analisi dei radicalismo

Riprendiamo l’analisi. Il primo impegno è quello di delineare la doppia faccia di quel radicalismo, che viene sì di lontano, ma ha tuttora la storia e la verità, dalla parte sua. Occorre spiegare le due parole di quest’ultimo giudizio. L’istanza del pensiero radicale appartiene alla storia in quanto una sua prima forma, sviluppatasi come sapere alternativo lungo tutto l’arco della formazione moderna del pensiero e che va anche sotto il nome di pensiero libertino, anche se non è sorto per effetto di sviamento morale ma con consapevole intenzione filosofica, presenta un conto ancora non del tutto saldato nelle sue istanze di libertà e di uguaglianza, e in questo senso, e non tanto per le proposte alternative e sistematiche presentate, ha il dovere di agire ancora. Ho detto, inoltre, che il pensiero radicale ha dalla parte sua anche la verità, perché con l’altra sua faccia, che pur costituisce un’alternativa lungo tutto il fronte della speculazione moderna, e che con Lucien Goldinann ho già chiamato “la visione tragica” della vita, rappresenta un retto modo d’intendere il ruolo cristiano, con la richiesta di assumere, in senso forte, sia la radicalità teologica come quella profana e secolare.

La spinta laica del pensiero radicale

La traiettoria di quella che potremmo chiamare la spinta laica del pensiero radicale, esageratamente svincolato non solo dall’autorità aristotelica, ma anche da quella teologica ed ecclesiale, va dall’ampia germinazione del pensiero rinascimentale, attraverso la crisi del primo ventennio dei Seicento, che ha il suo tragico emblema nel rogo di Campo dei Fiori, dove proprio in apertura del secolo Giordano Bruno trovò la sua morte violenta, si espande, per tutto il Seicento, in due direzioni, una più moderata, che s’incarna nelle filosofie di Gassendi, di Cartesio e di Spinoza (soprattutto nella lettura ateistica fatta da Pierre Bayle), e l’altra più radicale, che per esprimersi ha dovuto ricorrere a camuffamenti di vario genere, come nell’utopia fantastica di Cyran de Bergerac; e finisce per vincere e dilagare nel Settecento in quella cultura illuministica che ha fondato e gestito il nuovo diritto dell’uomo nella rivoluzione francese.

Non è facile delineare le precise fattezze di questo ampio contesto filosofico, dove germinano figure e opere senza fine; ma indicare certe tendenze di fondo, questo è possibile e proficuo. La prima è legata alla nuova forma della infinità, che non viene più intesa come attributo di persona teologica, ma come dote dell’universo, strapopolato di mondi, nessuno dei quali ha più dignità della terra, come questa non ne ha più degli altri.

La seconda tendenza è data da quel tema dell’anima mundi, che ne esprime a fondo, ad un tempo, e l’insensuazione (è parola di Bruno) e l’autosufficienza organica e vitale, tanto che è stata coniata la parola panteismo.

All’infinità dello spazio e dei mondi, all’autosufficienza della natura, che rivaluta la materia come esclusivo grembo (materia‑mater) dell’uomo, si unisce come terza tendenza, quella di una religiosità con inflessioni ermetiche, cabalistiche, che, per un verso, spinge verso ideali di riforma, anche politica, anche sociale (i solari di Campanella), per altro intende affratellare gli uomini nel segno di una ragione media, partecipata da tutti, e, infine, si pone come violenta opposizione alla gestione delle chiese, soprattutto di quella romana, intese come suprema radice di ogni tirannide.

Il radicalismo come visione tragica del mondo

Se questa è la forma secolarizzata del pensiero libero e radicale, se essa non può essere d’aiuto a quanti intendono continuare a credere, l’altra forma del pensiero radicale raggiunge questi e altri scopi, sempre nel segno della liberazione, con il mezzo più proprio e più valido della fede e del rigoroso rapporto che, in esso, s’instaura tra il mondo di Dio e il mondo dell’uomo. Intanto la visione tragica e radicale di questo rapporto non si può instaurare se non con un gesto di rottura con le forme razionalistiche e con quelle empiristiche che vi corrispondono, ossia con quel pensiero che ha creato l’ottimismo della civiltà moderna secolarizzata, presa giustamente a bersaglio nei momenti più polemici della teologia dialettica, soprattutto con Barth. Nessuno meglio del frammento 206 di Pascal esprime l’angoscia e il rifiuto di fronte al triplice “silenzio” delle culture razionalistiche sul mondo, sulla società e su Dio. E’ un frammento che va letto in senso forte, a partire dalla radice teologica e ontologica: “il silenzio di questi mondi infiniti mi sgomenta”.

Prima di affrontare la questione centrale del nostro quale cristianesimo sarà bene chiarire l’esame di singoli centri di interesse, in quale modo possono essere (e furono) intesi gli aspetti fondamentali della visione tragica. E si comincia, com’è giusto, dal senso di Dio. Dio è presente, certo; diversamente non scatterebbe la sua funzione di spettatore; ma presente come assente, in modo che né il pensiero né il sentimento né alcun altro sequestro storico, e dato, possa cogliere il suo essere “nell’altissimo”. Vere tu es Deus absconditus (Isaia, 45,15). Nessun gioco conoscitivo può rimediare questa situazione precaria. E’ necessario un atto di fede, una volizione di significato, una vera e propria “scommessa”, a cui non ci si può sottrarre.

Ne consegue una posizione rigorista, non disperata, però, su Dio. Avvertiva Péguy: “Dio è duro, ma è Dio. Punisce e aiuta. Guida”. Ne consegue, inoltre, che la posizione del cristiano è perennemente identica a quella, emblematica per Pascal, dell’agonia di Gesù, che considera, annullando i tempi, nell’unità di Getsemani e morte sulla croce. “Jesus sera en agonie jusqu’à la fin du monde”. Ne consegue, infine, una prassi disincantata, insieme, e fiduciosa. “Fare le piccole cose come se fossero grandi, a causa della maestà di Gesù, il quale le fa in noi” – e questo dovrebbe distogliere dal complesso dell’assenza anche nella gestione ecclesiale, perché è lui che “le fa in noi” – e fare le cose grandi “come piccole e agevoli, a causa della sua potenza” (fr. 553) – e questo dovrebbe distogliere da ogni forma di titanismo, quasi che si possa surrogare l’opera di Dio, imprimendo a lui la nostra logica di potenza-.

Netto è il contraccolpo di questa logica sull’altro fondamentale aspetto della coscienza tragica, quello del mondo. In faccia del valore di Dio quale realtà presente, il mondo perde senso e vale nulla; in faccia al fatto che Dio è sempre, ma non si rivela mai come valore sfolgorato, e quindi in faccia alla sua radicale assenza, il mondo finisce per essere tutto, il tutto di ciò che rimane a portata di mano. A questo carattere oppositivo del mondo, che risulta ineluttabile dal carattere antagonista della realtà di Dio, intende riferirsi Pascal quando chiede al cristiano di “far professione dei due contrari” (fr. 865). Il mondo pesa molto allora, nella vita del cristiano, e finisce, in definitiva, per non pesare nulla.

Dio è Dio e il mondo non è Dio, ecco la formula della rottura e della infinita differenza che la coscienza tragica è chiamata a gestire, nel sovrano sforzo della fedeltà teologica, come nel supremo conato della profanità del mondo, che nessuna teologia dell’identità può superare o con la interiorizzazione di Dio oppure con la patinatura religiosa del mondo.

Caratteri che discendono dalla coscienza tragica

La coscienza tragica presenta una serie di caratteri che discendono in stretta connessione da quanto è stato detto su Dio e sul mondo. La fuga dai compromessi, in primo luogo. I suoi termini antagonisti, presente e assente, tutto e nulla, vanno mantenuti a tutto arco e non depauperati in compromessi, che ne rendano più gradevole e mondana la gestione. Inoltre, l’acquisizione di questi termini e la loro intenzione profonda non è frutto di una acquisizione progressiva, ma con bruschi rovesciamenti esistenziali; per esempio, con l'”abbandono” oppure con lo “svuotamento”, in altre parole. con la conversione. Vi insiste anche Pascal nello scritto Sur la conversion dupécheur: “la prima cosa che Dio ispira all’animo che egli degna toccare è una conoscenza e una veduta del tutto straordinaria attraverso la quale l’anima considera le cose e se stessa in modo del tutto nuovo”. Un altro tratto della coscienza tragica è dato dalla sua solitudine non massificabile di fronte al mistero. E’ la solitudine di Antigone di fronte alle leggi eterne, la solitudine di Creonte di fronte alla ragion di stato. Se les Pensées di Pascal non sono diventate un trattato non è per incompiutezza redazionale, ma per il limite strutturale di quello che Goldmann chiama il “dialogo solitario”; quello, che, aperto su Dio, :domina le stesse Confessiones di Agostino. Il dialogo solitario può diventare un dialogo reale, e quindi comunitario, quando in altri s’accende la stessa fede e prende corpo questo ritrovarsi nel rischio della confessione e della prassi coerente.

D – “RELIGIONE POPOLO”

Fissata, come abbiamo potuto, la doppia ricerca sull’analisi e sul ruolo, si tratta di catalizzare ora alcuni poli tipici dell’impegno cristiano, nel segno di una radicalità che dovrebbe ridare alle vecchie, grandi parole il carattere dell’inaudito e dello sconvolgente. Si tratta di toccare appena questi punti, perché si tengono stretti con quanto è già stato discusso e proposto.

Tutta la funzione del discorso potrebbe essere indicata nella difficile necessità di far diventare “movimento” quell’Oggetto immenso che costituisce il vero apriori ontologico, logico, salvifico onde veniamo suscitati come cristiani. Come tutta la storia cristiana dimostra, sì tratta di un incontro difficile, mobile, sempre insidiato com’è o dal frascame di parole che isteriliscono la forza effettiva dell’oggetto oppure da un muoversi stordito che prende ragioni e ispirazioni solo dalla terra e dalle sue leggi reali; oppure da congiungimenti o integristici oppure secolarizzanti che snaturano entrambi i soggetti della nostra vicenda. La dura, e necessaria, volontà di tenere ben saldi nelle mani i due anelli della catena che nessuno, per ora, può fermamente saldare, trova, in primo luogo, nel suo cammino questa domanda: “può ancora vivere l’uomo su cui si è postato lo sguardo di Dio?” (Lukàs).

a) Risposte

La storia della crescita cristiana nel mondo ha dato almeno quattro tipi di risposta, delle quali una vorremmo proporre come quella più vera e più attuale. Una prima risposta sarebbe quella della fuga anche fisica dal mondo; la tematica del convento o dell’eremo o della cella come luogo dove unicamente si possa, per ora, realizzare il regno di Dio. Una scelta coraggiosa, che non sempre è indenne dal conferire valore sacrale per sé a questa “differenza”, col rischio di dividere i cristiani in credenti di prima e di seconda classe. Il secondo tipo di risposta può essere fatto coincidere con la volontà insonne di tener desto il mondo della fede come riserva non solo critica, ma escatologica, e con l’esaurire il ruolo cristiano nel gesto di questa proclamazione rigorosa e, al limite, profetica, magari immemori che nella terra si stende un mondo di miseria e di sfacelo. Ho letto un giorno nell’atrio di una casa generalizia a Roma, tutta gremita di quadri alle pareti che ricordavano i religiosi più notevoli e virtuosi degli ultimi secoli, la didascalia che faceva consistere le virtù di un religioso nell’essere passato sulla terra senza toccarla, nel non aver avuto occhi che per il cielo.

Il terzo tipo di risposta è quello del compromesso, fatto magari con sofferenza e a malincuore, allo scopo di rendere forte il valore cristiano con la fruizione e l’appoggio delle realtà terrene, che vengono quasi chiamate a sorreggerlo nel segno della potenza terrena. Invece di chiamare il cristianesimo a prendersi cura delle cose terrene, orientandole ad essere sempre più se stesse ed autentiche, ossia, come suggerisce la teoria morale di Rosmini, ad essere integre nel loro ordine, qui si chiede alle cose mondane di farsi carico della realtà cristiana, con un pericolosissimo capovolgimento di prospettiva.

Al quarto tipo di risposta affiderei la salvaguardia della doppia serie di valori che un cristiano ha il dovere di tener saldi: quelli teologici, in sé chiusi, autofondativi, insequestrabili, rigorosamente diversi e ultimi, e quelli mondani, altrettanto dotati di una logica propria, penultima, relativa, ma proprio per questo autonoma. Pascal ha chiamato questa scomoda situazione, “fra professione di due contrari”; altra volta, io stesso ho parlato della doppia autonomia, quella del valore teologico assoluto, che non va secolarizzato ma lasciato nella “infinita differenza qualitativa” e quella del valore mondano pure assoluto, e cioè sciolto dalle venature sacrali, lasciato nella sua profanità, senza catture clericali.

In concreto, tutto ciò significa vivere il gusto ed anche il febbrile tormento delle cose e della costruzione mondana; e avere, insieme, la sapienza che porta a conoscere che esse non potranno costituirsi in assoluto terreno. Tutto ciò indica pure come sia difficile costruire un cristiano; un cristiano che non voglia fare professione di uno solo dei due contrari, ma li voglia fedelmente e lealmente convivere in misura adeguata e secondo i talenti e il ruolo di ciascuno.

b) La profanità cristiana

Di fronte a questa collocazione generale dell’impegno cristiano che, con Maritain, possiamo anche chiamare profanità cristiana, e che ha i suoi nemici mortali sia nel secolarismo, come nell’integrismo, possono essere fatti scaturire alcuni corollari che ne mettano in maggior rilievo la capacità costruttiva.

Primo. Il cristiano, nonostante il radicale pessimismo, non può disinteressarsi della crescita reale del mondo. Il tanto peggio, tanto meglio, non può essere il suo motto; suo motto potrà essere l’I care di John Kennedy, che don Milani aveva fatto riportare sui muri della sua scuola, non il “Me ne frego” fascista. Starà accanto ai suoi fratelli per dare una mano ad ogni opera di promozione umana, anche se dovrà – e il dovere è grande – ricordare l’invanum del nisi Dominus aedificaverit domum (Sal. 126,1).

Secondo. Su quali aspetti insistere perché questo modo di vedere, e soprattutto perché la cosa che dentro esso preme, assuma una “cogenza” via via più egemone? Il problema della “cogenza” del pensiero è stato risolto da Adorno nella funzione del linguaggio. “Il pensiero diventa vincolante solo in quanto espresso, per mezzo dell’esposizione linguistica”. Credo veramente che il linguaggio sia strumento di mediazione tra teoria e prassi. E’ chiaro che, perché esso susciti l’azione, si deve trattare di un linguaggio vivo, bello, in una parola creativo. E ciò non può darsi senza lunghi silenzi, senza spazio di libertà, senza fantasia creatrice. La chiesa aveva un suo preciso linguaggio quasi perfetto per dirigere l’intera comunità e ogni momento della nostra giornata. Noi siamo stati formati con la salda guida di questo linguaggio. Dal primo destarci sul fare dell’alba fino all’ultimo attimo di coscienza, la sera, il linguaggio e le sue tecniche ci accompagnava. Era il linguaggio della chiesa post-tridentina, che alla chiesa sviluppata dalla coscienza teologica del Vaticano secondo ora non basta più. Il vuoto di un linguaggio alternativo che non arriva, o non arriva compiutamente, questo è il nostro dramma, e di qui tanti sintomi della cosiddetta crisi di identità. L’unità linguistica va ricostruita; non è la prima volta che il popolo cristiano rifonde, e rifonde per intero il suo linguaggio.

Che poi il tema del linguaggio abbia davvero questa funzione mediatrice tra teoria e prassi può essere indicato anche in senso negativo con questa osservazione. La nostra civiltà è alla ricerca di dare dignità, e liberare dall’emarginazione, quelle falde di umanità diversa, per effetto, ad esempio, delle incerte tendenze sessuali.

Ebbene fino a quando il linguaggio comune inchioda volgarmente questi esseri alla loro condizione, quasi fosse una vergogna, è certo che gli sforzi saranno vani e, al posto di un onesto riscatto, ci sarà lo scatenamento esasperato, come nel caso delle femministe.

Sempre dentro la questione della cogenza indicherei un secondo aspetto nella mediazione tra teoria e prassi: l’aspetto che chiamerei la funzione ideologica della verità. Ideologia, infatti, può avere, certo, il significato di coscienza falsa. mistificata; e in questo senso l’analisi di Marx ha dato contributi notevoli a quello che poi Nietzsche chiamerà lo smascheramento come “arte del sospetto” di fronte alla cattura che, in genere, ogni forma di pensiero o anche di religione subisce da parte di questa rincorsa ideologica, che ne sequestra a fini di dominio la pulita intenzione.

Dopo queste forme di mediazione tra teoria e prassi, ossia dopo il linguaggio, dopo l’ideologia se ne potrebbe indicare una terza, la più pericolosa se non fosse rettamente intesa. Mi riferisco all’entusiasmo. Esso può, certo, sconfinare nel fanatismo, ma esiste anche un entusiasmo efficace e positivo, il cui valore non è dato dalla ricchezza dei doni e delle forme, ma dal loro uso in funzione dell’intera comunità e in vista di obbiettivi di dignità umana e di emancipazione. E’ in questo senso che Paolo invita a ricercare nell’amore il migliore dei carismi.

Un entusiasmo di questo tipo presiede nella storia della religione a quei fenomeni che sono conosciuti o come “riforme” (e sono l’opera di personalità eccezionali) oppure come “risvegli” (quando comportano un movimento di popolo).

Terzo. La professione dei due contrari con le connessioni indicate conduce, finalmente, qui: alla ricostituzione di quella che Charles Péguy ha chiamato “la religion peuple”. Dobbiamo lavorare fino all’ultimo fiato perché cessino le due grandi apostasi che hanno dissanguato la nostra realtà cristiana, quella degli operai, ieri, e quella dei giovani, oggi. E perché si ritrovi questa credibilità venuta meno occorre che la chiesa cessi di essere gestita in spazio borghese, con tutti i culti della mentalità mercantilistica, e ritrovi quella vena popolare e assembleare, soprattutto attraverso i gruppi e le chiese locali, che, in modo originale, proprio essa ha inoculato nella storia. Accanto a quello di carne è suo merito aver fondato il concetto di popolo; salvo poi l’esservi stata infedele con l’attenzione esagerata al “di dentro” e al primato della vita culturale su quella manuale. Eppure Gesù fu fabbro; e la stagione monastica fu grande in questa forma di operosità. Se non si vuol fallire nella ricostruzione della “religion peuple” occorre da parte di tutti un contromovimento drastico, che riporti i valori al loro livello, e metta pure fine alla scandalosa “etica del non-lavoro” che sta consumando il volto civile dell’Italia. Ci son epoche, in cui, è chiesto alla chiesa di promuovere il gusto e il sentimento della differenza; ma si tratta del sentimento e del gusto della qualità e non quello, ingiusto e discriminatorio, che vien fatto emergere dagli ordinamenti civili ed economici.

E’ solo possibile alludere alle condizioni necessarie per questo recupero popolare; certo l’analisi delle inadempienze passate (e la confessione pubblica delle sue colpe dovrebbe esser un doveroso atto che la chiesa di tempo in tempo ripete, nell’insonne desiderio di essere sempre più degna del suo Signore, il cui unico giudizio dovrebbe temere, come del suo unico Spirito dovrebbe ritenersi fiera) e la fantasia creatrice, libera nella fedeltà, gliene diranno le forme. L’importante è aver chiaro il traguardo, che è poi la fine di quei falsi cieli astrologici o falsamente popolati di dei, dove, come ha scritto un giovane Hegel incredibilmente giacobino, “sono stati sprecati tanti tesori”, che hanno impoverito il fronte di lotta della terra.

ALCUNE INDICAZIONI FINALI

Il legislatore italiano ha rinunciato ad essere anche educatore, si è limitato ad essere un registratore di situazioni per regolarle normativamente. Di conseguenza abbiamo una legislazione che non ha più la sua ispirazione nei valori cristiani e che ci pone una serie di nuovi problemi. Occorre quindi più grinta per fermare questo momento di trapasso. Noi non siamo impegnati a creare la cultura cristiana, ma a salvare l’uomo in questa situazione e, chiedendo ai laici che facciano cultura, chiedendo ai laici, dentro validi strumenti culturali, la misura di ciò che l’uomo è nella sua dignità di creatura e di figlio di Dio, dobbiamo essere più robusti nella nostra proposta pastorale. Siamo diventati della gente che vende tutto con l’acqua, non direi proprio del battesimo, ma l’acqua di colonia. Ci siamo troppo acclimatati in un mondo che è fatto di complimenti, ma intanto va per la sua strada. Radicarsi nella croce vuol dire che dobbiamo riabilitarci a pagare duramente il nostro servizio sacerdotale, ricordando che ogni forma di imborghesimento è tradimento della croce. Quando dico più grinta pastorale, vuol dire essere attenti a quelle proposte culturali che ci stimolano, ci sollecitano, ma probabilmente sono incompatibili al messaggio cristiano. Dobbiamo essere capaci criticamente di andare contro corrente, dobbiamo essere capaci di essere testimoni di una realtà che non è al suo posto nel mondo, poiché, diversamente, il mondo non sa che farne del nostro messaggio se non viene dall’alto, se non si carica della potenza divina, se non rivela la potenza di Dio presente nella storia. In questa prospettiva siamo dentro tutti, conservatori e progressisti, perché per ragioni diverse stiamo bene tutti in questo mondo, che ci rende più comode le case, più facile la vita, mentre il Vangelo è scomodo per tutti.

C’è bisogno di chiarezza di prospettive; il pericolo è di dare adito a tutte le avventure e a tutti i capricci. Oggi ci sono dei pastori che fanno la scelta di andare d’accordo con tutti, ma il Vangelo non ci insegna ad andare d’accordo con tutti a qualunque costo, il Vangelo ci insegna ad essere chiari nella proposta in modo che ciascuno faccia responsabilmente la sua scelta. Quindi chiarezza di prospettive, tenendo conto che la Chiesa parla e che non sono nella Chiesa un coltivatore diretto che ha il suo campicello di sua esclusiva proprietà, ma sono nella Chiesa un servitore di Santa Madre Chiesa la quale, a sua volta è a servizio del regno ed è chiamata a rendere conto a Cristo. Se ci fosse qualcuno attaccato alle tradizioni, vorrei solo ricordare che la tradizione non è solo il fare acriticamente quello che si è sempre fatto: questa non è tradizione, è sclerosi, perché l’uomo vive in condizioni totalmente diverse dal passato. Di qui l’urgenza del coraggio di novità nelle iniziative, concordate con chi porta la responsabilità, e disponibilità a pagare di persona. …Inoltre non sottoponiamo la nostra gente a delle novità che sono capriccio, a delle novità che sono follia, a delle novità che sono soltanto bizzarria; abbiamo il rispetto della nostra gente che alla fine non ci capisce più nulla, se tutti i giorni abbiamo qualcosa di diverso, non di nuovo (il nuovo è l’oggi di una ricchezza che attingo dal passato, il diverso è solo un confronto di azioni che non si allineano con quelle fatte dagli altri).

Concludo auspicando una Chiesa più Cristoforme, una chiesa che riveli di più la presenza di Cristo, che riveli il volto del Signore. La prima generazione cristiana diceva: “vieni Signore Gesù” e l’attendeva; questa preghiera dobbiamo innalzare anche noi, vieni, Signore, perché si accorgano che tu ti sei fatto uomo e sei morto, risorto e asceso al cielo alla destra del Padre per salvarci, resta con noi, Signore, nelle tenebre di questa ora di trapasso.

NOTA: testo, non rivisto dal’Autore, della conferenza tenuta a Brescia il 7.6.1977 su invito della Cooperativa Cattolico-democratica di Cultura.