Giornale di Brescia, 24 febbraio 1995.
Si chiama «resistenza» l’opposizione al nazismo e al fascismo che durante la seconda guerra mondiale fu condotta in tutti i paesi occupati dai tedeschi, contro le forze occupanti e i governi che collaborarono con loro. «La resistenza è stata una realtà multiforme tanto nei suoi aspetti quanto nella sua ispirazione. Non fu solo un fatto militare, e neppure preminentemente un fatto politico-organizzativo: fu anche fatto-morale, impegno di coscienze per principi considerati assoluti. Fu, non meno una realtà affettiva, un sentimento di ribellione ai soprusi, alle violenze, agli arbitri, alle crudeltà» (Mario Bendiscioli). Cronologicamente per l’Italia il termine «resistenza» designa il periodo che va dall’8 settembre 1943 al 25 aprile 1945. La resistenza» italiana si inserisce, sia pure con caratteri propri, nel più vasto quadro della «resistenza» europea, che ha inizio ben prima dell’8 settembre 1943.
Il crollo del fascismo e i «45 giorni» di Badoglio
Mussolini, nonostante l’accertata impreparazione militare e psicologica dell’Italia, di fronte ai grandi successi conseguiti da Hitler nella primavera del 1940, credendo ormai vicina la conclusione del conflitto, dichiara guerra alla Francia e all’Inghilterra (10 giugno 1940). Dopo vittoriose battaglie su diversi teatri di guerra, il cedimento italo-tedesco, sia nel nord-Africa, in Libia, sia in Russia, si profila netto tra l’autunno del 1942 e la primavera del 1943. In Italia si avverte che la guerra è perduta e l’opposizione al regime si manifesta clamorosamente negli scioperi del marzo 1943 nelle grandi industrie dell’Italia settentrionale. Il 10 luglio 1943 gli anglo-americani sbarcarono in Sicilia. Il 25 luglio il massimo organo del regime fascista, il Gran Consiglio, vota la sfiducia a Mussolini. Il re Vittorio Il Emanuele III dimette Mussolini e chiama il generale Pietro Badoglio a presiedere un governo di funzionari. Nei «45 giorni» tra il 25 luglio e l’8 settembre l’impacciata politica di Badoglio suscita la diffidenza di Hitler, che invia non richieste divisioni tedesche in Italia, sia degli alleati anglo-americani che intensificano i bombardamenti a tappeto sulle nostre maggiori città, sia degli antifascisti, delusi della disgraziata dichiarazione «la guerra continua» e costretti ancora ad una semiclandestinità, persistendo la repressione della libertà di riunione e di stampa. Badoglio, preso tra la miopia del sovrano, le minacce di Hitler e la lentezza esasperata degli alleati a negoziare, non ha un chiaro programma di azione. Il 10 agosto si decide lo sganciamento dei tedeschi e si iniziano le trattative dirette con gli alleati. L’8 settembre alle 19.45, Badoglio annuncia per radio l’armistizio, senza aver messo in atto le misure militari necessarie a prevenire la prevedibile reazione tedesca. L’imprevidenza e la disorganizzazione portano il Paese alla catastrofe.
L’armistizio disorganizzato
La marina raggiunge le basi degli alleati; ma l’esercito, dislocato su uno scacchiere di eccezionale ampiezza, dalla Francia al Mar Egeo, senza direttive e senza capi, si sfascia. Il re e Badoglio lasciano Roma, raggiungendo Pescara e di lì s’imbarcarono per Brindisi, per alcuni mesi salita al rango di capitale del «Regno del Sud». Il 12 settembre un commando di SS libera Mussolini, rinchiuso in un albergo sul Gran Sasso, e intorno all’ex duce nell’Italia occupata dai tedeschi si ricostituisce il fascismo, il governo fascista. È il preannuncio della guerra civile. La fascista «Repubblica sociale italiana» (Rsi) è detta «Repubblica di Salò», dal nome della cittadina del lago di Garda in cui risiede i1 governo fantoccio. Lo sfacelo dello Stato è impressionante come quello dell’esercito regolare, ma splendidi e numerosi sono gli atti di eroismo, in quel terribile settembre, in quelle prime settimane di «resistenza» spontanea e disperata. II 21 settembre si solleva Matera. Dal 27 al 30 settembre insorge Napoli affamata e terrorizzata, costringendo i tedeschi a evacuare la città. Nelle prime ore del 9 settembre Roma si difende dall’attacco tedesco. Soldati delle divisioni Ariete e Piave e civili si battono con coraggio a Porta San Paolo e alla Cecchignola; il primo caduto della resistenza è un professore, Raffaele Persichetti. Nei pressi di Roma, a Torrimpietra, ben 21 ostaggi sono presi a caso tra la popolazione perché una bomba, esplosa non si sa come nell’accantonamento tedesco uccide due militari. Il brigadiere dei carabinieri Salvo D’Acquisto, pur non avendo nulla a che fare con l’attentato, se ne assume la responsabilità per salvare la vita degli ostaggi. Un episodio analogo c’era già stato e aveva avuto per protagonisti tre carabinieri. In Puglia, Barletta si batte bene, ma è piegata e vede l’olocausto di 11 vigili urbani e 2 spazzini. Nei Balcani e nelle isole del Mar Egeo vi è oltre un quarto del l’esercito italiano, quasi 750 mila uomini. Nell’Egeo i presidi di Cefalonia, Lero e Corfù resistono: ma quando arriva l’ora della resa, è il massacro: i tedeschi passano per le armi 8.400 uomini della divisione Acqui a Cefalonia. Nei Balcani, a poco a poco, tra mille difficoltà i nostri soldati entrano a far parte delle formazioni partigiane degli ex-nemici; molti sono presi tra due fuochi, fra i partigiani e i tedeschi; 150 mila cadono prigionieri dei tedeschi. In breve: in numerosissime località civili e militari si oppongono ai tedeschi dopo l’8 settembre e nondimeno, l’assenza di un tempestivo e organico piano d’azione, il disorientamento generale, lo stato d’animo assai diffuso tra i soldati del «basta con la guerra, tutti a casa» contribuiscono al successo della preordinata rappresaglia tedesca che si dispiega fulminea in tutta la sua ferocia. Oltre 600 mila soldati son catturati e internati nei campi di concentramento in Germania.
L’incontro tra la «resistenza lunga» e il «neoantifascismo»
Nei giorni immediatamente successivi all’8 settembre è spontanea la reazione all’occupazione tedesca, ai rastrellamenti nazisti, all’ultima incarnazione del fascismo. In montagna si ritrovano ben presto gli sbandati, i renitenti alla leva fascista, i giovani pervenuti a un «neo-antifascismo tendenziale e generico» dalle esperienze disastrose della guerra fascista, quelli desiderosi dell’azione in quanto tale, ma anche i militanti nei partiti antifascisti e i più decisi assertori della «rivolta morale» alla dittatura e al neo-paganesimo razzista. La protesta spontanea è all’origine di scelte individuali di larghi strati di resistenti, ma non è lecito confondere il momento aurorale della resistenza con il suo effettivo sviluppo militare e politico. Non è concepibile una lotta partigiana senza la identificazione delle ragioni politiche di fondo della propria scelta. Senza il dibattito politico, senza l’apporto dei partiti antifascisti, senza il loro impegno nella politicizzazione delle forze resistenziali, senza la loro attiva presenza nelle fabbriche e nelle campagne, la resistenza non sarebbe mai stata la mobilitazione di tutto un popolo e non avrebbe avuto l’efficacia e la continuità che ebbe. Nel disfacimento generale degli organi statuali e delle forze armate nell’autunno del 1943, il Paese trova in sé la forza per uscire dal caos del «si salvi chi può», dalla rassegnazione passiva, dall’attendismo inerte e inizia la lotta armata contro l’oppressore ed i suoi complici. «Noi combatteremo la nostra guerra, che non è la vostra guerra» dichiara con fierezza Ferruccio Parri nel primo incontro, a Lugano, con gli inviati delle potenze alleate (4 novembre 1943). Certo il nemico è lo stesso e la collaborazione con gli alleati è ovviamente necessaria e di primaria importanza, ma la parte degli italiani, per risorgere a dignità di popolo indipendente e di Stato democratico, non può essere delegata ad altri. Malgrado le differenze di esperienze e di generazioni, si operò quasi dappertutto la saldatura tra i superstiti combattenti dell’antifascismo «storico» irriducibili alle minacce e alle lusinghe del regime, fuoriusciti o prigionieri in patria, condannati al carcere o al confino e i nuovi combattenti, i resistenti, i giovani illusi e traditi dal fascismo. Gli organi della resistenza politica sono, sin dall’inizio, i partiti antifascisti, usciti in parte dalla clandestinità il 25 luglio 1943. Essi confluiscono nel «Comitato nazionale delle correnti antifasciste» che preme su Badoglio per il rilascio dal carcere dei detenuti politici, per l’allentamento del regime di polizia, per la fine della guerra a fianco della Germania e per la guerra contro Hitler. «L’alleanza fra l’Italia e la Germania – si affermava nell’o.d.g. del 2 settembre 1943 – è, per precisa confessione dei contraenti, l’alleanza di due regimi dittatoriali; caduto il regime fascista, l’alleanza è invalidata e l’Italia ridiventata libera ha diritto di riesaminare la sua posizione secondo gli interessi e gli ideali, non più d‘una fazione, ma di tutto il Paese».
Dopo l’8 settembre il «Comitato nazionale delle correnti antifasciste» si costituisce in «Comitato di liberazione nazionale» (Cln) «per chiamare gli italiani alla lotta ed alla resistenza e per riconquistare all’Italia il posto che le compete nel consesso delle libere nazioni». (Ivanoe Bonomi, Diario, 9 settembre 1943). In tutti i centri maggiori si costituiscono i Cln e tra essi ha una sua preminenza il Cln di Roma, simbolo del governo clandestino, dopo la liberazione di Roma sarà il Cln di Milano, divenuto «Comitato di liberazione nazionale Alta Italia» (Clnai), l’organo supremo di lotta e di guida di tutta l’Italia occupata. La struttura dei Cln è paritetica, in quanto ogni partito ha in esso un numero uguale di rappresentanti, e le decisioni devono essere prese all’unanimità. Il 16 ottobre 1943 al Cnl di Roma si dibatte e si respinge la proposta del Partito socialista e del Partito d’Azione, seguiti tiepidamente dal Pci, di proclamare la decadenza della monarchia: si vuol evitare ogni atto che possa «compromettere la concordia della nazione» e nello stesso tempo si insiste nel precisare che sarà il popolo stesso, a guerra finita, a «decidere sulla forma istituzionale dello Stato».