Voglio ringraziare la Cooperativa Cattolico-democratica di Cultura e anche l’Associazione familiari delle vittime di piazza Loggia che ha dato a me il compito di introdurre questa serata.
Lo farò brevemente perché credo che l’interesse sia quello di ascoltare la testimonianza di Mario Calabresi.
Io e Mario Calabresi siamo quasi coetanei. Io sono nato nel dicembre del ’69, il 15 dicembre del ’69, proprio tre giorni dopo la strage di piazza Fontana che segnò l’inizio di quel periodo di violenza nella quale siamo rimasti impigliati noi familiari, Mario Calabresi è nato pochi mesi dopo.
Mario Calabresi ha perso il papà quando aveva poco più di due anni; io ho perso la mamma quando avevo poco più di 4 anni. Quindi la nostra vicenda personale è molto simile. Lo dico perché, leggendo il libro di Mario Calabresi, ho trovato tante considerazioni, tante sensazioni che sono anche le mie.
Mi ha emozionato perché ho trovato molte cose che hanno riguardato anche la mia esperienza.
Ne voglio ricordare qualcuna brevemente.
Intanto, quel senso di diversità che noi bambini, colpiti da questo evento, abbiamo sempre avvertito, che leggevamo negli occhi degli interlocutori, negli altri bambini, nelle persone adulte che ci chiedevano cosa facevano il nostro papà e la nostra mamma.
Quando venivano a sapere che la mamma era morta e che era morta in quel modo, cambiava l’atteggiamento nei nostri confronti. E questo ci provocava un grande disagio perché i bambini hanno un disperato bisogno di normalità, di non sentirsi diversi. Noi siamo cresciuti, invece, con questa sensazione di sentirci un po’ diversi per questa vicenda che ci ha colpiti.
Accanto a questo il libro parla anche di quel senso di una dimensione oscura, di bianco e nero come ha anche scritto la figlia di Walter Tobagi, che ha accompagnato la nostra crescita e la nostra esistenza. Cioè accanto alla dimensione spensierata di un bambino che vive e che cresce c’è sempre stata una dimensione parallela e oscura richiamata continuamente alla nostra attenzione perché le vicende in cui siamo stati impigliati hanno una dimensione pubblica e, perciò, vengono ricordate.
Da qui, quindi, la sensazione di sentirsi diversi e insieme a questo anche di vivere una vita normale ma sempre con questa sensazione di oscuro che ci accompagnava e qualcosa di pesante, angoscioso che viveva parallelamente e accanto a noi.
Poi ancora il bisogno di sapere.
Mario Calabresi scrive, nel suo libro, che quando ha avuto la possibilità di farlo è corso alla biblioteca di Milano per cercare di recuperare i giornali che spiegavano cos‘era successo, il contesto in cui fu ucciso suo padre.
E questo mi ha richiamato alla memoria una mia vicenda analoga, perché anch’io cercavo documentazione nello studio dove mio papà aveva archiviato i giornali dei giorni della strage e di quelli successivi, che erano stati collocati in modo che noi bambini non potessimo avere un facile accesso.
Io mi ricordo che andavo alla ricerca di questi giornali e periodici per cercare di capire qual era il clima di quei giorni, per cercare di capire cos’era successo, per cercare di ricostruire in fin dei conti anche le emozioni che ha vissuto la mia famiglia, perché io ero un bambino e non avevo la cognizione delle cose, non riuscivo a rendermi conto e avevo un bisogno “fisico” di sapere e capire.
Non solo di sapere e di capire cos’era successo in quei giorni, ma anche di sapere e di capire chi era mia mamma, perché a noi bambini piccoli, come mi è capitato in altre occasioni di dire, la strage ha portato via la mamma e ha portato via anche il suo ricordo.
Io non ho il ricordo di mia mamma. Devo ricostruirlo attraverso tanti tasselli che vengono dalle testimonianze, dal ricordo degli altri.
Quindi avevo il bisogno di capire, di sapere anche per ricostruire e delineare una figura che a me manca, per determinare una fisionomia che mi serve anche a riallacciare un rapporto. Come si fa a tenersi legato un ricordo se non si ha la fisionomia della persona a cui si vuole tenersi legati?
Da qui dunque questo bisogno di sapere, di capire anche le piccole cose per cercare di ricostruire la figura di mia mamma partendo dalle cose più semplici, le cose più minute, la vita quotidiana, le abitudini. Il bisogno di ricostruire a 360 gradi una figura che invece ci è stata sottratta in modo brutale.
Ed è anche per questo che io condivido l’approccio del libro di Mario Calabresi, che è un approccio che in qualche modo anch’io, quando mi è capitato di andare a parlare nelle scuole o altrove dove mi è stato chiesto di raccontare un po’ la mia esperienza, ho sempre utilizzato, e cioè partire dalle persone, partire dalle vicende personali, perché dietro a una vicenda pubblica e collettiva, che ha una rilevanza pubblica obiettiva come quella di Luigi Calabresi o la strage di piazza della Loggia, in realtà ci sono tante storie personali, ci sono delle vicende molto più umili e personali.
Se si parte da lì forse si riesce a far nascere un po’ di interesse nelle persone che ascoltano, a suscitare il desiderio di informarsi,di capire cos’è successo. Se si parte da lì forse si riesce ad alimentare un po’ il percorso della memoria che, altrimenti, rischia di sfilacciarsi.
E credo anche che, partendo dalle vicende personali e narrando un po’ anche le vicende familiari, si riesca a cogliere quella che è un po’, secondo me, la lezione che deve essere tramandata, che bisogna cercare di far comprendere: e cioè la distanza, l’abisso morale e di etica civile che c’è, che c’era tra coloro che scelsero la scorciatoia della violenza per cercare di condizionare, di modificare o magari di abbattere la democrazia e coloro invece, come Luigi Calabresi, come mia mamma, come i caduti di piazza della Loggia e come tutte le vittime del terrorismo, che agivano con fatica e con pazienza, tre le mille contraddizioni e difficoltà della vita quotidiana, per cercare di far vivere la democrazia, e anche di farla crescere.
NOTA: testo, rivisto dall’Autore, dell’intervento tenuto a Brescia il 5.10.2007 su invito della Cooperativa Cattolico-democratica di Cultura.