Pensavo ai volantini della Rosa Bianca dopo il terribile delitto D’Antona di Roma, che riapre la pagina del terrorismo che in Italia sembrava chiusa, a come questi volantini siano proprio il contrario di quelli delle Brigate Rosse. Le Brigate Rosse sono costituite da assassini che devono uccidere qualcuno e poi lasciano un solo volantino per “spiegare” cosa è successo; hanno bisogno della morte degli altri per lanciare un messaggio. I ragazzi della Rosa Bianca con il professor Huber si sono fatti uccidere per aver cercato con diecimila volantini di convincere diecimila persone, una ad una, ad abbandonare il regime nazista. Leggevo oggi (n.d.r. 24.5.99) sul “Corriere della sera” l’analisi del volantino delle B.R.: per centoquindici volte c’è la parola classe, per centotrentotto la parola forza, per centouno la parola borghesia. Ai primi posti non c’è la parola libertà, la parola chiave, la materia prima dei volantini della Rosa Bianca.
La resistenza dei ragazzi della Rosa Bianca, attuatasi tra il 1942 e il 1943 nell’università di Monaco completamente nazificata (il rettore aveva la divisa delle SS e tra le materie di studio vi era anche la teoria della razza) la vorrei definire estetica, psicologica, etica, prima ancora che politica, anche se in un secondo momento è certamente diventata politica.
Le dittature uccidono l’arte perché guardano con sospetto – quando non l’annientano del tutto – l’individualità e l’espressione personale. Le dittature producono la noia del pensiero unico, sono auto-celebrative e quindi false. La falsità distrugge l’arte che è espressione vera, verità sentita dall’individuo. Scriveva uno dei massimi poeti romantici, Keats: “La bellezza è verità, la verità è bellezza: ecco tutto quello che devi sapere”. Credo che i ragazzi della Rosa Bianca pensassero la stessa cosa. La prima loro ribellione è contro la falsità deformante e abbrutente del regime, la ribellione di alcuni singoli che dicono “no”, ognuno per se stesso. Dire “basta” nasce dall’aver detto “sì” a molte altre cose, all’arte, alla musica, alla filosofia, alla bellezza del paesaggio, e dire “no” all’omologazione e al conformismo.
Il conformismo attuale è caratterizzato da negozi tutti uguali che rendono uguali, in tutte le città, i riti del consumo, per cui i giovani tendono a imitarsi l’un l’altro e a diventare in tutto simili. Questo conformismo è indotto, diffuso da meccanismi pervasivi molto sofisticati, teleguidati, mentre quello d’allora era imposto soprattutto con la paura, ma non solo. Infatti Hitler ha potuto fare quello che ha fatto perché ha avuto la collaborazione di migliaia di “volenterosi carnefici” nella sua opera di distruzione. Non si può mai imputare a un solo leader storico la colpa di tutto, è troppo facile; quanto conta la responsabilità individuale è stato proprio messo in risalto dai volantini della Rosa Bianca in maniera estremamente lucida. La Rosa Bianca era dunque il rifiuto del conformismo imposto, delle idee tutte uguali, delle parole senza senso. Nei loro volantini c’è la ricerca della bellezza, i testi si arricchiscono di citazioni di Schiller, Goethe, Novalis, Lao Tse, Aristotele.
L’inizio del secondo volantino, così caustico, così sarcastico, è questo: “Non si può discutere con il nazionalsocialismo sul piano spirituale, perché esso è privo di valori spirituali. E’ sbagliato parlare di una visione del mondo nazionalsocialista (n.d.r. quella che si insegnava all’università come materia obbligatoria); se essa esistesse bisognerebbe cercare di dimostrarla e di combatterla con mezzi spirituali, ma la realtà offre un quadro completamente diverso”. La condanna è molto severa contro “l’intelligenza tedesca”, che quando il “cancro ulceroso” del nazismo prese il potere “si rifugiò in un sotterraneo per esservi lentamente soffocata, sottratta alla luce e al sole”. Gli studenti della Rosa Bianca cercano di ribellarsi a questo soffocamento con le loro giovani vite.
La persona più giovane del gruppo era Sophie Scholl, ventidue anni quando muore. La sorella di Hans Scholl, che possiamo considerare il leader di questo piccolo gruppo, è una delle figure più belle e emozionanti. Nacque il 9 maggio 1921 a Forchtenberg, nella Germania meridionale, e fu battezzata con il nome di Sophie Magdalena Scholl. Qualcuno l’ha accostata ad Antigone che ha sfidato le leggi del suo Stato per seppellire il fratello; lei, con suo fratello, sfidò le leggi di Hitler in nome della libertà. E’ di grande interesse conoscere l’atteggiamento di Sophie Scholl verso i giudici, quale risulta dai verbali dell’interrogatorio reso alla Gestapo lo stesso giorno e in quelli successivi al suo arresto. Nel caso dei primi tre giovani arrestati, il boia ebbe grande fretta nell’eliminarli, tanto che dal 18 febbraio 1943, giorno dell’arresto dei fratelli Scholl all’interno dell’università di Monaco, al giorno del processo e dell’esecuzione, 22 febbraio, passarono quattro giorni appena.
In questo interrogatorio dapprima Sophie Scholl cerca di negare di essere la distributrice dei volantini che avevano fatto il loro ultimo volo nell’atrio dell’università di Monaco, ma, una volta capito che la Gestapo aveva trovato nella loro casa le prove materiali della produzione di volantini, ammette tutto, non accusa nessun altro e si prende in toto la responsabilità di quanto ha fatto.
E’ probabile che il funzionario della Gestapo, insistendo in maniera pedante sui finanziatori, cercasse di offrirle qualche via di uscita. Nella visione maschilista del nazionalsocialismo e della Gestapo ci poteva essere clemenza per quelle ragazze che si fossero fatte sedurre da maschi più ferrati di loro nella politica.
Nel processo che porterà alla condanna a morte del professor Huber, c’è un gesto di clemenza verso tre figure minori, tre ragazze meno coinvolte, amiche del gruppo della Rosa Bianca, che vengono condannate ad appena un anno di reclusione, anche perché nella retorica insopportabile del giudice Freisler, una di queste era il ritratto tipico della giovane ariana con gli occhi azzurri e i capelli biondi, ed era impossibile pensare che fosse così corrotta da essere un’oppositrice di Hitler. In nome del compleanno del Führer, che sarebbe stato il giorno seguente, queste tre donne vengono condannate a pene lievi.
Sophie Scholl di fronte al pedante funzionario della Gestapo proclama il suo manifesto di dissenso e di opposizione che, per quanto filtrato dal linguaggio burocratico di un verbale giudiziario, è un documento grande di coraggio. Questa ragazza di ventidue anni si trovava di fronte la potenza dello Stato nazionalsocialista per mezzo della sua polizia politica segreta. Raccontando della famiglia in cui è cresciuta, dice che il padre non li ha mai esortati ad uscire dalle associazioni hitleriane, dove si erano trovati quasi spontaneamente. Probabilmente il padre, che aveva fatto anche il sindaco di qualche comune della Germania meridionale, sapeva che i giovani hanno bisogno di tempo, di provare per germogliare. Hans e Sophie Scholl entrano nella gioventù hitleriana con tutta la passionalità di cui sono capaci, lasciandosi ingannare dal Führer come la stragrande maggioranza dei ragazzi cresciuti in età hitleriana. Sophie aveva dodici e suo fratello quindici anni quando Hitler va al potere. Nelle lettere e nei diari di Sophie si rivela un amore travolgente, romantico, non artefatto per la natura, per il paesaggio, per la terra tedesca. Forse proprio questo amore – come scrisse nel dopoguerra sua sorella Inge – la portarono a credere, come milioni di suoi concittadini, in Hitler, che prometteva la resurrezione della Germania.
E’ interessante vedere il primo motivo di rifiuto per questa ragazza, che non ha gli anticorpi genetici dell’antifascismo. Si verifica quando è chiamata, come le altre ragazze tedesche, a compiere il Reichsarbeitsdienst, servizio civile obbligatorio, come bambinaia in un Kindergarten lontano da casa. Scrive: “Trovavo il servizio noioso e sbagliato da un punto di vista pedagogico, quindi brutto e ingiusto perché mortificava l’individualità personale”, la appiattiva. Avendo rapporti anche con i genitori dei bambini che le erano affidati, diceva che le riusciva sempre più difficile dare ragione a un genitore che veniva per rivendicare i meriti del figlio o i torti subiti da un altro bambino. La cosa più penosa, che aveva a che fare con il senso della giustizia, era che il genitore ritenesse che, in quanto proprio figlio, questi avesse comunque ragione. Sophie effettua un parallelismo semplice ma efficacissimo fra questo schema genitore – figlio e la questione della nazionalità. Allo stesso modo trova assurdo, ingiusto, raccapricciante che una scelta, in quanto fatta dai tedeschi è giusta, mentre la stessa cosa, fatta dai francesi, è sbagliata. Questo valeva a livello culturale, politico, artistico e filosofico. Il sentimento dell’ingiustizia matura in lei da un’esperienza concreta di ragazza diciottenne.
Sophie esprime nelle lettere alla sorella anche un’altra ribellione, che attiene alla dimensione estetica. Quando arriva la Führerin della BDM, si discute in gruppo sulle letture più adatte per trascorrere le serate durante il noioso servizio. Sophie Scholl, con la sua spontaneità, propone Heine. C’è un momento di gelo e le spiegano che non è proprio il caso in quanto l’autore è ebreo. La ragazza confiderà alla sorella che non si può conoscere la letteratura tedesca tralasciando Heine in base a un criterio razzistico.
Essendo in contatto con la cultura e con l’arte, viene comunque allo scontro con un regime dittatoriale. La dittatura richiede l’ignoranza e la stupidità indotta; Sophie, avendo preso coscienza dell’assurdità dei dettami culturali del regime, comincia ad andarci ai ferri corti. Chi elimina un poeta per ragioni razziali, non considera la bellezza come un criterio orientativo e, dunque, spaccia falsità culturali, violenta la verità dei valori. Sophie a ventidue anni, studentessa di biologia e filosofia, alla Gestapo che le chiede perché si è messa a scrivere i volantini, risponde con una semplicità stupenda: “La libertà spirituale dell’uomo viene limitata in un modo che contrasta con il mio essere interiore ” e aggiunge: “Per quanto riguarda la mia persona non voglio avere nulla a che fare con il nazionalsocialismo”. Lo dice quando sa che queste parole la porteranno sotto la ghigliottina ed è bello vedere come dipinge gli altri sospettati di cui la Gestapo fa i nomi: come persone sensibili, versate all’arte e alla cultura, assolutamente impolitiche. E così tenta di salvarli. Però quell’essere impolitici era proprio l’elemento che creava il maggior sospetto in quel regime, che aveva politicizzato tutto.
Hitler scrisse nel Mein Kampf, nove anni prima di arrivare al potere, che nessun tedesco avrebbe dovuto esser lasciato solo. Terribile progetto e terribile programma, che con diabolica perseveranza ha cercato di realizzare. Dal Kindergarten fino all’ospizio, ogni tedesco doveva essere accompagnato dalla presenza ossessiva dello Stato, perché era una pedina nelle sue mani. Ecco, invece, quanto santa e sana è la solitudine che si rinviene nelle biografie dei giovani della Rosa Bianca, nelle lettere e nei diari di Sophie, contrapposti alla massa. Lei aveva scritto: “L’umanità mi sembra una malattia della pelle della terra”; ancora scrive nel diario: “Vorrei vivere sola in un’isola dover poter dire e fare ciò che desidero”, ma non c’erano isole simili nel nazionalsocialismo.
Di fronte a questo sano individualismo, basato su un’impostazione religiosa della vita, ma anche un approccio culturale, artistico dell’esistenza, si ergeva la retorica del “Volk”, il popolo, per cui non esiste l’individuo. E’ proprio un Tribunale del Popolo che condanna gli studenti della Rosa Bianca alla ghigliottina; “Ein Volk, ein Führer ”, in nome del popolo e del Führer. Dice ancora Sophie davanti alla Gestapo: “Ritenevamo che gli studenti fossero rivoluzionari e propensi all’entusiasmo”. Che tragico errore di calcolo. I rari spiriti liberi come i fratelli Scholl sottovalutano sempre la spinta del conformismo, che portò un migliaio di studenti, la sera della loro esecuzione, a convenire nell’Aula magna dell’università e a festeggiare il bidello che li aveva fatti arrestare.
La Rosa Bianca era un gruppo non organizzato, assolutamente ecumenico: gli Scholl erano luterani, Schmorell ortodosso, Probst si fa battezzare prima dell’esecuzione, Graf cattolico, come il professor Huber. In Sophie vediamo come la fede in un Dio supremo si colleghi strettamente con la bellezza della natura: Sophie si fa fotografare abbracciata ad un albero sulla riva di un ruscello. Il contatto fisico con la natura era per lei qualcosa di religioso e, piano piano, in questa religiosità emerge un elemento personale. Scrive: “Nonostante l’orrore, tutto è così bello”, “Nella mia pura gioia per tutto ciò che è bello, si è inserito a forza qualcosa di grande e sconosciuto”, precisamente l’immagine del suo creatore che “le creature, create e incolpevoli, lodano con la loro bellezza. Solo la cattiveria dell’uomo col rombo dei cannoni può distogliere da questo canto di lode”. Sono parole quasi di una mistica e non sono usuali nei diari di Sophie Scholl, costituiscono però la spia di ciò che c’era dentro, che – in ultima analisi – era la fede nella forza della speranza.
L’idea di bellezza si ritrova nella sua ultima lettera datata 17 febbraio ’43, un giorno prima di essere arrestata, cinque prima di essere decapitata. La lettere è indirizzata a una sua amica, Lisa Remppis, ed è una descrizione dei suoi sentimenti di fronte al “Quintetto della trota” di Franz Schubert, dell’entusiasmo che in lei suscitavano le note del musicista. Fa veramente impressione, e questo giustifica la mia tesi iniziale, che questa ragazza, pur consapevole che il giorno dopo sarebbe andata all’università per l’ultimo azzardo – cioè distribuire volantini come mai avevano fatto prima, di giorno, nel mezzo dell’università di Monaco – ascolti questa musica davvero splendida e che all’amica non senta di mandare ultimi messaggi o testamenti spirituali, né parole altisonanti, ma solo la descrizione dei propri sentimenti di fronte ad una composizione musicale e il suo entusiasmo di fronte alla melodia.
Dal punto di vista umano è una testimonianza forte e dice che gli studenti della Rosa Bianca, senza avere tutto il background culturale del professor Huber, persona matura che aveva conquistato le proprie idee dopo un lungo cammino, pur inesperti della vita e impolitici dal punto di vista dell’educazione, ma così politici dal punto di vista della azione, erano innamorati della bellezza e si opponevano alla bruttura del regime. Qui torniamo ad Antigone. Il tiranno Creonte dice: “Mai il nemico è amico, neppure quando è morto”, mentre l’Antigone di Hölderlin risponde, al contrario, “Io non esisto per l’odio, ma per l’amore”. In questo senso, penso sia giusto l’accostamento di Sophie con Antigone, morta con il fratello lei, per il fratello la seconda. Sapere che sono morti insieme ci dà una consolazione, ma quella maggiore deriva dal fatto che sono morti lasciandoci un messaggio ancora e sempre vivo.. In fondo sono loro che anche oggi non ci lasciano soli.
Testo rivisto dall’Autore.