Quando nel 2002 uscì in Italia Preghiera per Černobyl’ nelle Edizioni e/o di Roma il nome di Svetlana Aleksievič, bielorussa ma scrittrice di lingua russa, era noto quasi solo agli specialisti. In Unione Sovietica erano già apparsi all’epoca quattro dei suoi “romanzi di voci”, tra cui, appunto, nel 1997 Černobyl’skaja molitva.
Quella “cronaca dal futuro”, come si sottotitola il libro, sull’esplosione nell’aprile 1986 nella centrale nucleare al confine tra Ucraina e Bielorussia, rivelò ai lettori e critici italiani una nuova e importante scrittrice. Lei era allora in Italia e le venne conferito e consegnato il Premio Onofri 2002 per il miglior reportage narrativo e si rese possibile l’incontro dell’Autrice con i suoi lettori.
Uno di questi incontri, promosso dalla Cooperativa cattolico-democratica di cultura a Brescia si svolse il 9 ottobre 2002 e lasciò una durevole impressione.
E veniamo ai giorni nostri: dopo il conferimento del Nobel 2015 ad Aleksievič, e avvicinandosi il 30° anniversario dell’epocale catastrofe di Černobyl’, la Cooperativa di cultura ha voluto dedicare ad Aleksievič un omaggio che abbracciasse tutta la sua vicenda anche italiana e l’ha fatto con questo libro, agile ma denso. Si intitola Il male ha nuovi volti. L’eredità di Černobyl’, Editrice la Scuola. Contiene i due discorsi della scrittrice a Stoccolma in occasione del conferimento del Nobel e quello a suo tempo pronunciato a Brescia; è a cura di Alberto Franchi e Sergio Rapetti ed è introdotto da Goffredo Fofi. Inoltre vi si possono trovare molti riferimenti relativi alla fortuna di Aleksievič in Italia, edizioni, editori, principali recensioni e interviste dal 2002 ad oggi.
Non è la prima volta, in più di 15 anni da quando frequento e traduco Svetlana Aleksievič, che ho occasione di parlare o scrivere di lei e i suoi libri.
Presentando oggi l’Autrice, il suo libro su Černobyl’ e questo ultimo libro sull’Aleksievič premio Nobel de “La Scuola Editrice”, propongo cinque momenti che secondo me la caratterizzano come scrittrice e persona e che ritengo utili per la migliore comprensione di tutte le sue opere.
Lo sguardo:
Lo sguardo di Svetlana sulla realtà che indaga e racconta è uno sguardo partecipe, l’ho già definito “secondo sguardo” perché capace di tornare a guardare, di soffermarsi sul suo interlocutore e in qualche modo coautore del libro che si va componendo. È un esercizio, direi metodico, di immedesimazione, teso a comprendere e compatire vale a dire a consoffrire anche fino alle lacrime, con chi racconta. Si alimenta così, nella laboriosa memoria di Aleksievič, il ricordo anche emotivo di quelle conversazioni; e la capacità di restituire le testimonianze che raccoglie e che compongono i suoi docu-romanzi in modo non solo veritiero ma anche significativo per il lettore.
Le “gemme” della narrazione orale:
la scrittrice cerca programmaticamente nella massa di centinaia di interviste e colloqui con persone qualsiasi quei passaggi memorabili che lei ritiene degni della grande letteratura russa: sono le gemme, le pagliuzze d’oro che Aleksievič sa come far risplendere adeguatamente nella sua narrazione.
Il laboratorio:
è quello della sbobinatura e riordino delle testimonianze dentro una cornice unitaria, con qualche raro intervento, di raccordo dell’Autrice: infatti le testimonianze trascritte, grazie alla già accennata non comune capacità di Svetlana di mettersi in rapporto, e spesso non solo di semplice empatia ma di evidente emotività, con i suoi interlocutori, risultano spesso già funzionali al progetto del libro in preparazione.
Il progetto:
quello comune a tutto il suo lavoro, lasciamolo descrivere alla stessa Aleksievič: «Io non mi limito a registrare e annotare, bensì cerco, indago e raccolgo il manifestarsi dell’animo umano lì dove la sofferenza trasforma persone piccole, qualsiasi, in grandi personaggi. Dove la persona cresce, matura. E allora essa non è per me un muto e irrilevante proletariato della Storia. La sua anima si libra altrove.»
Di dove e cosa sia quell’“altrove” accenneremo alla fine. Ora voglio esporre la quinta caratteristica.
L’impresa:
libri come La guerra non ha un volto di donna, I ragazzi di zinco e il già citato Preghiera per Černobyl’ sono stati anche autentiche eroiche imprese di Aleksievič, caratterizzate da grande determinazione e coraggio civile: i primi due hanno restituito, rispettivamente, l’eroismo e la dedizione, fino a lì misconosciute, in una storia della guerra fino allora raccontata tutta al maschile, di giovanissime combattenti sovietiche nella seconda guerra mondiale; poi ne I ragazzi di zinco l’ inferno scatenato dal 1979 per quasi dieci anni sulle popolazioni dell’Afghanistan invaso e quello, parallelo, dei soldati dell’Armata Rossa, spesso giovani coscritti, spediti ad ammazzare e morire in terre lontane e sconosciute.
Il libro sulle ragazze-soldato sovietiche e l’altro dedicato ai racconti di quelli che erano bambini nella seconda guerra mondiale, intitolato Gli ultimi testimoni sono stati pubblicati dall’editore Bompiani solo tra la fine dell’anno scorso. Per concludere, torniamo a quell’affermazione di Aleksievič sul fatto che “la sofferenza trasforma persone piccole, qualsiasi, in grandi personaggi. Dove la persona cresce, matura… La sua anima si libra altrove”.
Dove è questo altrove e che cosa è?
Un indizio lo troviamo proprio nella prima riga di Preghiera per Černobyl’, l’epigrafe tratta dal filosofo Merab Mamardašvili: “noi siamo l’aria, non la terra”.
Che cosa può sollevare l’umanità da quella «terra» cui è visibilmente ancorata o incatenata? Cos’è e dov’è il «cielo» degli uomini per Svetlana?
Dirà da fresca Nobel verso la fine del suo secondo discorso a Stoccolma: «Sono stata definita scrittrice delle catastrofi, ma non è vero, io cerco continuamente parole d’amore. L’odio non ci salverà. Solo l’amore. È la mia speranza…».
Che sia davvero l’amore, e anche le parole in cui riesce a esprimersi, a farci trovare quell’ “altrove”?
Mi sembra che in un racconto della «guerra al femminile», ma qui combattuta contro la crudele repressione interna all’URSS, si trovi in qualche modo un altro solido indizio.
Due bimbe, poi adolescenti, vittime con tutta la famiglia delle cieche persecuzioni del regime, dopo una condanna alla deportazione che di fatto diventa una relegazione perpetua in terre inospitali, languono con la madre in covili e cantine; il marchio di «nemiche del popolo» significa per loro fame, malattia e morte nei bassifondi della società. La sorella maggiore, consumata dalla tisi, si consola finché vive con la grande poesia russa. L’altra, Ol’ga, la voce narrante, spera in una parola amica, una qualsiasi, di uno sconosciuto: «Ho aspettato tutta la vita che qualcuno mi trovasse». Sul finire della narrazione la speranza di Ol’ga si avvera: a un centro di raccolta di reietti come lei, è terrorizzata dalla doccia nella quale la disinfettano, continua a scivolare, teme di cadere per terra, sul cemento… «Ma un’estranea, un’infermiera… mi afferra al volo e mi stringe a sé: “Uccellino mio, non aver paura”. Ho visto Dio».
Vedere Dio significa per Ol’ga incontrare concretamente la presenza soccorrevole di chi finalmente «la trova», si accorge di lei, le apre le braccia.
Questa risorsa di cui dovremmo tutti poter disporre comunque, della disinteressata attenzione al prossimo, che da Ol’ga è vissuta come manifestazione di Dio, corre come un filo d’oro nei romanzi di Aleksievič; ha altri connotati, a-religiosi, ma è un elemento forte, anche quando se ne intravveda la sola possibilità, o al contrario venga vissuto come sentimento di un’assenza che pesa.
Averci fatto amare a nostra volta molti delle centinaia di personaggi dei suoi libri, è un altro dei non pochi meriti di Svetlana Aleksievič.
NOTA: Sergio Rapetti è traduttore, studioso della letteratura e cultura russe, ha promosso e tradotto in Italia decine di opere di importanti autori di quell’area linguistica, in epoca sovietica e post-sovietica e fino ad oggi. Testo, rivisto dall’Autore, della conversazione tenuta nell’ambito delle iniziative di Bookcity nel Palazzo della triennale di Milano. L’incontro è stato promosso da Memorial Italia in collaborazione con la Cooperativa Cattolico-democratica di Cultura di Brescia.