Che cosa è stata e che cosa ha significato per il nostro Paese la Costituzione repubblicana del 1948?
Penso si possa affermare che la vigente Costituzione ha consentito il lento, faticoso avvio dell’ordinamento italiano, che non aveva dimestichezza con i principi base del costituzionalismo occidentale – a partire dalla divisione dei poteri –, verso uno sbocco democratico in un contesto sociale fortemente arretrato che mostrava oltretutto evidenti “fratture interne” sia ideologiche sia territoriali. Essa delineava in effetti un avanzato – e “presbite”, è stato giustamente definito – modello statuale, persino troppo avanzato. Ciò spiega bene perché sia stato attuato lentamente e abbia incontrato difficoltà di realizzazione da parte degli stessi apparati pubblici. Modello che avrebbe dovuto stimolare una evoluzione progressiva e solidaristica della società italiana così da ridurre le evidenti fratture di partenza e, comunque, tale da comporre ex novo il mosaico democratico.
Questa coraggiosa prospettiva costituzionale era frutto – grazie alla lungimiranza e duttilità della classe dirigente dei partiti riemersi dalla clandestinità dopo la caduta del fascismo – della ricercata contaminazione tra culture politiche diverse che, pur restando distinte, si riconoscevano nell’ordinamento che avevano responsabilmente contribuito ad edificare in virtù del “grande compromesso” raggiunto in seno all’Assemblea Costituente.
Dinanzi a quell’Assemblea, il 13 marzo 1947, così parlava Aldo Moro: “Non possiamo fare una Costituzione afascista. Non possiamo dimenticare quello che è stato, perché questa Costituzione oggi emerge da quella Resistenza, da quella lotta, da quella negazione. Nei momenti duri e tragici nascono le Costituzioni. Guai a noi se dimenticassimo questa sostanza comune che ci unisce”.
La prima parte – relativa ai diritti e doveri – e la seconda – riguardante l’organizzazione statuale – della nostra Costituzione sono state saldate tra loro ed esprimono un coerente e bilanciato assetto nel solco della tradizione liberal-democratica occidentale rimasta estranea sino a quel momento alle vicende istituzionali italiane; a questo riguardo, la drammatica svolta autoritaria imposta dal fascismo suggeriva una certa complicazione del processo decisionale e ispirava scelte organizzative prudenti quali in effetti sono il bicameralismo perfetto e la debole razionalizzazione dei meccanismi del governo parlamentare già conosciuto nell’esperienza liberale precedente la ventennale dittatura del capo del Governo.
Agli indiscutibili meriti, riconosciuti alla vigente Costituzione per aver consentito la promozione dei diritti e l’inclusione sociale dei soggetti più deboli, per molto tempo non sono state neppure associate contestazioni riferite alla parte organizzativa del testo costituzionale. E così le prolungate difficoltà del sistema politico italiano, non in grado, almeno sino alla svolta maggioritaria del 1994, di produrre alternative di governo tra le maggiori forze politiche rappresentate in Parlamento, come accade in tutte le democrazie consolidate, restavano confinate prevalentemente in ambito extra costituzionale.
Solo a partire dal tracimante messaggio cossighiano alle Camere sulle riforme istituzionali (26 giugno 1991) le difficoltà politiche sono state esplicitamente ricollegate alle inadeguatezze costituzionali a cominciare da chi rivestiva la massima carica dello Stato. E sarà lo stesso successore di Cossiga, il Presidente Scalfaro, nel suo discorso di insediamento, a reclamare addirittura l’istituzione di una speciale Commissione parlamentare per affrontare in modo organico il tema delle riforme anche di livello costituzionale nel mentre il Paese assisteva – apparentemente sbigottito – alla vicenda giudiziaria “tangentopoli” ed alla ferocia della mafia assassina.
Cosicché, dopo il positivo esito del referendum elettorale dell’aprile 1993 e la conseguente riforma maggioritaria della legislazione elettorale, si fa strettissimo l’intreccio tra la prospettiva di un cambiamento della parte organizzativa della Costituzione ed il mutato sistema politico che sperimenta altre formazioni e un andamento bipolare man mano sempre meno incerto pur nella tipica e anzi accentuata frammentazione partitica.
Viene allora coniata l’espressione suggestiva “seconda repubblica” contro cui insorgono i Comitati di difesa della Costituzione guidati con impeto e sapienza giuridica sino alla sua morte da don Giuseppe Dossetti, autorevole costituente da tempo dedito al suo ordine monastico e lontano dalla vita pubblica.
Da quel momento il processo riformatore diretto a cambiare la seconda parte della Costituzione e ad abbracciare la causa del federalismo, che incontra vasto consenso nelle Regioni del nord, entra stabilmente in Parlamento e ne esce con qualche fallimento (non produce gli esiti sperati la nuova Commissione parlamentare istituita nel 1997 e dotata ancora una volta di speciali poteri in deroga esplicita alle procedure prescritte per revisionare legittimamente il testo costituzionale) e con qualche “frutto deprecabile”, certamente sotto il profilo del metodo seguito per cambiare le esistenti regole costituzionali.
La Costituzione difatti diventa “bottino” per la maggioranza governativa e i due schieramenti che si alternano nella guida del Paese approvano tra il 2001 e il 2005 due distinte riforme: la prima quella più limitata del regionalismo – la modifica del titolo V della Parte II – ; la successiva quella assai più ampia che interessa l’intera Seconda Parte del testo vigente.
Rotta la pace costituzionale, lo stesso corpo elettorale viene trascinato nella deprecabile contesa tra le forze politiche post-ideologiche sebbene, secondo quanto stabilito tuttora dall’art. 138, gli elettori non abbiano titolo per intervenire nel procedimento di revisione costituzionale ove si raggiungano ampie maggioranze parlamentari. E’ comunque noto quello che è accaduto a seguito dell’intervento popolare che non richiede il superamento di alcun quorum partecipativo: il primo referendum costituzionale, svoltosi il 7 ottobre 2001, ha così registrato una bassissima partecipazione – solo il 34,1% degli aventi diritto – confermando agevolmente la riforma; il secondo referendum, come è noto, ha viceversa respinto nettamente il 25 giugno 2006 la “grande riforma”, avendo registrato il 53,7% dei votanti e il 61,3% di no, e rilegittimato l’attuale Costituzione per come è stato riconosciuto dagli stessi propugnatori della delibera legislativa bocciata.
Ammesso che sia davvero così, mi limito a constatare che se vi è stata una nuova legittimazione della Legge Fondamentale essa segue e interrompe la sua precedente, grave delegittimazione. Permangono pertanto le forti preoccupazioni di chi teme che le croniche difficoltà nelle quali si dibatte il sistema politico italiano, sia pure ogni volta per ragioni diverse, possano essere affrontate, come già accaduto, con escogitazioni costituzionali volte a superare l’attuale democrazia parlamentare e rappresentativa, peraltro già disattesa nella recente prassi.
Quello che può essere ribadito è che le evoluzioni del sistema politico sono certamente favorite dalle regole elettorali – ed è quel che è accaduto in Italia – ma non comportano come corollario indispensabile il mutamento delle regole costituzionali. Da questa angolazione è utile ricordare il superamento, con la legge n. 270 del 2005, del sistema maggioritario con collegio uninominale per far spazio ad un sistema con impianto proporzionalistico ma di dubbia costituzionalità, già utilizzato nelle due ultime tornate elettorali e che lascia intravedere, dopo quella di qualche giorno fa uno sbocco sino a ieri impensato di drastica riduzione delle forze politiche rappresentate in Parlamento e l’emergere di due partiti formalmente nuovi che rappresentano al momento circa il 70% degli elettori votanti.
Spetterà allora alle nuove forze politiche, se si consolideranno, rispondere quanto prima alla cruciale domanda su quale sarà il futuro della nostra Costituzione e sul valore che esse intendono attribuire al referendum popolare del 2006 che ha confermato l’attuale organizzazione dello Stato.
Certamente quando sbocciano rapidamente nuovi partiti conta moltissimo la cultura democratica dalla quale provengono ed assume un peso decisivo la loro determinazione nel segnare una più o meno accentuata discontinuità con l’assetto costituzionale nel quale sono chiamati ad operare e del quale potrebbero avvertire la lontananza ideale. Sarà in particolare indispensabile approfondire i loro intendimenti anche a proposito della collocazione del nostro Paese nel più ampio contesto europeo nel quale l’Italia è stata irreversibilmente inserita proprio in virtù dell’ “apertura internazionalistica” profeticamente ipotizzata dalla Costituzione del 1948.
Tra i tanti auspici che si potrebbero fare, senza alcuna retorica, ne avanzo, da costituzionalista, uno soltanto, e cioè quello di non vedere più questo testo così lineare, “sfregiato” da un intarsio vistoso che, rompendo i chiari equilibri interni, riproponga una versione “shakerata” del presidenzialismo americano e del parlamentarismo bipartitico britannico con il comodo intento di “blindare”, nel nome della volontà popolare, il Premier e la maggioranza parlamentare per la durata della legislatura attraverso congegni sconosciuti alle esperienze democratiche occidentali.
Che almeno si lasci per intero alla responsabilità della politica più demagogica e ottusa (altro che coerente!) inneggiare al corpo elettorale accreditato, apponendo solo segni su dei simboli, del potere di investire della comune responsabilità di governo nientemeno che un Premier e la sua invariabile maggioranza di riferimento, l’uno e l’altra non sostituibili dall’organo parlamentare, complessivamente considerato, a meno di non aprire la strada a nuove elezioni anticipate.
La demagogia populista è da sempre pericolosa per la democrazia; di ciò è assolutamente avvertita la nostra Costituzione che difatti, dopo aver evocato i modi di esercizio della sovranità popolare, ne richiama espressamente i limiti preoccupandosi così della razionalità che deve sempre accompagnare il funzionamento di un ordinamento democratico.
Vorrei perciò dire, in conclusione, che da soli sessant’anni l’Italia si è finalmente dotata di un’architettura costituzionale degna di questo nome e, appunto, razionale che andrebbe consapevolmente preservata e difesa più che dalle “classiche” pulsioni autoritarie pure sperimentate, da una sorta di leaderismo qualunquista che mi pare di vedere in forte ascesa e che potrebbe, a mio parere, consolidarsi e imporsi senza traumi apparenti, ma abbassando inesorabilmente e sensibilmente il livello della nostra democrazia.
NOTA: testo, rivisto dall’Autore, della conferenza tenuta a Brescia il 23.4.2008 su invito della Cooperativa Cattolico-democratica di Cultura.