Le culture contemporanee e la speranza cristiana

Autori: Poupard Paul

Introduzione: dall’ottimismo al pessimismo

La speranza e il mito di Prometeo (Karl Marx)

L’Ottocento è stato il secolo delle grandi speranze, del grande ottimismo. La prima rivoluzione industriale e il nascente capitalismo facevano sperare in uno splendido, magnifico futuro. L’impresa industriale era in espansione e prometteva grandi cose. La migliore espressione di questo nuovo spirito imprenditoriale è il canto degli industriali di Rouget de Lisle (1821).

I tempi preparati dai nostri padri

finalmente sono arrivati,

tutti gli ostacoli sono stati eliminati;

entriamo nei giorni della nostra prosperità.

Già piegano di fronte a noi

la forza e l’errore detronizzati;

qualche sforzo ancora e qualche giorno,

ed essi cadranno alle nostre ginocchia.

Ritornello:

Onore a noi, figli dell’industria!

Onore, onore ai nostri lavori felici!

In tutte le arti, vincitori dei nostri rivali

siamo la speranza, l’orgoglio della patria

siamo la speranza, l’orgoglio della patria.

Ma non solo gli industriali erano pieni di buone speranze. Lo era pure quel sottoprodotto della società capitalista che è il movimento socialista; anche se le sue speranze erano diverse, tuttavia non erano meno grandi. Al contrario. E assai nota la frase di Marx su Prometeo che, secondo lui, avrebbe dovuto avere il primo posto nel calendario dei santi atei. Il mito di Prometeo viene così assunto a simbolo ed espressione della speranza dell’umanesimo ateo: il ribelle contro la volontà gelosa degli dei porta all’umanità il benefico fuoco che migliora radicalmente la loro situazione sulla terra. Insomma, un radioso futuro sembrava sorridere all’umanità. La speranza era, in quell’epoca, una virtù esaltante, ma relativamente facile.

La disperazione e il mito di Sisifo (Albert Camus)

Più o meno cento anni dopo che Marx invocava entusiasticamente il santo Prometeo, un altro personaggio mitico viene ripreso e assunto a espressione di un diffuso sentimento dell’epoca. E’ il mito di Sisifo, come ce lo ha presentato Albert Camus2: espressione di inutilità, di vanità e di assurdità di qualsiasi sforzo umano per migliorare radicalmente la propria situazione. Il grande masso, spinto da Sisifo verso la cima della montagna, quando già sembra aver quasi raggiunto la vetta, disgraziatamente scivola e rotola di nuovo giù nella valle, dove il faticoso processo per l’ennesima volta ricomincia da capo, insensatamente, inutilmente.

Osservando questa sconsolante immagine, ci viene quasi spontaneamente il grido: ma perché fare tutta quest’enorme fatica che risulta completamente inutile? Non è stata forse la somma saggezza dell’uomo espressa nelle parole: vanitas vanitatum et omnia vanitas? Non si cela in questa vita l’inutile fatica dell’assurda attesa di Godot, così genialmente descritta nell’opera teatrale di Samuel Beckett: Aspettando Godot3?

L’attesa di Godot (Samuel Beckett)

Ricordate quella scena desolante: contro l’orizzonte vuoto e sconfinato si staglia un albero quasi secco e lì accanto due poveracci, Vladimiro ed Estregone, occupati in varie sciocchezze: una vecchia rapa, la melodia di una canzoncina, una vecchia scarpa, discussioni che non hanno né capo né coda, e soprattutto grande voglia – che ripetutamente li prende – di andarsene, di abbandonare la scena, di sparire. Ma quando sembra che stiano già per andarsene, ecco che si ricordano di Godot e della sua promessa di venire, e quindi della loro impossibilità di andarsene, poiché devono aspettare Godot. Non sanno bene chi sia esattamente questo Godot, e non sanno neppure quando precisamente verrà. Uno di loro pensa che verrà di sabato, ma non sa di quale sabato si tratti. E così, con un’enorme voglia di andarsene, questi due poveri diavoli ammazzano il tempo come possono; infine, disperati, gridano: andiamocene, andiamocene! Ma rimangono fermi, lì, sulla scena, come inchiodati.

Ecco l’uomo moderno, sospeso tra Promoteo e Sisifo, l’uomo dell’esistenzialismo moderno, in certi momenti nauseato fino alla morte, nell’indeterminata attesa di un certo Godot, incapace di prendere la radicale decisione di andarsene. E lo spettatore che non se n’è andato alle prime battute, è pervaso da un sentimento di desolazione. Lo spettatore che s’intende un po’ di teologia, subito si rende conto di trovarsi in presenza di una certa escatologia, fuorviante e deformata come si vuole, rna oggi assai diffusa in maniera non riflessa, non tematizzata, e quindi tanto più pericolosa. li merito di Beckett è di averla svelata e messa bene in evidenza sulle scene del teatro, rendendoci così capaci di difenderci dai suoi acidi corrosivi.

Il sapere come potere (George Orwell)

La radice di questo cambiamento sta, credo, nel diffuso sentimento di paura che invade ogni uomo che cominci un po’ a riflettere sui fenomeni della vita contemporanea e ad estrapolarli, secondo la loro dinamica propria, in futuro4. Tutti questi fenomeni che ci fanno paura, sono prodotti dall’uomo, dal suo accresciuto e sempre crescente potere trasformativo e distruttivo. Già Descartes in Francia cercava di costruire un sapere capace di rendere l’uomo “le maître et le possesseur de la nature”. Bacone in Inghilterra quasi identificava il sapere con il potere. E bisogna riconoscere che l’uomo ha fatto un grande progresso sulla strada indicata da questi due maestri del pensiero moderno. Il sapere come potere, come dominio, come capacità di manipolare; il sapere come razionalità scientifico-tecnica che domina e trasforma la natura, il mondo, l’uomo stesso, ecco l’ultima radice di questo grande rivolgimento dell’ottimistica speranza nel suo opposto. Pensiamo anche al libro di George Orwell 1984, pubblicato nel 1950, che è stato oggetto del Colloquio del Consiglio d’Europa di Strasburgo, nel 1984: “1984: Mythes et réalités – l’homme, l’Etat, la société en question”. Questo sapere, questa razionalità scientifico-tecnica, così tipica di quella civiltà nata in Europa e che da qualche tempo si sta espandendo in tutto il mondo, mettendo in crisi gli alti valori di molte civiltà tradizionali, questo sapere, dico, ha provocato delle gigantesche trasformazioni.

La catena di trasformazioni e rivolgimenti (Erich Fromm)

Prima di tutto esso sta trasformando profondamente l’ambiente naturale. L’urbanizzazione è galoppante e talvolta caotica; le megalopoli diventano assordanti e malsane; la natura viene danneggiata in modo spesso irreversibile, degenerando in un ambiente sempre più artificiale; il problema dell’inquinamento diventa sempre più urgente.

Questo sapere sta trasformando, inoltre, la stessa base materiale della nostra vita. Il crescente peso dell’industria nei confronti dell’agricoltura mette in moto la cosiddetta rivoluzione terziaria vale a dire, trasforma lo stesso lavoro umano, in quanto aumenta sempre più l’importanza delle occupazioni terziarie (servizi vari) e quaternarie (ricerca), mentre diminuisce l’importanza delle occupazioni primarie (caccia, pesca, raccolta, coltivazione, estrazione dei minerali…) e secondarie, che assicurano la lavorazione dei prodotti dei settore primario5.

Esso sta trasformando persino lo stesso lavoro scientifico. Il crescente peso dell’automazione e della cibernetizzazione, la cosiddetta rivoluzione degli automi, richiede il sempre maggiore contributo della scienza, che in tal modo si trasforma in forma produttiva. Investimenti sempre più grandi vengono fatti nella ricerca scientifica, sia applicata che pura, poiché è stato dimostrato più volte che certe scoperte, in apparenza puramente teoriche, ben presto risultano ricche di svariate applicazioni pratiche.

Tutto questo di conseguenza provoca una profonda trasformazione della stessa composizione o stratificazione della società. La prima rivoluzione industriale trasforma il contadino in operaio. La seconda rivoluzione industriale, come la chiama Norbert Wiener, porta alla nascita e alla formazione della tecno-burocrazia, classe che, come osserva Gurvitch, “detiene i più grandi segreti tecnici, quelli che permettono di manipolare prima di tutto la natura, ma anche, per mezzo suo, gli altri uomini, gruppi e società”.

Il rovescio di questo processo sociale è la marginalizzazione. Il lavoro intellettuale, sempre più impegnativo, porta in tutti i paesi progrediti alla formazione della classe degli emarginati, che costituisce il 15-20% dell’intera popolazione. Si tratta insomma di un nuovo proletariato. Ad esso si riferisce Marcuse quando scrive: “al di sotto della base popolare conservatrice vi è il sostrato dei reietti e degli stranieri, degli sfruttati e dei perseguitati di altre razze e di altri colori, dei disoccupati e degli inabili. Essi permangono al di fuori del processo democratico”. E così cambia il concetto di ricco e povero. La “proprietà” diventa sempre più un insieme di poteri di decisione, come sostiene Gunnar Carlson. Il ricco è colui che si può meglio inserire nel processo produttivo, mentre il povero è colui che sta ai suoi margini o completamente fuori.

Il fatto che con tutte queste trasformazioni la società umana divenga sempre più complessa e si muti in un immenso supersistema che contiene in sé molti sottosistemi con una enorme quantità di variabili rende sempre più problematica la direzione di un tale complesso di sistemi. In altre parole: non si possono più dominare direttamente tutte le variabili del sistema sociale. Ciò crea la diffusa impressione, come scrive Nigel Calder, di essere “passeggeri di un treno imbizzarrito, che sì avventa sulle rotaie sempre più veloce. Qualche passeggero tenta di tirare il segnale di allarme, ma non succede niente; sembra che nella cabina di guida non ci sia nessuno. Noi non sappiamo dove questa linea ci porterà alla fine, ma è evidente la direzione presa nel periodo attuale. Essa ci porta verso nuove armi, nuove industrie, nuovi prodotti meccanici ed elettronici, nuovi farmaci, nuovi inquinanti, nuove fonti di rumore; essa ci porta lontano della natura e dalla vita semplice…Sembra che non ci sia possibilità di salvezza, nessun cambiamento di rotta possibile. ‘Non si può fermare il progresso’, dice la gente”. E sorge la questione drammatica: è possibile un mutamento sociale in direzione dell’essere?6.

La guerra strisciante (Nobert Wìener)

Ma non basta. Se si pensa ancora agli attuali blocchi militari, cori i loro eserciti e i loro diversi sistemi di missili continentali o intercontinentali, l’immagine del mondo si fa ancora più tetra. E si noti bene che, in questa situazione, di terribile non c’è solo un immenso potenziale distruttivo accumulato dalle due superpotenze, ma anche una guerra, silenziosa, strisciante, che è già in pieno svolgimento.

Nella recensione del libro di Nobert Wiener, Cibernetica, Padre Dubarle scrisse sulle pagine di Le Monde che “una delle più grandiose prospettive che si aprono è la possibilità di dirigere razionalmente le cose umane…di costruire una specie di macchina da governo che potrebbe sostituire – ai fini del bene o del male – il cervello umano e le sue imperfezioni”. E Wiener, riferendosi alle parole del domenicano francese, osserva dal canto suo che il pericolo non consiste tanto nel dominio della macchina, rimanendo, questa, sempre troppo imperfetta e dipendente dall’uomo, ma nel fatto che questa macchina venga adoperata da un gruppo di uomini. E questa non è una fantasia. Quando von Neumann e O. Morgenstern pubblicarono La Teoria dei giochi, vale a dire il progetto di un automa che gioca a scacchi, Shannon presto avvertì l’importanza di questa teoria per le azioni militari. E gli anni ’50 hanno dimostrato, come scrive ancora Wiener, che stiamo sviluppando, anche senza la macchina di padre Dubarle, una nuova concezione della guerra, dei conflitti economici e della propaganda, sulla base della teoria dei giochi di von Neumann. Attualmente, quindi, in ambedue le parti del mondo in conflitto, è in funzione una specie di macchina da governo, anche se non consiste di una sola macchina, ma piuttosto di una tecnica meccanica, adatta ai bisogni di un gruppo di uomini simili alle macchine7.

In altre parole, il potere, come ha già acutamente osservato Romano Guardini, si oggettivizza, si rende quasi indipendente dall’uomo, si sviluppa in maniera autonoma, secondo una logica immanente del sistema, diventando anonimo, impersonale, inumano, alienato; cioè si demonizza. Cosa diventa, di fronte a questi fenomeni delle culture di oggi, la speranza cristiana?

II. Dalla prospettiva escatologica all’incrollabile speranza

Dalle utopie alle anti-utopie e alla futurologia (A. Huxley)

Non c’è da meravigliarsi se le utopie ottimistiche di Jules Verne sono state oggi sostituite da una specie di anti-utopie, cioè dalle visioni terrificanti della completa distruzione o di un completo asservimento o abbruttimento dell’uomo, come quelle di Orwell, di Huxley, di Capek o di Johannesson. Il guardare verso il futuro non ci esalta più, al contrario, ci terrorizza. E se ancora alcuni decenni fa il compianto Raymond Aron poteva scrivere che “siamo troppo ossessionati dal ventesimo secolo per perdere il tempo con le speculazioni sul ventunesimo”, questo, oggi, non si può dire più. La cosiddetta futurologia – il termine è di O.K. Flechtheim – è stata sviluppata grazie all’opera di Gaston Berger, Bertrand de Jouvenel, Herman Kahn e di tanti altri. Così, secondo l’acuta osservazione di Flechtheim, “nella triarchia passato-presente-futuro, il futuro ora assume un valore ben superiore”8.

Ripresa della prospettiva escatologica (Teilhard de Chardin)

Ciò che a livello tecno-scientifico si chiama futurologia, a livello filosofico (o teologico) si chiama escatologia. Pertanto non c’è proprio da stupirsi se i pensatori più chiaroveggenti del nostro tempo si pongono spontaneamente nella prospettiva escatologica. Così, Nikolaj Berdjaev avverte la necessità di superare la metafisica atemporale dell’essere e di elaborare la metafisica escatologica, a partire dalla quale e sulla base della quale sarebbe possibile assumere coerentemente un atteggiamento e un’azione profetica.

Così padre Teilhard de Chardin sente urgentemente la necessità di abbozzare un modello dinamico del mondo, un modello le cui linee di forza tendono verso il punto Omega, verso il Cristo “evolutore”, verso quella consumazione finale che egli descrive con insolita forza poetica nel suo Le milieu divin. “Come un lampo che guizza da un polo all’altro, la presenza del Cristo, silenziosamente accresciuta nelle cose, di colpo si rivelerà. Spezzando tutte le dighe in cui la trattenevano in apparenza i veli della Materia e la mutua impermeabilità delle anime, essa invaderà la faccia della terra”9.

Ecco perché Romano Guardini esprime la convinzione che questo carattere escatologico della nostra epoca si manifesterà anche nel futuro atteggiamento religioso. Naturalmente, ciò non significa sventolare un’apocalittica di basso prezzo. Nessuno ha il diritto di speculare sulla data della fine del mondo. Quando Guardini parla della vicinanza della fine, ciò va inteso, non temporalmente, ma essenzialmente: cioè, “la nostra esistenza è arrivata nelle vicinanze di una decisione assoluta e delle sue conseguenze: alle più alte possibilità o all’estremo pericolo”10.

E’ evidente che in questo contesto escatologico la speranza acquista un’importanza del tutto particolare; ma questa volta non è più la speranza facile, ottimistica, entusiastica del secolo scorso, come si è espressa nel canto degli industriali o nell’interpretazione marxiana del mito di Prometeo. E’ una esperienza sofferta, difficile, una speranza che è virtù, che è un voluto, conscio, meditato atteggiamento di vita nei confronti della realtà globale.

 La filosofia della speranza (Gabriel Marcel)

Così, nel 1935, un filosofo tedesco tomista, Joseph Pieper, pubblica il suo libro Uber die Hoffnung. Il concetto di status viatoris appartiene, secondo Pieper – e credo giustamente – ai fondamentali concetti della dottrina sulla vita cristiana. E’ chiaro che lo stato d’essere-in-via non è, nel suo senso proprio, una determinazione di luogo. Si tratta piuttosto di determinazione della più intima struttura ontologica della creatura. Questo stato comporta ed implica l’intimo ed ontologico “non-ancora” della creatura. Il “non-ancora” dello status viatoris include, secondo il filosofo tomista tedesco, qualcosa di negativo e qualcosa di positivo, cioè, il non-essere del compimento da un lato e l’orientamento verso il compimento dall’altro. Questa condizione ontologica è poi il fondamento sia della speranza, sia dei timore, in quanto il raggiungimento del bene lontano provoca nell’animo l’anelito di speranza del raggiungimento del bene sperato, e il timore di non arrivarci e di perderlo.

Analoga riflessione troviamo nell’opera del filosofo francese Gabriel Marcel, che nel suo libro Homo viator: prolégomènes à une métaphysique de l’espérance, pubblicata nel 1944, analizza la condizione dell’uomo. L’uomo, in quanto viator, è sempre in via, per cui la sua virtù fondamentale è la speranza. La speranza, secondo il nostro esistenzialista cristiano, è “essenzialmente la disponibilità di un’anima intimamente impegnata nell’esperienza di comunione per compiere l’atto trascendente” in cui viene stabilito il rapporto vitale con il “Tu assoluto”. In altri termini, la speranza – come dirà il filosofo alcuni anni più tardi in Position et approches concrètes du mystère ontologique (1949) – “è un atto che consiste nell’asserire che nel cuore dell’essere, al di là d’ogni dato e di ogni calcolo, esiste un principio misterioso che è in sinergia cori me, che non può volere se non ciò che voglio io, se ciò che io voglio è degno di essere voluto ed è voluto di fatto dal mio essere intero”.

Ed è quanto mai interessante notare che ancora nel pieno imperversare nella filosofia esistenzialistica e del suo taedium vitae, Gabriel Marcel, nel suo scritto L’homme problématique, ha osato scrivere queste parole: “a mio avviso, e lo affermo con qualche esitazione, le filosofie dell’esistenza fondante sull’angoscia hanno fatto il loro tempo e c’è da temere davvero che conducano in un vicolo cieco. Esse possono rinnovarsi, ne sono convinto, solo attraverso una meditazione sulla speranza e sulla gioia11″.

La speranza del neomarxismo (Ernest Bloch)

Il tema della speranza, però, si fa strada, non solo nella filosofia cristiana, ma anche in quella che chiameremo laica, specialmente di ispirazione marxista. Non di quella marxista-leninista che ha anche la sua speranza, ma che è già così ideologizzata, così irrigidita e sclerotizzata, da rappresentare nient’altro che l’apologetica e la legittimazione dell’immenso e incontrollato potere dell’oligarchia partitica. Si tratta piuttosto di quel marxismo che, in nome di un Marx possibilmente più autentico, come questo marxismo pretende, critica o in certi casi persino combatte ciò che è stato costruito nel suo nome. Si tratta del cosiddetto neomarxismo, troppo vario, troppo differenziato per poter essere ridotto ad un comune denominatore, ma, nonostante ciò, animato in gran parte dalla speranza che una vita più umana sia possibile. Colui che più di tutti gli altri ha approfondito il tema della speranza è stato senz’altro Ernst Bloch. La speranza è vista da lui come l’anima più intima di tutta la realtà, quasi il suo respiro o soffio vitale. Tutto è pervaso da una specie di élan vital, come direbbe Bergson; da un dinamismo, da un anelito che vuole realizzare ciò che non è ancora mai esistito; ciò che ancora nessuno ha mai visto; ciò che gli spiriti più perspicaci e più chiaroveggenti dell’umanità hanno intravisto e anticipato nei loro più arditi sogni e nelle loro più audaci visioni; ciò che non ha avuto ancora luogo sulla terra, che è stato ou-topos, cioè la non ancora realizzata utopia che è l’essenza di tutto e che spinge (pur non essendo) alla propria realizzazione, alla realizzazione dell’Homo con l’acca maiuscola, Homo che finora è latente nel processo mondiale, Homo absconditus, che però, per virtù propria, per mezzo dei lavoro e della rivoluzione, si farà Homo revelatus, uomo pienamente realizzato e manifestato, che logicamente non sarà più soggetto alla corruzione della morte.

Un tale uomo nuovo evidentemente non è ancora nato, noi tutti siamo solo i non-ancora-riusciti tentativi di produrlo, tutto è ancora in via, e l’esito di questo processo è incerto, data la possibilità di conflagrazione e di annientamento totale. Ma la speranza spinge al suo soddisfacimento. In questa prospettiva, allora, la religione per Bloch non è altro che un’immensa anticipazione, un immenso sogno ad occhi aperti dei futuro non ancora realizzato. Ecco perché egli non esita a dire: dov’è la religione, lì è la speranza.

E’ chiaro che un pensatore cristiano noti può accettare il concetto di religione proposto da Bloch. Ma è altrettanto chiaro che in questo universo del pensiero siamo lontano da quella miope e ottusa avversione di Lenin alla religione, espressa, per esempio, nella sua tristemente famosa lettera a Maxim Gorkij, dove dice che “ogni idea religiosa…rappresenta un’indicibile nefandezza…la più ripugnante malattia12″.

Anche il pensiero del cofondatore della Scuola di Francoforte, Max Horkheimer, è tutto rivolto verso la speranza ed è ancora più aperto alla religione di quanto non’ lo sia stato il pensiero di Bloch. La nostra solitudine, la nostra finitudine, ritiene Horkheimer, non sono proprio una dimostrazione dell’esistenza di Dio, ma sono piuttosto ciò che stimola o suscita in noi la speranza che esista un Assoluto positivo. Dietro ogni autentico agire umano sta la teologia, afferma Horkheimer; e la teologia per lui significa “la consapevolezza che il mondo è fenomeno, che esso non è la verità assoluta, l’ultima”. “La teologia è – e mi esprimo coscientemente con cautela – dice testualmente – la speranza che questa ingiustizia, così caratteristica del mondo, non rimane, che l’ingiustizia non può avere l’ultima parola”.

Il rinnovamento dell’escatologia (Oscar Cullmann)

Quanti stimoli, quante sfide alla teologia cristiana si celano in questo pensiero laico sulla speranza. Come ha reagito questa? Ha accettato la sfida? Ha tentato di dare una risposta? Credo che sia consolante constatare che la teologia cristiana, nonostante le incertezze e le ambiguità, ha dato una risposta che merita la nostra stima.

A questo proposito va notato prima di tutto il vasto rinnovamento dell’escatologia all’interno del pensiero teologico cristiano. L’escatologia nella teologia scolastica manualistica rappresentava piuttosto la Cenerentola dei trattati teologici maggiori, una specie di appendice spesso dimenticata o sorvolata. Per questo la cosiddetta “escatologia conseguente” (Gesù aspettava l’imminente venuta del Regno di Dio, mentre al suo posto venne la Chiesa), di Weiss, di Loisy e di Albert Schweitzer, formulata agli inizi del nostro secolo, ha avuto il merito di costituire con la sua posizione estremistica una salutare provocazione che ha suscitato varie reazioni, come l’escatologia atemporale o sovrastorica di Karl Barth o di Emile Brunner, l’escatologia esistenziale di Rudolph Bultmann, l’escatologia realizzata di Charles Herold Dodd o di Hoskyns e Grant; infine l’escatologia anticipata di Oscar Cullmann, la quale può essere considerata come uno dei frutti più maturi e più aderenti al dato rivelato di questa lunga e appassionata discussione, come il più felice equilibrio tra varie istanze, talvolta opposte, delle escatologie precedenti. L’evento pasquale, la risurrezione di Gesù, rappresenta in questa prospettiva una specie di battaglia decisiva che ha determinato definitivamente l’esito di questa lunga guerra per la salvezza, guerra che continua ancora, sì, ma il cui Victory day non è altro che questione di tempo13.

La teologia della speranza (Jurgen Moltmann)

Ma non solo l’escatologia diventa il tema prediletto della teologia contemporanea. La stessa speranza diventa oggetto della riflessione teologica a tal punto che ben presto si costituirà tutta una variopinta corrente chiamata teologia della speranza, in cui – e del resto, non può essere altrimenti – si mescolano le cose buone con quelle meno buone. Il pericolo di questo indirizzo è che il pensiero teologico si lasci ossessionare dal futuro. “L’unico futuro della teologia è di diventare teologia del futuro”, osa scrivere, in questo clima di euforia per la teologia della speranza, Harvey Cox. Questo è senz’altro uno spiritoso gioco di parole, ma teologicamente insostenibile. Lo stimolo del pensiero utopico neomarxista è assai chiaro in questa teologia. Anzi, sembra che tutta questa corrente teologica nasca in fondo come risposta dialogica all’escatologia neomarxista. Nella Theologie der Hoffnung di Jurgen Moltmann la cosa è quanto mai evidente. Ma a parte alcune ambiguità14, che purtroppo non mancano in questa teologia, il suo indiscutibile merito consiste nell’attirare l’attenzione dei teologi sui temi della promessa e della storia, della risurrezione nella storia e della risurrezione come promessa, della risurrezione come inizio della seconda creazione e quindi della trasfigurazione di tutte le cose.

La teologia della resurrezione (F.X. Durrwell)

Ora, quanto al tema della resurrezione, bisogna purtroppo osservare la stessa trascuratezza da parte della teologia scolastica manualistica, che abbiamo notato a proposito dell’escatologia. La resurrezione è stata ridotta solo ad una specie del più grande miracolo con cui si dimostra la missione divina di Gesù, e, quindi, praticamente ridotta ad argomento apologetico. Ma anche qui le acque si sono mosse. Il merito più grande è senz’altro di F.X. Durrwell colla sua preziosa opera La résurrection de Jésus, mystère de salut. Finalmente viene chiaramente detto e ben dimostrato teologicamente che la risurrezione di Gesù non è soltanto un argomento apologetico, e che il decisivo evento della salvezza e della nostra redenzione non è solo la morte di Gesù e quindi la Croce (come voleva la teoria satìsfactoria), ma la Croce e la Resurrezione nella loro inscindibile unità, secondo le parole di San Paolo, che non esita ad affermare; “…è stato messo a morte per i nostri peccati ed è stato risuscitato per la nostra giustificazione”15. E Durrwell, dal canto suo, riferendosi al motivo che lo ha spinto a scrivere questo libro, aggiunge: “il presente libro nacque dalla commozione d’animo che ci hanno causato questi testi chiave di San Paolo”.

Ecco, dunque, come, da questo momento in poi, l’evento pasquale – la morte e la risurrezione di Gesù – comincia ad acquistare in diverse opere teologiche di Louis Bouyer, Beda Rigaux, Jakob Kremer, Carlo Maria Martini, Jacques Delorme, Marie-Joseph Nicolas e tanti altri, particolarmente il Simposio romano del 1970, le sue vere proporzioni e le dimensioni più profonde16″.

Ora si comincia di nuovo a capire meglio che non si tratta solo di argomento apologetico, ma anche di un mistero, e più precisamente, del mistero pasquale, cioè, del passaggio, della trasformazione o trasfigurazione dell’umanità mortale, del primo Adamo, assunta dal Verbo, in quella dell’ultimo Adamo, dell’uomo nuovo, della nuova creatura, del corpo spirituale o spirito vivificante, che è diventato, in virtù della risurrezione, la fonte inesauribile dello Spirito, il punto di irradiazione della luce e del calore del Paraclito, il fermento della trasformazione del mondo, l’energia della trasfigurazione dell’universo, il capo di un nuovo corpo che è la Chiesa17.

La profezia della fede pasquale (C. Andronikoff)

Ecco come in questa prospettiva si comprende meglio il fatto che essere annunciatori del mistero pasquale significa essere portatori e testimoni di una verità, la cui evidenza non è chiara adesso, in questo momento, ma apparirà tale solo in futuro. Ma annunciare una verità, la cui evidenza apparirà in futuro e che si possiede quindi solo nella speranza, sì chiama ed è profezia. Essere portatori e testimoni della fede pasquale significa dunque essere veramente profeti nel nostro mondo, perché contro ogni opinione pusillanime, secondo cui il nostro mondo è quello che è così com’è, immutabile e incorreggibile, eternamente lo stesso e soggiacente irrimediabilmente alle ferree leggi della natura e soprattutto alla legge dell’entropia e della morte, contro questa rassegnazione e disperazione umana noi proclamiamo: Cristo è risorto, con la morte distrusse la morte e rinnovò la vita. Con la sua resurrezione illuminò la notte del sesto giorno della prima creazione e, dissipando le sue tenebre, ha fatto albeggiare nel cuore della notte il settimo giorno della seconda creazione, il settimo giorno della formazione della nuova umanità, il settimo giorno che non si è ancora concluso ma è in corso, il settimo giorno che non avrà più sera e a cui non succederà più la notte, ma l’ottavo giorno domenicale, il giorno dei beato riposo, l’eterno giorno del Regno compiuto, dove saremo simili a Dio, perché lo vedremo a viso scoperto come egli è18.

La speranza nel Concilio Ecumenico Vaticano II (Gaudium et Spes)

Questa speranza dei cristiani però – e il Concilio Vaticano II insiste su questo ripetutamente – “non diminuisce, ma anzi aumenta l’importanza del loro dovere di collaborare con tutti gli uomini per la costruzione di un mondo più umano19″. La Chiesa, secondo la Gaudium et Spes, “insegna che la speranza escatologica non diminuisce l’importanza degli impegni terreni, ma anzi dà nuovi motivi a sostegno dell’attuazione di essi. Al contrario, invece, se manca il fondamento divino e la speranza della vita eterna, la dignità umana viene lesa in maniera assai grave, come sì constata spesso al giorno d’oggi, e gli enigmi della vita e della morte, della colpa e del dolore rimangono senza soluzione, tanto che non di rado gli uomini sprofondano nella disperazione20″.

Ecco perché il Concilio cerca di rivolgere l’attenzione di tutti a Cristo risorto, “il nuovo Adamo21″, “l’uomo perfetto22″ che è “il fine della storia umana, il punto focale dei desideri della storia e della civiltà, il centro del genere umano, la gioia di ogni cuore, la pienezza delle loro aspirazioni…colui che il Padre ha risuscitato da morte, ha esaltato e collocato alla sua destra, costituendolo giudice dei vivi e dei morti”.

Sì, è vero che “ignoriamo il tempo in cui avranno fine la terra e l’umanità, e non sappiamo il modo con cui sarà trasformato l’universo” – continua l’insegnamento del Concilio ‑ “sappiamo, però, della rivelazione che Dio prepara una nuova abitazione e una terra nuova…”. Ma questa “attesa di una terra nuova non deve indebolire, bensì piuttosto stimolare la sollecitudine nel lavoro relativo alla terra presente”. Essa, infatti, non è vana, non è inutile, non è un’attesa di Godot che radicalmente vanifica qualsiasi sforzo umano per accelerare la sua venuta. Sì, come ci ammonisce il Concilio, è vero che “bisogna accuratamente distinguere il progresso terreno dallo sviluppo del regno di Cristo, tuttavia, nella misura in cui può contribuire a meglio ordinare l’umana società, tale progresso è di grande importanza per il regno di Dio23″.

Quindi, non una passiva, vuota, assurda attesa di Godot ma un’attiva attesa che fa avvicinare il giorno di Cristo “ut Christo venienti bonis operibus occurramus“, dice la lettura della prima domenica di Avvento. Ecco la speranza del Concilio, ecco la speranza della Chiesa. A questo punto vale la pena di riflettere sulle seguenti parole del Concilio “Legittimamente si può pensare il futuro dell’umanità riposto nelle mani di coloro che sono capaci di trasmettere alle generazioni di domani ragioni di vita e di speranza24″.

Papa Giovanni XXIII, “l’uomo della speranza incrollabile” (Giovanni Paolo II)

Uomo della speranza è stato, come ci ha ricordato recentemente Giovanni Paolo II, papa Giovanni XXIII. “La nota dominante del suo pontificato – dice papa Wojtyla – è stato il suo ottimismo…Chiamato alle responsabilità del supremo governo della Chiesa, quando solo tre anni, o poco più, mancavano al compimento dell’ottantesimo anno di vita, egli fu un giovane, nelle mente e nel cuore, come un prodigio di natura. Egli sapeva guardare al futuro con incrollabile speranza; egli attendeva per la Chiesa e per il mondo il fiorire di una stagione nuova…una novella Pentecoste…una nuova Pasqua, cioè un grande risveglio, una ripresa di più animoso cammino25″

Come scriveva Francois Mauriac all’indomani della sua morte: “Giovanni XXIII resterà il papa della speranza”, colui “per mezzo del quale l’accelerazione della storia è diventata l’accelerazione della grazia26″. Obbedienza e pace furono il suo motto. Nel nostro tempo tentato da prometeismo, egli ricorda che la serenità è il frutto della fiducia in Dio, poiché l’uomo di fede è senza paura, sicuro d’essere nelle mani di Dio. Per chi è animato dalla speranza, la storia, malgrado le apparenze, non può precipitare verso il caos attraverso le calamità. Con questa convinzione di speranza, Giovanni XXIII apre il Concilio manifestando “il suo completo disaccordo con i profeti di disgrazia che annunciano sempre catastrofi, come se il mondo stesse per finire”. Niente affatto! esclama con forza. E, dopo essere riuscito a semplificare la vita, egli riesce, durante la sua agonia dì Pentecoste nell’anno 1963, ad illuminare la morte Lungi, come si è detto, dall’adeguare la Chiesa ai gusti del momento, egli ha ridato al mondo il gusto del Vangelo. Morendo il 3 giugno 1963, egli lascia gli uomini più vicino a Dio e la terra degli uomini dimora migliore. Così, il cardinale Martini poteva dire, durante il rito religioso svoltosi a Milano il 7 giugno 1983: “Non più indietro, non è più a lui che guardiamo adesso, ma all’orizzonte che egli ha aperto al cammino della Chiesa e della storia…obbligati non a descrivere il suo passato, ma a scorgere il futuro che nasce da Lui. Tale è la speranza: senza proiettare la storia nell’eternità, essa vive l’eternità nel tempo27″.

Conclusione: la speranza o la fede nell’amore2

Di fronte alla crisi di speranza: sfida alla Chiesa di Cristo (A. Malraux)

Da quando André Malraux, profeta lirico della “condizione umana”, scriveva il suo famoso libro La Speranza, la situazione culturale del inondo è molto cambiata. E, secondo le celebri parole, l’avvertire non è più quello che era. Si è potuto perfino parlare di un futuro senza avvenire. Fin dalla più tenera età, l’istruzione orientata verso l’acquisizione delle conoscenze, più che verso la riflessione, l’invasione della coscienza da parte dell’ondata crescente delle notizie, il suo abbrutimento per il clamore dei mass media, i continui spostamenti di uomini senza sosta in transumanza, dal lavoro quotidiano fuori del luogo di residenza, ai week-end fuori città e alle vacanze lontano da casa, tutto ciò contribuisce a mantenere gli uomini alla superficie di sé stessi, nell’attimo di una vita senza segreto né mistero. Sicurezza e successo invadono l’orizzonte, mentre il timore dell’avvenire s’accompagna al disincanto per la politica. Insomma, siamo davanti ad una vera rivoluzione della cultura, cioè ad una reale trasformazione della cultura in quanto maniera d’essere uomini. Dopo il maggio 1968, André Malraux poneva bene la questione essenziale in questi termini, al microfono d’Europa 1, il 21 giugno: “La civiltà cristiana si sviluppava all’interno del cristianesimo. Oggi la civiltà si sviluppa in un certo senso a vuoto. Non si può fare niente per gli studenti, se non si dà loro speranza”.

Laicizzazione, urbanizzazione, secolarizzazione, tratti dominanti della nostra nuova cultura, hanno tolto infatti alla fede questa specie di evidenza che due millenni di feconda simbiosi avevano a poco a poco sviluppato. Dio ha cessato d’essere un dato immediato della coscienza collettiva. Le mediazioni tradizionali vengono a mancare. I segni stessi della fede, in uno spazio e in un tempo sacralizzati, sembrano essere svaniti in un mondo secolarizzato, in cui il clima culturale è caratterizzato dall’assenza crescenza dell’idea di Dio. La sessualità e la violenza hanno invaso, sui nostri schermi, la nostra vita quotidiana. E noi vediamo come riprendono forza gli impulsi istintivi e oscuri della vita, sotto il suo aspetto dionisiaco. L’ebbrezza della libertà s’accompagna al rigetto dell’autorità, al rifiuto dei dogmatismo e all’abbandono delle norme etiche. Questa è la sfida delle nuove generazioni alla Chiesa29, senza dubbio radicale quanto quella del Rinascimento: ai giovani che s’interrogano sul futuro dell’uomo e sono esposti alla disperazione, come dire che il futuro vero dell’umanità è Cristo Gesù, morto per i nostri peccati e risuscitato per la nostra vita? “Gesù Cristo salvatore, speranza degli uomini di oggi30″.

La speranza dei disperati (E. Mounier)

Più di trent’anni fa, Francois Mauriac si chiedeva, durante la Settimana degli intellettuali cattolici francesi dedicata alla “Speranza umana e speranza cristiana”: “Se Dio non esiste e tutto è permesso, ciò che è permesso è innanzi tutto essere disperati31″. Facendogli eco, due anni più tardi, Emmanuel Mounier, nel momento in cui Teilhard de Chardin temeva uno “sciopero della speranza”, pubblicava la sua riflessione impegnata di direttorefondatore della rivista Esprit, dal titolo significativo: “La speranza dei disperati32″. Nulla si oppone maggiormente alla speranza teologale che l’ottimismo ateo del mondo moderno, fondato esclusivamente sull’uomo e le possibilità mitiche che esso gli dà33.

La tentazione atea dell’uomo moderno – Giovanni Paolo II parlerà anche, durante il suo viaggio pastorale a Parigi, il I giugno 1980, di “meta-tentazione” – è quella di riporre speranza in sé stesso, nelle sue proprie forze. Questo falso ottimismo è la negazione stessa della speranza, e l’esperienza di questi ultimi decenni ce lo dimostra; il suo fallimento conduce direttamente alla disperazione. Il mito di un paradiso terrestre, di cui l’uomo sarebbe il demiurgo, rinchiude l’uomo nella prigione del mondo temporale, da cui ci libera la speranza fondata sulla resurrezione di Cristo. Infatti, come dice Gabriel Marcel, “ciò che rischia di incitarci alla disperazione è il sentimento che noi siamo in un vicolo cieco, che non ci sia veramente via di uscita, e qui, beninteso, si potrebbe fare appello ad ogni specie di simboli della letteratura onirica o fantastica, potendosi trasformare del resto l’immagine del vicolo cieco in quella della morsa34″. Per noi la via d’uscita è la fede in Cristo salvatore. Da Agostino a Pascal, da Kierkegaard a Péguy, questo pregustare la speranza eterna ha ispirato tanti capolavori della letteratura classica, fatti sorgere dall’intimo dalla fede nella promessa di Cristo ai poveri apostoli tremanti nella barca in balia del mare in tempesta: “Sono io, non abbiate timore!”. La voce potente di Giovanni Paolo II gli fa eco, fin dal primo giorno del suo pontificato: “Non abbiate paura! Spalancate le porte a Cristo!”. E ripeterà agli uomini di cultura riuniti a Parigi nella sede dell’Unesco, il 2 giugno 1980: “Sì, il futuro dell’uomo dipende dalla cultura. La pace dei mondo dipende dal primato dello spirito. Il futuro pacifico dell’umanità dipende dall’amore. Non fermatevi. Continuate, continuate sempre”. Sì, la speranza è proprio la virtù del nostro tempo, poiché essa è virtù dei tempi tragici: la speranza umana malata non si lascia guarire se non da mani piene d’amore e di speranza. Operiamo, dunque, con tutte le nostre forze, con la grazia di Dìo che è fonte, sostegno e termine della nostra speranza.

La speranza, virtù dei tempi tragici (Anna Frank e M. Kolbe)

Il cielo spirituale dell’umanità contemporanea non è sereno, ma è coperto di pesanti e minacciose nuvole dalle quali ogni tanto si sprigiona qualche improvviso fulmine di conflitto aperto e sanguinoso. Ci sono ancora sfruttamento e oppressione, si pratica la tortura, vengono calpestati in diverse maniere e sistematicamente i diritti fondamentali dell’uomo, soprattutto la libertà della coscienza e la libertà religiosa; esistono ancora i campi di concentramento e talvolta persino di sterminio, questi “Golgota del mondo moderno35″, come sono stati chiamati.

Ma – cosa curiosa, paradossale, stupefacente e allo stesso tempo esaltante – proprio là dove l’umanità è negata nel modo più radicale, totale, là dove l’uomo è ridotto completamente ad un semplice numero, a cui non viene attributo neppure il valore del vestito che porta, là, per una stupefacente dialettica, abbiamo potuto osservare una meravigliosa fioritura dell’umanità.

Pensate a quel tragico e pur solenne momento, quando nel campo di Auschwitz si decide l’esecuzione punitiva di alcune decine di prigionieri scelti a casaccio. Uno di essi piange, implora, grida di aver moglie e figli. Orribile scena! La condanna non è una semplice morte, che potrebbe essere in quelle condizioni una liberazione. Un attimo e tutto è finito! No! Si tratta di una morte lenta, lentissima, di fame e di sete, nelle celle della morte. “Appassite come dei tulipani”, ride una delle guardie su quegli scheletri umani che ancora si muovono. Ed ecco in quel momento si fa avanti uno dei prigionieri e si dirige direttamente verso il comandante del Campo, Fritsch. “Voglio morire al posto di uno di questi condannati”.

Quale gesto, quale affermazione estrema di umanità, di libertà, di amore, proprio nel cuore della loro più radicale negazione! Fritsch, detto il sanguinario, guarda il prigioniero con stupore e per la prima volta parla in modo umano con un prigioniero: “Per chi vuoi morire?”. “Per quello lì, che ha moglie e figli”, suona la risposta. “Ma tu chi sei?”, domanda ancora Fritsch. “Un prete cattolico”. Poi segue un silenzio che durante nessun appello è stato tanto lungo. Che cosa passava in quei momenti per la testa di Fritsch?…Infine si limita a dire, questa volta senza ingiurie, senza invettive, semplicemente: “Va’ pure!”.

La procedura è semplice. Il sottocomandante cancella un numero e ne scrive un altro: 16.670. Poi la fila si avvia verso il reparto della morte e sparisce nei bunker della fame.

Tutti sono morti lì, uno dopo l’altro. Ultimo, padre Kolbe, nel giorno della vigilia dell’Assunzione di Maria. “Non abbiamo mai visto il cielo così rosso come quella sera”, si ricordano i prigionieri.

Pensate ad Anna Frank, a quella fanciulla ebrea, che, dopo essere rimasta per mesi nascosta, lei e la sua famiglia, nel retrobottega di una casa olandese, come topi di fronte al gatto, viene scoperta e finisce nel campo dì concentramento di Bergen-Belsen, dove muore poco prima della fine della guerra. Una fine tragica, disperata? Sotto l’aspetto temporale, sì. Ma è qui che Anna scopre Dio, il Dio dei suoi padri, di cui scriverà nel suo diario: “Dio non mi ha abbandonata e non mi abbandonerà mai”. Non è questa una speranza contro ogni speranza, la speranza di Abramo? Senza dubbio. Ma proprio la piccola Anna Frank è “un’immagine della nostra speranza”, come scrisse di lei mons. Charles Moeller.

Questi uomini, questi simboli del trionfo dell’umanità e dell’amore in mezzo alla loro più radicale negazione, ci permettono di credere ancora nell’uomo, nonostante tutto, e sorreggono e alimentano la nostra speranza e il nostro amore. Il loro esempio ci rivolge continuamente la pressante e inquietante domanda: che cosa avete fatto della speranza degli uomini? Che avete fatto del Signore, speranza del mondo?36

Sì, proprio nel cuore delle culture di oggi37 noi tutti siamo chiamati ad essere testimoni di speranza cristiana, questa speranza che è fede nell’amore38.

1 Testo,  rivisto dal’Autore, della conferenza tenuta a Brescia il 7.12.1983 su invito della Cooperativa Cattolico-democratica di Cultura.

2 ALBERT CAMUS, Le mythe de Sisyphe, Paris, 1943.

3 SAMUEL BECKETT, En attendant Godot, recitata al teatro Babylone di Parigi, il 3 gennaio 1953; poi a Londra nel 1955, a New York nel 1956. Opera tradotta in 18 lingue.

4 Basta ricordare ALBIN TOFFLER, Le choc du futur, Paris, 1971; ZBIGNIEW BRZEZINSKI, La révolution technétronique, Paris, 1971; L’Europe de l’an 2000. Prefazione di Jean Fourastie, Paris, 1972.

5 JEAN FOURASTIE, La civilisation de 1975, Paris 1964; Cf. GASTON BERGER, Etapes de la prospective, Paris, 1967; ROGER CLEMENT, Vers une civilisation du futur, Paris 1972; ARNOLD TOYNBEE, Survivre au futur, Paris, 1973.

6 Cf. GIUSEPPE PUNTURI, Progetto Uomo: è possibile? Interrogativo di Erich Fromm, Roma, 1980; NICOLA ABBAGNANO, L’uomo Progetto Duemila. Dialogo con Giuseppe Grieco, Dino Editori, Coll. Ragione e Tempo, Roma, 1981.

7 Cf. CLAUDE LEFORT, L’invention démocratique. Les limites de la domination totalitaire, Paris, 1981; EDGAR MORIN, De la nature de l’URSS. Complexe totalitaire et nouvel empire, Paris, 1983. Hèlène Carrere D’Encausse, Le grand Frère. L’Union Soviétique et l’Europe soviétisée, Flammarion, 1983.

8 Cf. J.B. METZ, Glaube in Geschichte und Gesellschfti, Magonza, 1977; trad. française, La foi dans l’histoire et dans la société, Paris, 1979.

9 Cf. HENRI DE LUBAC, Teilhard de Chardin dans le contexte du renouveau, in La Théologie du renouveau, tome II, Paris, 1968, p. 165-187.

10 Cf. ROMANO GUARDINI, Les fins dernières, Paris, 1950. L’editrice Morcelliana di Brescia cura in Italia la traduzione dell’opera omnia dell’illustre pensatore tedesco.

11 Cf. Existentialisme chrétien, Gabriel Marcel, Presentazione di E. GILSON, Paris, 1947; Dialogue sur l’espérance, Gabriel Marcel et Ernst Bloch, 1967 pubblic. in Présence de Gabriel Marcel. Q. 1, Gabriel Marcel et la pensée allemande, Paris, 1979, pp. 39-74.

12 Cf. Dialogue sur l’Espérance, Gabriel Marcel et Ernst Bloc op. cit., supra; e ERNST BLOCH, Le principe Espérance, 1954 trad. fr. Paris, 1976.

13 Cf. Testimonia Oecumenica in honorem Oscar Cullmann octogenarii, Karlfried Frochlich ed., Tubingen, 1982.

14 Cf. JURGEN MOLTMANN, Teologie der Hoffnung, 1964, trad. franc. Théologie de l’espérence, Paris 1970, II, Débats, Paris, 1973.

15 Rom 4, 25.

16 Cf. F.X. DURRWELL, La résurrection de Jésus, mystère de salut Paris, 1950; L. BOUYER, Le mystère pascal, Paris, 1950; BEDA RIGAUX, Dieu l’a ressuscité, Gembloux, 1973; La Pàque du Chist, mystère de salut. Mélanges ed l’honneur du Père F.X. Durrwell, Paris, Cerf, Coll. Lectio Divina 112, 1982; M.J. NICOLAS, Théologie de la Résurrection, 1982.

17 Cf. RENE’ LAURENTIN, Nouvelles dimensios de l’espérance, Paris, 1972; G. MARTELET, Résurrection, Euchuristie et Genèse de l’homme, Paris, 1972.

18 Cf. C. ANDRONIKOFF, Le sens des fétes, Paris, 1970; VASSILI GROSSMAN, Tout passe…, romanzo tradotto dal russo, Parigi, 1972, e i libri della collana “Théophanie” diretta da Oliver Clement, Parigi, DDB, 1980, sg.; ANDRE BORRELY, Qui est près de moi est près du feu; IGNACE IV, patriarche d’Antioche, La Résurrection et l’homme d’aujourd’hui; KALLISTOS WARE, Approches de Dieu, 1982, etc.

19 Gaudium et Spes, n. 57

20 Idem, n. 21.

21 Idem, n. ??.

22 Idem, n. 45.

23 Idem, n. 39.

24 Idem, n. 31.

25 Giovanni Paolo II, Papa Giovanni indicò le vie dei rinnovamento…, Discorso all’Udienza generale, 25 nov. 1981, in Insegnamenti di Giovanni Paolo II, IV, 2, 1981, p. 754.

26 Figaro Iittéraire, Paris, 8 juin 1963, p. 20.

27 Cf. PAUL POUPARD, Un Pape, pour quoi faire?, De Saint Pierre à Jean-Paul II, Paris, 1980.

28 Cf. PAUL POUPARD, Eglise et Cultures. Jalons pour une pastorale de l’intelligence, Paris, 1980, p. 181 sg. “la nostalgie de l’espérance”.

29 Cf. Cardinal Suenens et M. Ramsey, L’avenir de l’Eglise, Paris, 1981.

30 Episcopato Francese, Lourdes, 1968.

31 CCIF, 1951, Paris, Ed. Pierre Horay, p. 124.

32 Paris, Ed. du Seuil, coll. La condition humaine, 1953.

33 Cf. CH. MOELLER, Littérature du XXème siècle et Christianism t. III, Espoir des hommes, Paris, 1957; t. IV, L’Espérance en Dieu Notre Père, Paris., 1960.

34 In CCIF, op. cit., p. 49.

35 Giovanni Paolo II, Sulle orme del Padre Kolbe… Discorso del 18 ott. 1981, in Insegnamenti di Giovanni Paolo II, IV 2, 1981, p. 457.

36 Cf. CH. MOELLER, Letteratura moderna e cristianesimo, t. III p. 4.

37 Cf. CARD. KAROL WOJTYLA, Il problema del costituirsi della Cultura attraverso la “Praxis” humana, in “Rivista di Filosofia neo-scolastica”, LXIX (1977), III, Milano, p. 1-12.

38 Cf. PAUL POUPARD, XIXème siècle, siècle de gráces, ch. XV, “L’Espérence ou la foi en l’amour”, Paris, Ed. S.O.S., 1982, pp. 233-248.