Sarebbe interessante vedere come, nell’arco di un millennio, gli antichi romani abbiano modificato il loro pensiero, superando pregiudizi concettuali nonostante la vischiosità delle strutture. Uno degli aspetti negativi della loro civiltà è stato senza dubbio l’antifemminismo. Il famoso Catone il Censore ne fu un campione e il problema della legge Oppia un episodio significativo. Questa legge vietava alle signore l’esibizione dei gioielli, l’uso di abiti sfarzosi e il passeggio in carrozza. La norma era stata votata nel 215 a.C. nel pieno della seconda guerra punica, quando Annibale, vincitore a Canne e padrone di mezza Italia, era ormai alle porte di Roma. Ogni manifestazione frivola sembrava stonare con la gravità dell’ora. Ma sotto questa motivazione moralistica doveva esserci anche la preoccupazione di non dissipare risorse finanziarie, che potevano essere utili per la guerra. Difatti cinque anni dopo si rese necessaria una contribuzione «volontaria » dei privati (oro alla patria!). Ma vent’anni dopo, cessato il pericolo, mentre anzi Roma estendeva il suo impero, a molte sembrava logico abolire la legge Oppia. A questo si opposero due tribuni, tra i quali uno dei tanti Bruto, e l’immancabile Catone. Alle donne non rimase che scendere in piazza. Questo provocò la reazione scandalizzata del futuro Censore, del quale Livio riferisce liberamente il discorso tenuto per l’occasione. L’oratore sfrutta prima di tutto la diffidenza dei suoi concittadini per le riunioni di massa (che erano sentite come manifestazione di sovversivismo), per definire il nuovo atteggiamento delle donne come una vera e propria rivolta, forse calcando le tinte sulla densità della folla («sono arrivato nel foro fendendo un mare di donne»). Poi però l’antifemminismo radicale si scopre in tutta la sua durezza: potevano chiedere l’abrogazione della legge ciascuna al proprio marito senza uscire di casa. Anzi neanche questo, perché non toccava a loro pronunciarsi su ciò che si deve o no decidere politicamente. Nessuna concertazione è ammissibile. Gli antichi (chiamati sempre in causa) non avevano riconosciuto alcuna autonomia in tal senso alle donne, le quali hanno sempre bisogno di un tutore. La manifestazione in corso rappresentava una surrettizia partecipazione al governo della cosa pubblica; riconoscerla voleva dire costituire un pericoloso precedente. Un’eco di questa disputa si coglie nella commedia plautina. L‘Epidicus attribuisce l’uso di vesti sfarzose alle donne di malaffare e l’Aulularia compiange i mariti, le cui mogli esigono tutti i lussi, compresa la carrozza per passeggiare in città. Per la cronaca va detto che il giorno dopo il discorso di Catone le donne in piazza erano ancora più numerose e decise; infatti presidiarono la casa di Bruto finché non ebbero partita vinta. L’antifemminismo però non doveva risalire alle origini di Roma, perché altrimenti non si spiegherebbe la presenza nella leggenda della figura virile di Clelia o dell’ intervento squisitamente politico della madre di Coriolano o delle donne sabine tra padri e mariti in guerra tra loro. Quindi i conservatori non potevano appellarsi a una tradizione univoca, quando richiamavano polemicamente gli antichi costumi. Questa è la situazione, in cui viene a trovarsi Tacito tre secoli dopo Catone. Egli è certamente un conservatore. Una sua frase basta a tradirne l’antifemminismo. Riferendo il consiglio dato dalla moglie del liberto Milicone al marito sull’opportunità di svelare i progetti antineroniani del loro patrono, lo storico commenta: «Consiglio da donna e dunque pessimo» (il latino è più perentorio e più ambiguo nello stesso tempo). Ma l’ammirazione per gli antichi più remoti avrebbe potuto portarlo a una prospettiva diversa. Egli risolve la duplicità proiettando l’idealizzato mondo delle origini sui popoli «barbari», i Germani e i Britanni, che sono presentati come antitesi ai romani contemporanei. Per esempio in Britannia la regina Boudicca, avendo subito violenza da parte dei romani nel regno e in famiglia, si mette a capo della rivolta del suo popolo e dei vicini, vittime come lei, non tanto per vendicare il trono quanto la libertà perduta e la pudicizia violata (come dichiara passando in rassegna le truppe ribelli, alle quali rivolge il discorso canonico dei generali prima della battaglia). Del resto, in qualche contraddizione con sé stesso, Tacito riconosce i meriti anche delle donne romane, quando si impongono alla sua ammirazione, a qualsiasi classe appartengano. Di rango regale è Agrippina, che viene rappresentata con commozione mentre riporta a casa le ceneri del marito Germanico, che si sospettava fosse stato eliminato per volontà dell’ imperatore. Borghese si direbbe Paolina, la moglie di Seneca, che vorrebbe morire col marito (suicida per ordine di Nerone), ma, impeditane dal principe (timoroso della pubblica opinione), «sopravvisse pochi anni, conservando lodevolmente il ricordo del marito» e mostrando in volto un pallore da morte. (È da notare che la morte di Seneca nel racconto di Tacito riecheggia il tipo platonico di quella di Socrate, ma il saggio greco allontana la moglie nel momento supremo, il romano è disposto a farla partecipe della sua gloria). Più in alto si colloca la liberta Epicari, che era una cortigiana, venuta a conoscenza della congiura di Pisone frequentando l’ambiente della base navale di Miseno. Scoperta la congiura, mentre gli uomini, nobili e intellettuali, si abbandonano a vergognose debolezze e delazioni nella vana speranza di salvarsi, lei sola si lascia ridurre in fin di vita dagli inquisitori, «che la torturavano tanto più accanitamente per non essere ridicolizzati da una femmina».Il contemporaneo e amico Plinio il Giovane va molto più avanti di Tacito. Anche lui ha vissuto gli anni del despotismo e ammirato il comportamento di alcuni oppositori del regime. Cecina Peto è stato ucciso ancora ai tempi di Claudio: il genero Trasea è morto sotto Nerone; il genero di Trasea, esiliato da Nerone, viene eliminato all’epoca di Vespasiano. Come si vede, questo stemma familiare si forma per via femminile. Ma non è un caso: le donne sostengono i mariti nel momento della prova e qualche volta sono più forti di loro: Arria maggiore fa vedere su di sé al marito Cecina come si affronta una morte comandata (la sua battuta: Paete, non dolet, detto del pugnale, è immortalata anche da Marziale). Arria minore vorrebbe seguire l’esempio della madre, ma Trasea vuole che viva per la figlia Fannia: questa a sua volta sfida la condanna del regime per salvare la biografia del marito scritta da Senecione. Cercando le ragioni di questi eroismi femminili, Plinio ne trova la fonte prima nella vita privata. Arria maggiore aveva già dimostrato grande forza d’animo, quando, al marito gravemente ammalato, aveva taciuto la morte del figlio, fingendo serenità ogni volta che entrava nella camera di Cecina. Fannia contrae una malattia mortale, mentre assiste una vestale sua parente ammalata. Questi atti sono ancora più eroici di quelli pubblici, osserva Plinio, perché non hanno la ricompensa della gloria. In questa prospettiva la vita quotidiana, nella quale la donna domina, acquista un grande valore morale in sé, non solo come preparazione alla vita pubblica. Plinio racconta con ammirazione di un’anonima del suo lago di Como, la quale, scoperta la malattia incurabile del marito, ripete con lui il gesto di Arria maggiore, che probabilmente ignora. Fundania è una giovinetta, che sta per morire, ma si dimostra più forte del proprio padre, che in tempi normali si professava stoico. La defunta moglie di Macrino è lodata semplicemente per esser vissuta con lui trentanove anni «senza litigi né screzi», con grande rispetto reciproco. Plinio forse pensa a sé stesso e al suo felice matrimonio con Calpurnia, alla quale indirizza un gruppetto di lettere, che sono quasi poesia in prosa: forse uno dei pochi esempi di poesia coniugale, che presuppone appunto un’alta considerazione della donna.
Giornale di Brescia, 5.8.1999.