Giornale di Brescia, 12 aprile 2005
Arrivate prepotentemente al potere nell’ottobre del 1922, nel giugno del ’24 le camicie nere assassinavano l’on. Matteotti, colpevole di opposizione al regime. Paradossalmente, Mussolini seppe volgere a proprio favore questo crimine; lo fece con la sua spavalda arroganza assumendosene la responsabilità morale, senza dimettersi. Altri decisivi passi verso la piena dittatura furono la creazione del tribunale speciale per la difesa dello Stato (i giudici, stando alle leggi vigenti, non condannavano i “sovversivi”) e l’abolizione dei partiti e dei sindacati. Dopo la vittoriosa guerra contro l’Etiopia, nel 1938 le vergognose leggi antisemitiche consegnarono l’Italia al Führer. La dichiarazione di guerra del 10 giugno ’40 fu una decisione personale del Duce. Il regime esonerava gli italiani dalla fatica di dover scegliere. Entrando a scuola, già nelle elementari, automaticamente si diventava Balilla, con tanto di divisa. Ci si faceva ripetere il giuramento di fedeltà al Duce e alla causa fascista, nonostante che il Papa Pio XI avesse, contro tale giuramento, fermamente protestato. Lo stesso Papa nella sua enciclica troppo dimenticata Mit brennender Sorge (1937) aveva levato un alto grido di allarme contro il nazismo e le camicie brune, allevate nel disprezzo verso i non ariani. Il fascismo perseguiva un piano di monopolio educativo; aveva abolito gli scout, senza riuscire a sopprimere l’Azione cattolica e gli Oratori. Eravamo, dunque, noi ragazzi, presi fra due fuochi. Da una parte le camicie nere ribadivano: «Libro e moschetto Balilla perfetto!» e «Il Duce ha sempre ragione!»; dall’altra il Vangelo ispirava sentimenti di pace e amicizia verso tutti e insegnava che nessun Cesare è Dio. Fin da bambino frequentavo l’Oratorio della Pace, dove aleggiava lo spirito libero di padre Giulio Bevilacqua, l’antifascismo del quale era cominciato già nel ’22, in difesa del brescianissimo Vescovo Giacinto Gaggia che aveva bollato le bravate delle camicie nere («Teppisti! Vandali, Unni!»). In piena guerra, nel ’42, entrai con grande entusiasmo nella Fuci di padre Carlo Manziana. Alcune letture resero decisivo il mio distacco dal nazifascismo: «La mia battaglia» di Adolf Hitler (Ed. Bompiani) e il capolavoro giovanile del grande storico bresciano Mario Bendiscioli: «Germania religiosa nel 3° Reich» (Morcelliana 1936). Qualche giorno prima dello scoppio della guerra, era stato presentato alle autorità fasciste il noto rapporto Bozzi sui Padri della Pace, colpevoli «di insegnare ai giovani a pensare e a ragionare non secondo le direttive del Partito» (Un monumento ai Padri!). Il fascismo mi appariva sempre più chiaramente ciò che era in realtà: un grande tentativo di plagio a livello nazionale. Vennero il 25 luglio e l’8 settembre del ’43. La Fuci si mosse, compatta. Partecipai alla resistenza cittadina, nel Gruppo Astolfo Lunardi, ed ebbi il dono di conoscere da vicino Teresio Olivelli, il «ribelle per amore». Organizzammo una massiccia campagna per indurre i giovani a non presentarsi alla leva della Rsi. La mia classe era implicata: la renitenza, per me, durò per tre mesi. L’otto marzo ’44, ultimo giorno per non incorrere nella fucilazione immediata, ci arrendiamo, col proposito, dopo il periodo di addestramento, di passare al «nemico». Siamo un gruppo di amici tra cui Emiliano Rinaldini. Il 20 agosto sono al Forte di Bard, in Val d’Aosta; da lì, il 3 settembre, con un rischioso stratagemma, raggiungo una formazione garibaldina in Val di Champorcher («diserzione armata e passaggio al nemico in zona di operazioni!»). Vengo accolto molto bene: mi si chiede di scegliere il nome di battaglia. Penso a padre Manziana, ormai da qualche mese deportato a Dachau: «Mi chiamerò Manzio. Trovo altri tre bresciani: Coccoli, Giardini e Zucca, ma sarò l’unico a tornare a casa. Il giorno dopo sono in Val d’Ayas, dove subiamo un primo attacco; poi, attraverso il Colle Pinter, passerò in Val di Gressoney e da qui nella Serra d’Ivrea e infine nel Canavese. Sono in un distaccamento della 76ª Brigata Garibaldi, nella quale trovo una significativa presenza di cattolici. Un distaccamento è intitolato a Don Minzoni. Mi si racconta di Gino Pistoni (Ginàs), morto dissanguato il 25 luglio in Val di Gressoney. Prima di morire ha la forza di scrivere col proprio sangue, su di un sacchetto bianco: «Offro mia vita x A.C. Italia. W Cristo Re»… La nostra, per il momento, è una guerriglia sulla difensiva; badiamo a sopravvivere, a non farci catturare. Come potremmo fare altrimenti, con le poche munizioni che abbiamo? Ricordo soprattutto le marce spossanti, nella neve, spesso di notte, per sfuggire ai rastrellamenti; il freddo di un inverno molto rigido; la sporcizia che ci portiamo addosso… Fra i tanti avvenimenti, non posso tralasciare il ricordo di una tragica notte di fine gennaio, quando, a Lace di Donato, viene catturato l’intero nostro comando di Brigata. I dodici prigionieri verranno tutti impiccati o fucilati. Rimasti senza capi, colpiti a fondo, decidiamo di non arrenderci. In febbraio avremo l’aiuto di lanci aerei di armi e munizioni. Alla fine, il 3 maggio, l’entrata in Ivrea, una giornata radiosa. Non saremo più di 200/250, ma alle nostre spalle abbiamo un lungo elenco di caduti, più di 1.400 fra combattenti e civili, e questo solo nel Canavese e nella Bassa Val d’Aosta… Dopo qualche giorno, con nostro grande sollievo, arrivano gli Alleati. Mi si consenta, in conclusione, una breve riflessione valutativa. Che cosa fu la Resistenza? Dobbiamo dirlo e ripeterlo: fu un’inevitabile rivolta morale contro un mostruoso progetto di sottomissione universale a una superrazza, a un despota spietato, a un moloch che aveva già divorato milioni di esseri umani. David Bidussa paragona la mentalità totalitaria (Morcelliana 2004) a una specie di vampiro che ti succhia l’anima e ti svuota della tua identità personale. Tornando a casa, a guerra finita, da padre Luigi Rinaldini, un oscuro ma autentico eroe della Resistenza, apprendo la morte dei suoi due fratelli Emiliano e Federico. Fanno parte di un glorioso elenco di bresciani caduti per la libertà. Il 25 aprile potrebbe essere dedicato alla vittoria della democrazia contro tutte le tirannidi, compresa quella sovietica, fermata in Italia dal voto politico del 1948, e crollata, nel 1989, insieme al muro di Berlino, ultimo simbolo, in Occidente, dell’inaccettabile barbarie totalitaria.