Le garanzie del politico

“I funzionari pubblici in Grecia, se viene loro affidato anche un solo talento, pur con dieci controllori, altrettanti sigilli e un numero doppio di testimoni, non riescono a non tradire la fiducia in loro posta. A Roma, invece, nelle cariche pubbliche e nelle ambascerie, pur maneggiando forti somme di denaro, rimangono onesti per il solo rispetto del giuramento prestato. Anche in altri popoli è raro trovare un uomo che sappia astenersi dal pubblico denaro e abbia le mani pulite: presso i Romani, invece, è raro cogliere qualcuno in tale flagrante delitto di peculato”.
Questo passo dello storico greco Polibio, che trascrivo nella traduzione di G. Scarpat, è una prova evidente della verità del fatto, che ha originato il proverbio sul colore dell’erba del vicino. Per i Romani, che vedevano la realtà in modo un po’ diverso, le cose non stavano proprio così. La riproposizione di norme sulla corruzione e la frequenza dei processi di concussione inducevano a una valutazione più pessimistica. Cicerone, che come avvocato si trovò anche a dover difendere i corrotti e come politico aveva ampio campo di osservazione, è una fonte di notizie su questo aspetto della vita antica: alle sue accuse bisogna fare la tara delle situazioni, in cui furono pronunciate (perché alla verità dei fatti si mescolavano le esigenze oratorie e le passioni di parte), ma quello che rimane è ancora molto. Una grande possibilità di malversazione era costituita dell’immensa bacino delle province dell’impero, specialmente le più ricche, nelle quali operavano con minori controlli appaltatori delle imposte, governatori di ogni rango e i loro seguiti.
Il caso più famoso è certamente quello delle spogliazioni siciliane di Verre, sulle quali la documentazione offerta dalle sette orazioni ciceroniane è impressionante. La vicenda è troppo nota per essere ricordata ancora una volta. Essa si colloca all’inizio della carriera oratoria, e non ancora propriamente politica, di Cicerone; alla fine dell’esistenza, nell’ultima battaglia per la libertà, retorica e politica riprendono accuse di questo stesso genere per Antonio, che voleva raccogliere la successione dittatoriale di Cesare ma con più rozzezza e violenza. Il fatto ora è più grave, perché si verifica a Roma, nel cuore dell’impero, e ha per campo d’azione il mondo intero. La fisionomia del potente, che «per denaro vende la patria e fa e disfa le leggi per interesse privato» diventa una formula proverbiale, che arriva fino all‘Eneide di Virgilio attraverso la mediazione del poeta Vario, ma riecheggia le parole, che il vecchio oratore aveva detto nelle Filippiche e ripetuto nelle lettere del periodo. Antonio vende immunità, regni, cariche; falsifica e revoca leggi e decreti, tutto per denaro; per la stessa ragione viola testamenti, usurpa eredità, inventa documenti. La moglie era un’attivissima collaboratrice dei suoi misfatti e la casa era diventata un’officina di falsificazioni di documenti e un mercato dove si vendeva di tutto. A queste colossali ruberie corrispondevano proporzionate prodigalità: i beni male acquistati si dissipano malamente, commenta Cicerone citando un anonimo poeta.
Ma nella sua carriera l’oratore aveva avuto altre occasioni, sia pure meno importanti, di denunciare la corruzione, pur non volendo assumere per sé la veste del vecchio Catone, accusatore implacabile, né dell’Uticense, rigidissimo custode della pubblica utilità (neanche ai generali si doveva concedere il trionfo per le vittorie in guerra, se non avessero dimostrato anche spiccate virtù civiche). Nel 55, dopo il ritorno dall’esilio, pronunciò una violenta requisitoria contro Lucio Calpurnio Pisone, suocero di Cesare, nella quale sono contenute interessanti informazioni su alcuni modi di comportamento di personaggi eminenti. Costui, governando la Macedonia, si era comportato in piccolo come farà poi Antonio in grande, vendendo gradi, stornando fondi, corrompendo i giudici. Alcune notizie sono curiose. Per aumentare i suoi guadagni di governatore, si faceva consegnare in denaro, anziché in natura, il frumento dei tributi della sua provincia, ma dopo aver artificiosamente alzato il prezzo del cereale. Conduceva poi, probabilmente attraverso un prestanome, una fabbrica di armi clandestina sotto l’insegna di una conceria di pelli; pare che l’iniziativa fosse già del padre, il quale in tal modo si era arricchito durante la guerra sociale (l’ultima degli italici contro Roma): il figlio si era limitato ad allargare il mercato alle province. Da parte sua poi aveva istituito un gruppo privato di collettori di tributi, al posto e in aggiunta agli appaltatori riconosciuti dallo Stato. Il sistema era dunque ramificato e ben organizzato.
Che cosa si poteva fare contro questa situazione? La proposta di Cicerone è paradossale: cancellare dalla legislazione il reato stesso di concussione. Infatti Verre aveva progettato di dividere così i proventi illeciti del suo triennio di amministrazione in Sicilia: il frutto del primo anno per sé, il secondo per gli avvocati difensori, il terzo per corrompere i giudici; senza il timore di processi ogni corrotto si sarebbe accontentato di rubare solo una terza parte, con qualche sollievo delle vittime. Sotto il paradosso la proposta ironica cela il pessimismo della disperazione, che si accontenta di diminuire i danni e non spera di eliminare il male. Anche l’esito del processo di Verre obbedisce alla regola. Il governatore inquisito interruppe la sua carriera politica, ma il secondo giudizio, che doveva determinare la multa da infliggergli, si risolse in una pena inadeguata. Il fatto è che l’accusa a Verre, esponente della nobiltà, veniva dalla classe dei cavalieri; ma nelle more del processo cavalieri e senato si erano accordati per una riforma dei tribunali, che sanciva una sorta di spartizione tra le due classi e faceva venir meno la causa vera del contrasto. Una soluzione politica, dunque.
Poteva succedere anche di peggio. Publio Rutilio Rufo, noto per la sua integrità, durante il governatorato in Oriente era venuto in urto coi cavalieri, perché aveva cercato di impedire le malversazioni degli appaltatori delle imposte, i quali provenivano da quella classe. Risultato dello scontro fu che lui stesso venne accusato di concussione e condannato da un collegio di giudici di provenienza equestre. Questa è notizia di Livio. Cicerone si limita a osservare che non sarebbe stato condannato, se nel processo non si fosse comportato da filosofo, imitando Socrate, ma avesse accettato di usare le arti oratorie degli avvocati. Cicerone dunque pensava di poter contenere i danni, non di risolvere il male.
Le cose erano destinate a migliorare sotto l’impero, con un’amministrazione più centralizzata, nuovi ceti di funzionari, minori differenze fra capitale e periferia. Ma ancora Plinio il Giovane al tempo di Traiano si troverà a dover difendere o accusare, secondo le circostanze, ex governatori inquisiti delle province orientali. Alla fine della Repubblica l’antica tradizione della classe dominante, che concepiva il rigore amministrativo come doverosa contropartita del potere, era andata perdendosi, sostituita solo in parte da una maggiore fiducia nella anonima efficienza delle istituzioni. Cicerone invece crede ancora che le qualità morali siano la migliore garanzia della correttezza dell’uomo politico, anzi la precondizione per aspirare alle cariche: nulla dignitas nisi ubi honestas, scriverà all’amico Attico nel pieno della guerra civile tra Cesare e Pompeo.
 

Giornale di Brescia, 15.3.1994.