Alcune settimane fa, trovandomi a Venezia, mi capitò appena giunto in città di udire un poliziotto esclamare, rivolto a un suo collega, vedendomi: “Guarda è arrivato Solzenicyn”; qualche giorno dopo, passeggiando per la città, da un ponte un uomo gridò, indicandomi con un dito: «Guardate, c’è Bukovskii!”. Questo episodio può sembrare buffo, ma allo stesso tempo è significativo e simpatico perché dimostra che i dissidenti sovietici destano, in qualche modo, un interesse tra la gente. Basti pensare che agli inizi degli anni sessanta non solo in Occidente, ma anche nella stessa Russia nessuno conosceva la parola “dissenso”. Ovviamente sorge spontaneo, non solo tra il pubblico, ma anche tra noi dissidenti, l’interrogativo sul chi siamo, da dove siamo venuti. Il potere sovietico attraverso la stampa ufficiale, quando l’Occidente protesta per l’imprigionamento di qualche dissidente, dà la sua lettura del fenomeno. E in queste spiegazioni sovietiche viene utilizzato un metodo piuttosto strano, cioè quello dei romanzi gialli, per cui una realtà storica viene interpretata non sulla base di analisi storiche, ma proprio come se si trattasse di un romanzo poliziesco. La stampa sovietica parla infatti di invasione dall’esterno di idee straniere, tramite i centri borghesi dell’imperialismo internazionale, contro la sana società sovietica; invasione per definire la quale si è coniato il termine di “eversione ideologica”. Quando in occasione del processo a carico di Daniel’ e mio alcuni scrittori inviarono una lettera alle autorità sovietiche nella quale chiedevano il motivo per cui si processavano degli scrittori, si sentirono rispondere che non si trattava di scrittori, ma di criminali, delinquenti comuni. Ma se esaminiamo attentamente il fenomeno del dissenso e la personalità stessa dei suoi esponenti, ci rendiamo conto che, ben lungi dal trattarsi di gente mandata da fuori o comunque impregnata di idee estranee, i dissidenti sono comune gente russa, figli di quella società: qui sta l’importanza e la novità del fenomeno dissenso. Prendiamo il caso di Andréi Sacharov: è accademico dell’Unione Sovietica, dunque una persona che ha dato un grande contributo alla scienza e alla tecnica sovietiche; o di Aleksàndr Solzenicyn, ufficiale dell’esercito sovietico e combattente contro i tedeschi nella seconda guerra mondiale; o di Viktor Nekràssov, membro per ben trent’anni del partito e insignito del Premio Stalin per il suo libro “Nelle trincee di Stalingrado”. Se affrontiamo teoricamente il problema del dissenso, ci accorgiamo che non ha assunto la forma di una opposizione politica, di una lotta contro il regime, ma consiste nella denuncia veridica della realtà e nella resistenza morale e spirituale ad essa (indipendentemente dal fatto che si sia atei o credenti). L’accento è posto anzitutto sulla coscienza e sul pensiero che cerca e indaga la realtà. Ecco perché agli attuali detenuti politici dell’URSS s’attaglia così bene la definizione invalsa di “prigionieri di coscienza”. I dissidenti svolgono una funzione di riempimento di grosse lacune della società sovietica, soprattutto nel campo dell’informazione, della cultura e della morale. In poche parole cercherò di spiegare da cosa queste lacune sono state causate.
Dal fideismo ideologico al dubbio
Prima che sorgesse il dissenso c’era nella società sovietica una fede in altissimi ideali; se noi immaginiamo che Dio non ci sia, non vedo ideali più affascinanti di quelli proposti del comunismo sovietico. Sono infatti ideali molto attraenti perché, partendo dalle esigenze concrete dell’uomo, prospettano la realizzazione della giustizia e della felicità. Ed è questo il motivo per cui la destra è perdente di fronte alla sinistra. Prendiamo per esempio il periodo pre-rivoluzionario in Russia: allora la destra era costituita da uomini che altro non volevano che conservare le proprietà, il proprio benessere, magari a scapito di altri, da persone mosse da egoismi individuali o collettivi. La sinistra, almeno inizialmente, faceva invece appello a sentimenti come il bene e la giustizia; sosteneva cioè che non si può vivere soltanto per soddisfare i propri bisogni individuali o per creare e mantenere la ricchezza. Pochi giorni fa, in una riunione come questa, un italiano di sinistra mi disse: “Ma lei sa benissimo che è più difficile per un ricco entrare nel Regno dei Cieli che per un cammello passare attraverso la cruna di un ago”. Perciò è abbastanza comprensibile che il comunismo abbia avuto tanto seguito anche tra persone disinteressate e buone perché, almeno all’inizio del movimento comunista, ha rappresentato un ideale positivo, appunto il tentativo di creare un regno dei cieli in terra, di costruire il paradiso in terra senza Dio. E così è nata una nuova fede, una nuova religione senza Dio.
Tuttavia questi ideali sono entrati in contraddizione con lo sviluppo storico, con le cose concrete di tutti i giorni, con la stessa realtà della vita quotidiana, per cui questa fede è diventata una fede cieca. Il comunismo sovietico si è così trasformato in una fede cieca, un credere contro l’evidenza: bisogna credere perché bisogna credere. Mi vengono alla mente gli episodi dei miei anni giovanili, quando ero studente e credevo ancora nel comunismo e nella rivoluzione. Un giorno venni a sapere che nelle prigioni dell’Unione Sovietica si torturavano i detenuti; lo dissi ad un mio amico ed egli mi rispose: “Non parlarmi di queste cose, non ne voglio sapere niente perché voglio credere”. Perché questa fede sia veramente cieca e universale deve ubbidire a caratteristiche e connotati ben precisi, deve cioè diventare standardizzata per quello che riguarda tutti gli aspetti dell’esistenza umana e culturale. Subito dopo i drammatici anni della guerra il Comitato Centrale emanò alcune deliberazioni restrittive in campo artistico e nessuno se l’aspettava. Infatti la gente dopo le tragiche esperienze vissute attendeva una parziale liberalizzazione della società e invece, all’improvviso, il potere sovietico cominciò a far la guerra contro la cultura in nome degli ideali di cui si faceva promotore. Per capire che cosa significavano per noi queste deliberazioni cercate di immaginare di trasportarle nella vita italiana. Immaginatevi che ad un certo punto lo Stato italiano decida che ci debba essere soltanto un giornale statale e che tutti gli altri giornali debbano ripetere pedissequamente le stesse notizie che scrive quello statale. Immaginate che il governo dica che non si possono più scrivere poesie d’amore, ma solo poesie a maggior gloria del partito dominante e lo stesso valga per ciò che riguarda la pittura, la filosofia, la musica e così via. Cercate di immaginarvi questi principi applicati in un terreno più vasto e a un livello più basso. Mi riferisco alla fine degli anni ’40 e ’50 nei quali la standardizzazione s’imponeva anche negli aspetti quotidiani della vita della gente comune, allo stesso modo di vestire. Era finita la moda dei pantaloni larghi e i giovani amavano vestirsi con i pantaloni stretti. Ebbene in quel periodo ci fu una grossa campagna contro i pantaloni stretti e gruppi di cittadini, veri fascisti che collaboravano con la polizia, quando vedevano un giovane con i pantaloni stretti lo prendevano e con un rasoio glieli tagliavano dall’alto in basso, infliggendogli una punizione non soltanto umiliante ma anche economicamente gravosa, essendo infatti allora i capi di vestiario una merce piuttosto cara.
E con questa standardizzazione noi ci scontravamo ad ogni passo, per qualsiasi motivo, con qualsiasi pretesto. Ho lavorato all’Istituto di letteratura mondiale dell’Accademia delle Scienze, che è l’ente più importante nel campo delle scienze, anche umanistiche. Un giorno il direttore dell’Istituto riunì i redattori che stavano lavorando ad una storia della letteratura russa, tra i quali vi erano notissimi studiosi con il dottorato in scienze, il più alto grado accademico; eppure come se si trovasse di fronte ad una classe di scolaretti, si mise ad agitare il pollice dicendo che si doveva, sì, scrivere una storia della letteratura, ma che non avrebbe accettato alcun pensiero originale. Con questo comandamento il collettivo di studiosi cominciò a lavorare intorno a questo nuovo progetto nel campo della letteratura. Un altro episodio fu quello accaduto nell’Università di Mosca nel periodo in cui furono mandati nello spazio i primi astronauti sovietici e la radio comunicò questa notizia. Gli studenti universitari, allora molto patriottici, emozionati per questo grande evento, presero dei cartelloni e vi scrissero: “Viva i cosmonauti sovietici” e con essi si avviarono verso la Piazza Rossa per dimostrare la loro lealtà verso il governo e il loro orgoglio di essere cittadini sovietici. Ma prima che vi arrivassero, la polizia li bloccò e sciolse la manifestazione. Poi li presero, li interrogarono non molto severamente prima ad uno ad uno e poi collettivamente nei comitati di partito e dissero loro: “Ma come avete fatto ad organizzare una simile cosa spontaneamente, per vostro conto, senza che nessuno ve lo abbia detto?”; infatti non era ancora arrivato dalle autorità nessun ordine di organizzare la manifestazione. Cominciammo allora ad avere dubbi di fronte a questa standardizzazione e alla fede ideologica su cui si basava e sorgevano in noi le idee più fantastiche. Per esempio, domandavo ai miei amici: “Che cosa mi succederebbe se decidessi una notte di attaccare sui muri di Mosca manifesti con scritto ‘Viva il potere sovietico’?”. E i miei compagni mi dicevano: “Ma sei impazzito? Ti metterebbero in galera!”. Proprio come risultato di questa fusione tra la fede cieca e la normalizzazione della vita sovietica cominciavano a nascere nei giovani idee spontanee, la volontà di agire di iniziativa propria.
In questo clima vi fu la morte di Stalin, il famoso Ventesimo congresso del PCUS, in cui Chruscev denunziò che nell’epoca di Stalin erano stati commessi tremendi ed enormi delitti, torture in massa, il massacro di milioni e milioni di persone. Il mio amico, che prima non voleva prestarmi fede, adesso non poteva non credere a quello che era stato rivelato da Chruscev. Il rapporto di Chruscev, sebbene non riportasse tutti i delitti commessi precedentemente, provocò un enorme sconvolgimento nella coscienza dei cittadini sovietici; improvvisamente scoprivamo che il potere che avevamo esaltato era fondato sull’inganno, la morte e l’assassinio. Anche i comunisti occidentali riconobbero la tragicità del fenomeno stalinista; ma la spiegazione che venne avanzata, la quale riversava la colpa di tutto sulla persona di Stalin, appariva insufficiente, soprattutto poi dal punto di vista marxista, poiché la visione del mondo propria del marxismo nega che la personalità del singolo possa avere un ruolo di rilievo nella storia. Quella spiegazione scientifica, dal punto di vista marxista, che Palmiro Togliatti nel suo testamento affermava che era compito dei comunisti ricercare, il comunismo sovietico non l’ha data e penso che ancora per molto tempo nessuno ce la darà.
Si racconta che al XX congresso Chruscev ricevette da una persona del pubblico, formato da funzionari con posti di responsabilità all’interno del partito, un bigliettino senza firma con questa domanda: “Ma voi dove eravate quando accadevano queste cose?”. Chruscev, letto il bigliettino, con voce minacciosa pregò l’autore del messaggio di alzarsi. Nessuno si alzò, allora Chruscev, con un sorrisetto ironico, disse: “Vedi, hai paura; anche noi avevamo paura!”. Si tratta certamente di una risposta assai ingegnosa, ma immaginatevi se il capo di Stato di un Paese occidentale affermasse una cosa del genere. Immediatamente lo costringerebbero a dare le dimissioni. Tanto più grave era la risposta di Chruscev in quanto proveniva da un rivoluzionario, ossia da una persona che si presuppone non abbia paura di niente e che, per gli ideali professati, sia pronto a sacrificare se stesso. Quindi immaginatevi un rivoluzionario che dice: “È successo perché avevamo paura”. Così all’improvviso una moltitudine di persone venne a conoscenza che per decenni milioni di uomini e donne innocenti erano state uccisi e non sentirono altra spiegazione che questa: “È capitato perché avevamo paura”. I cittadini sovietici cominciarono allora a porsi alcune domande, in primo luogo a se stessi, di come mai fosse accaduta una simile cosa, a cercare una spiegazione po’ più seria e, ovviamente, da questa domanda ne sorsero altre che riguardavano la situazione attuale e non solo il passato.
Il dissenso sovietico è proprio questo: tentativo costante di fare continuamente domande e ovviamente tentativo di rispondere ad esse. Eppure soltanto per le domande che si pone la gente finisce in galera. È un particolare interessante che la maggioranza dei dissidenti appartiene alla nuova generazione; molti sono figli di funzionari di partito che occupano anche cariche elevate, che ad un certo punto hanno deciso di porsi le domande alle quali i loro genitori non hanno potuto o voluto rispondere. Quando le truppe sovietiche invasero la Cecoslovacchia sulla Piazza Rossa si recarono sette persone che intendevano dimostrare contro l’invasione, scontando questo gesto con l’arresto, la deportazione o l’internamento in ospedale psichiatrico. Tra di loro c’era un dissidente, Pavel Litvinov, nipote di un noto ex ministro degli esteri sovietico.
La trasmissione della cultura
In questo clima comparve e cominciò a diffondersi il cosiddetto samizdat, che è un fenomeno assai semplice, costituito da poesie, articoli, lettere che vengono battute a macchina e poi date ad amici, i quali le battono a macchina e le passano ad altri e così via. Di recente, molto ingenuamente, un giornalista domandò a un dissidente appena giunto in Occidente come mai il KGB non riuscisse a eliminare questo samizdat. Siccome si tratta di una realtà molto radicata nella vita sovietica pensava che dovesse certamente essere una grande casa editrice, localizzata in un edificio, magari nel centro di Mosca. Ovviamente non c’è nessuna casa editrice, né alcun edificio, ma si tratta dell’iniziativa spontanea, non programmata né coordinata, di singoli che diffondono scritti clandestini nel modo in cui si è detto. E questo avviene in tutte le città dell’Unione Sovietica: è un fenomeno spontaneo, di massa e proprio per questo ineliminabile, anche se tuttavia per il samizdat si viene condannati a qualche anno di lager. Il termine samizdat, che può essere tradotto con “autoeditoria”, è stato scelto in contrapposizione a gosisdat, che significa editoria di Stato, parola presente in tutti i libri in Unione Sovietica, perché tutte le case editrici sono di Stato. Esso è iniziato con la diffusione di opere letterarie della vecchia generazione, come le poesie di grandi scrittori del Novecento quali la Tzvetàieva, la Akhmàtova, Pasternàk, Mandel’shtàm opere che in gran parte la censura aveva vietato e che studenti o altre persone interessate alla letteratura erano riuscite a trovare e avevano cominciato a far circolare tra i loro amici. In un brevissimo lasso di tempo il samizdat ha acquistato un norme successo e una vastità senza precedenti, che ora cerco di piegarvi attraverso una barzelletta (in Unione Sovietica le barzellette sono molto importanti per tastare il polso della opinione pubblica). Una signora moscovita un giorno si reca da una dattilografa, che lavora in casa, pregandola di trascrivere a macchina il romanzo di Tolstoj Guerra e Pace. La dattilografa si meraviglia domanda alla signora perché vuole spendere così tanti soldi a far trascrivere il romanzo, quando può andare in qualsiasi negozio e acquistarlo per poche copete. E la signora risponde: “Mio figlio è studente e legge solo il samizdat; mi piacerebbe che leggesse Guerra e pace di Tolstoj”.
È difficile elencare tutte le varie forme del samizdat, tuttavia cercherò di spiegarvele in modo schematico. Abbiamo in primo luogo il samizdat prettamente letterario: si tratta di autori sovietici non pubblicati ufficialmente, ma soprattutto di traduzioni. Infatti suscitano interesse opere di autori stranieri le quali non vengono edite in URSS, e così vengono tradotti e diffusi dal samizdat scritti di varia natura, libri di Kafka, Köstler, Milovan Gilas, e persino gialli di Agatha Christie. Un’altra sfera del samizdat riguarda l’informazione, il giornalismo. Per capire questo aspetto bisogna conoscere che cosa siano i giornali e le riviste sovietiche. La stampa sovietica ufficiale contiene da una parte poca informazione e, dall’altra parte un’informazione deformata, distorta. Come risultato e conseguenza della lettura della stampa sovietica la popolazione ha elaborato una nuova arte, una capacità di leggere le notizie dei giornali alla rovescia o fra le righe. Mia moglie, quando era giovane e ancora non la conoscevo, un giorno si recò in vacanza nel Caucaso. Era arrivata da poco quando ricevette un telegramma della madre, che le pregava di ritornare urgentemente a Mosca. Arrivata a casa chiese a sua madre per quale motivo l’avesse richiamata in modo così pressante e lei rispose: “È molto tempo che gli articoli di fondo non dicono niente, mentre i giornali parlano spesso dell’amicizia dei popoli dell’Unione Sovietica. Allora ho pensato, leggendo questi articoli, che nel Caucaso fosse cominciata una rivolta”. Anche se le notizie che sono riportate sulla stampa sono veritiere, esse vengono tuttavia presentate in forma tale che per capirle ci vuole una particolare sottigliezza intellettuale. A questo proposito vorrei raccontarvi un’altra barzelletta. C’è una gara sportiva tra due atleti, uno sovietico e uno americano, e durante questa gara è dapprima in testa il sovietico, ma poi l’americano lo raggiunge, lo sorpassa e arriva primo. Ora la stampa sovietica deve riportare in modo veritiero questo fatto: appare dunque sui giornali la notizia che il corridore sovietico è arrivato secondo e l’americano penultimo. Si è formata nella coscienza della semplice gente sovietica una sfiducia cronica nell’informazione ufficiale. Personalmente ho incontrato parecchi contadini che ancora oggi non credono che l’Unione Sovietica mandi nello spazio i satelliti artificiali proprio perché non credono alla stampa. Come conseguenza di questo fatto la gente sovietica ha un’opinione molto distorta e deformata di cosa sia in realtà l’Occidente, descritto dalla stampa sovietica con toni negativi e notizie che riguardano le catastrofi, la povertà eccetera. Molti sovietici non vi prestano fede e quindi sono convinti che l’Occidente sia un paradiso. Così il samizdat mira anche a porre rimedio ai guasti provocati dalla disinformazione. Voglio solo ricordare in questo campo la rivista clandestina Cronaca degli avvenimenti correnti, la quale riporta senza alcun commento i processi giudiziari, gli arresti, le condanne dei dissidenti. Recentemente un giornalista occidentale mi ha domandato: “Come reagisce la popolazione sovietica alle notizie che compaiono sulla stampa ufficiale a proposito delle reclusioni dei dissidenti in manicomi criminali?”. Ebbene i giornali sovietici non riportano niente del genere, non parlano mai di arresti se non in casi eccezionali, quando fanno molto scalpore e comunque le informazioni al riguardo sono molto deformate e distorte. Le varietà del samizdat sono numerose: c’è anche quello religioso, filosofico, scientifico e ci sono anche raccolte di canzoni.
La staffetta della fede
Per concludere vorrei raccontarvi un episodio che ho vissuto in prima persona, parlarvi di un samizdat “sui generis”, quello orale. Non molto tempo dopo il mio arrivo nel lager, verso sera un’ora prima della ritirata mi si avvicinò un tale e mi chiese con cautela se non volessi ascoltare l’Apocalisse. Mi condusse nel locale della caldaia, dove era più facile nascondersi a delatori e carcerieri. Lì, nella penombra di quel covile simile a una caverna si erano già raccolte, e si rimpiattavano negli angoli sedendo sui talloni, alcune persone e io pensai che ora qualcuno avrebbe estratto da sotto il giubbotto il libro o il fascio di fogli, ma mi sbagliavo. Illuminato dai bagliori rossastri della caldaia un uomo si alzò e cominciò a recitare a memoria, parola per parola, l’Apocalisse. Quindi il fuochista, l’anziano contadino che qui era il padrone di casa, disse: e adesso continua tu, Fjodor! e Fjodor si alzò e recitò a memoria il capitolo successivo. Poi ci fu un salto nel testo, perché colui che sapeva la continuazione era a lavorare con il turno di notte. Beh, lo sentiremo un’altra volta, disse il fuochista e dette la parola a Pjotr. A questo punto mi resi conto che quei detenuti, tutti semplici contadini che avevano da scontare pene di dieci, quindici, vent’anni di lager si erano suddivisi tutti i principali testi della Sacra Scrittura, li avevano imparati a memoria e, incontrandosi segretamente di tanto in tanto, li ripetevano per non dimenticarli.
Tutta questa strana scena mi ricordò allora un romanzo dell’americano Ray Bradbury, Fahrenheit 451. 451o è nella scala Fahrenheit, la temperatura alla quale prende fuoco la carta. E nel romanzo di Bradbury viene rappresentato un futuro Stato “ideale”, in cui ogni cosa è normalizzata, sono proibiti i libri e la carta, è proibito leggere e scrivere. Quando nel corso di una perquisizione vengono scoperti dei libri, essi e le persone che li detengono vengono consegnati al fuoco. Alla fine del romanzo si narra che in certi luoghi fuori città, nottetempo, convengono in grotte e boschi degli uomini e uno dice: “Io sono Shakespeare” e l’altro: “Io sono Dante”, o qualcosa del genere. E questo significa che il primo ricorda a memoria e declama qualcosa di Shakespeare, l’altro di Goethe, il terzo di Dante… I contadini del locale della caldaia avrebbero potuto dire di se stessi la medesima cosa. Uno: “Io sono l’Apocalisse, capitolo 22”. L’altro: “E io il Vangelo secondo Matteo”. E così via, in una staffetta scandita da ciò che ognuno serbava nella memoria. E questo era cultura, nella sua successione, nella sua essenza primitiva, nella sua sopravvivenza clandestina. Sostenuta da una catena della memoria. Di bocca in bocca, di mano in mano. Da una generazione all’altra. Da un lager all’altro. Ma nondimeno, cultura, e in una delle sue manifestazioni più pure ed elevate. E se non ci fossero al mondo simili uomini e la loro tenace staffetta, la vita dell’uomo sulla terra perderebbe il suo significato.
(Nota) ANDREJ SINJAVSKIJ è nato a Mosca nel 1925. Studioso di letteratura assai noto e discusso, nel settembre 1965 venne arrestato (insieme a Julii Daniel’) e condannato a sette anni di lager per “propaganda antisovietica”. Nell’agosto 1973 ottenne dalle autorità sovietiche il visto per recarsi all’estero e si trasferì a Parigi ove ha insegnato alla Sorbona. La trascrizione della conferenza non è stata rivista dall’Autore.