L’elaborazione dei presupposti logici, metodologici e gnoseologici della nuova scienza, che Cartesio e Pascal compiono nella loro duplice veste di scienziati e di filosofi, s’intreccia strettamente con le tesi filosofiche che essi avanzano negli ambiti tradizionali della metafisica, dell’etica e del rapporto della filosofia con la religione. Ciò fa supporre giustamente che in essi riproponga la tradizionale continuità di filosofia e scienza, ma in realtà le loro filosofie segnano l’inizio della separazione. Per questo aspetto come per molti altri (rottura con la tradizione, emergenza della libertà, idea di un infinito progresso della conoscenza) essi stanno all’inizio del moderno. Essi rappresentano però anche l’inizio delle divergenti vie della modernità: quella che tende a una progressiva razionalizzazione e quella che coglie immediatamente la crisi di questo processo; quella che si affida alla scienza e quella che, pur non rinunciando ad essa (anzi proprio perché ne va a fondo), ne vede i limiti radicali; quella che tende a una conciliazione secolarizzante di ragione e fede e quella che ne vede l’insuperabile conflitto.
Non affronterò qui tutti questi profili del rapporto fra Cartesio e Pascal, ma solo quelli più direttamente connessi alla svolta scientifica ed epistemologica e alle più generali implicazioni filosofiche che con le loro diverse interpretazioni di quella svolta sono connesse. In ambedue gli ambiti si manifestano significative convergenze e decisive divergenze, che confermano come i due pensatori appartengano al medesimo inizio del moderno e diano l’avvio ai suoi diversi sviluppi.
Riguardo al profilo più strettamente epistemologico le convergenze riguardano tre punti: il rifiuto del principio di autorità nelle scienze, il primato del modello geometrico e la conseguente concezione meccanicistica della natura, e infine la visione infinitistica del mondo.
Cominciando dal rifiuto del principio di autorità nella scienza, va detto che in Cartesio questo rifiuto diventa atteggiamento rivoluzionario che butta «all’aria tutto il sapere acquisito fino ad oggi»[2], un atteggiamento che lo induce ad abbandonare lo studio per affidarsi solo alla ragione e all’esperienza: «abbandonai interamente lo studio, e risolsi di non cercare altra scienza fuori di quella che potevo trovare in me stesso o nel gran libro del mondo»[3].
In Pascal vi è un’esclusione del principio di autorità nelle discipline scientifiche, che, come dice la Prefazione al Trattato sul vuoto, «dipendono solamente dal ragionamento, e sono intieramente dogmatiche, avendo per oggetto la ricerca e la scoperta di verità nascoste»[4]. Questo rifiuto dell’autorità nella scienza è, in particolare, esplicito rifiuto della scienza aristotelica e delle stesse categorie su cui essa si reggeva. In un passaggio che ci fa venire in mente il don Ferrante manzoniano Pascal mostra come per comprendere lo spazio non si possano utilizzare le categorie aristoteliche di sostanza e accidente[5].
Per ambedue l’indipendenza del sapere dalla tradizione non vale per la fede e per la teologia. E tuttavia è sintomatico che anche in questo ambito non rinuncino del tutto al principio dell’evidenza: in qualche misura la sottomissione all’autorità non è sottomissione forzata e cieca. Così per Cartesio «la chiarezza o l’evidenza, per mezzo della quale la nostra volontà può essere eccitata a credere, è di due tipi: l’una che parte dalla luce naturale, e l’altra che viene dalla grazia divina», e osserva che se la materia delle cose di fede è oscura, la luce interna che ci convince della loro verità ci dà una certezza persino superiore a quella della luce naturale[6]. Analogamente anche Pascal sembra preoccuparsi di attribuire alla fede i caratteri della certezza invincibile, benché di una certezza che è tale solo per il cuore e non per la ragione. Si pensi al Memoriale e alla sua iterazione della “certezza”. Neanche per la fede ci si può accontentare di una pura sottomissione all’autorità, occorre un’evidenza diversa ma non inferiore a quella della ragione, una sorta di illuminazione interiore e non una pura oscurità e un dubbio generalizzato. La fede è infatti una verità sensibile al cuore (Pensiero 481[7]) e il cuore è l’organo fondamentale delle verità certe.
Al rifiuto del principio di autorità corrisponde la centralità del principio di evidenza, che, a differenza di quella antica, che aveva un carattere oggettivo come evidenza della cosa stessa, è piuttosto evidenza delle rappresentazioni; il che corrisponde all’imporsi della soggettività che (persino nell’ambito della fede) acquista un fondamentale rilievo. Il baricentro del sapere si sposta, in Cartesio, sull’evidenza dei contenuti di pensiero, sulla chiarezza e distinzione delle rappresentazioni, che in quei caratteri hanno la regola della verità[8]. Questo criterio è accolto anche da Pascal, che fa propria la «massima che non permette di affermare se non cose evidenti, e che proibisce di asserire o di negare quelle che non lo sono»[9].
Per ambedue il modello della conoscenza evidente è la matematica. Per Cartesio «si comprende chiaramente perché l’aritmetica e la geometria risultino di gran lunga più certe delle altre discipline; pel motivo cioè che esse sole vertono intorno ad un oggetto così puro e semplice, che non suppongono proprio alcuna cosa che l’esperienza abbia reso incerta, ma bensì consistono interamente nel dedurre logicamente delle conseguenze»[10]. Così pure per Pascal la geometria è il modello delle dimostrazioni convincenti: essa «è pressoché la sola tra le scienze umane che ne dia di infallibili, perché essa osserva il vero metodo»[11]. L’eccellenza della conoscenza geometrica sta nel constare di nozioni semplici perfettamente evidenti e di deduzioni rigorose.
Sul modo di intendere le nozioni semplici e prime c’è tuttavia già una differenza fra Cartesio e Pascal. Il primo parla di «intuito» come «concetto non dubbio della mente pura e attenta, il quale nasce dalla sola luce della ragione» ed è più certo della deduzione[12]; il secondo invece attribuisce queste nozioni prime alla facoltà del cuore. Ma su queste differenze più avanti.
Il primato della geometria porta con sé quella matematizzazione del mondo, che si traduce in un rigoroso meccanicismo. Questo aspetto della svolta epistemologica della prima modernità è, a ben vedere, non meno sconvolgente del passaggio dal geocentrismo all’eliocentrismo. Essa comporta l’esclusione di ogni considerazione finalistica in ambito scientifico, con il che viene meno fra l’altro la possibilità di leggere nella natura le tracce del Creatore. Cartesio, che considera il «valersi per sistema di prove finalistiche» come «il più grave difetto di Aristotele», dal momento che «la conoscenza del fine non ci porta a conoscere la cosa stessa, la cui natura ci resta ugualmente nascosta»[13], non esclude che in ambito morale le considerazioni finalistiche abbiano un qualche rilievo come utili congetture, ma in fisica, «ove tutte le cose debbono essere appoggiate da solide ragioni», ciò non è permesso[14]. Ma è interessante notare come egli sia ben consapevole della gravità della questione, tant’è vero che cerca di prevenire l’obiezione teologica con un’argomentazione anch’essa teologica, osservando cioè che «tutti i fini di Dio sono nascosti, ed è temerario volersi innalzare ad essi»[15]. La ricerca delle cause finali è una sorta di hybris: «respingeremo del tutto dalla nostra filosofia la ricerca delle cause finali, perché non dobbiamo tanto presumere di noi stessi da credere che Dio ci abbia voluto mettere a parte dei suoi consigli»[16]. E qui non si può non osservare come l’epistemologia sia strettamente intrecciata non solo alla metafisica ma anche alla teologia.
Alla meccanicizzazione del mondo si accompagna un altro aspetto che ne modifica profondamente l’immagine, e cioè la sua infinitizzazione. Non si può dire che questa sia una semplice conseguenza di un’interpretazione meramente matematica della natura, che comporterebbe l’idea dell’infinitamente grande e quella dell’infinitamente piccolo. Basta pensare all’atomismo antico, che ha una concezione sostanzialmente quantitativa del mondo e però esclude l’infinitamente piccolo, oppure prima ancora alla scuola pitagorica, che pensa il numero come essenza dell’universo, che però non è concepito come infinito. Nemmeno si può dire, al contrario, che una nuova esperienza del mondo come infinito, introdotta dalle scoperte ottiche e astronomiche, implichi di per sé la sua matematizzazione. Certo i due elementi sono coerenti e si integrano l’uno nell’altro, ma non dipendono l’uno dall’altro. La combinazione di meccanicismo e infinitizzazione del mondo è qualcosa di nuovo.
In ogni caso l’infinito del mondo è semplicemente un indefinito. Come dice Cartesio, «non si può né provare né concepire che la materia di cui il mondo si compone abbia dei limiti»[17], mentre per Pascal (in una prospettiva un po’ diversa che ammette la possibilità dello spazio vuoto) spazio e tempo sono espandibili e riducibili all’infinito[18]. Su questo punto torneremo, perché comporta nei due pensatori rilevanti divergenze di ordine metafisico.
Al di là di queste convergenze, significative differenze intervengono nelle stesse prospettive epistemologiche, prima ancora che in quelle antropologiche e metafisiche. Si tratta sostanzialmente di due punti: lo statuto epistemologico delle nozioni elementari e dei principi, e il rapporto fra dimensione aprioristico-razionale e dimensione sperimentale della scienza. Anzitutto per Cartesio le nozioni immediatamente evidenti, quelle che egli attribuisce al lume naturale (quali il cogito, i principi logici, le nozioni matematiche elementari, ma anche altre nozioni elementari come ad esempio esistenza o pensiero), hanno un valore assoluto: la luce naturale infatti «non vede mai oggetto alcuno che non sia vero in quello che essa ne percepisce, cioè in quello che essa conosce chiaramente e distintamente»[19].
Come è noto, le proposizioni dedotte richiedono invece per Cartesio la garanzia divina per crederle vere anche quando non appaiono più nella loro evidenza. Ma questa garanzia divina, che poi si riverbera su tutte le evidenze[20] (di qui l’impressione del circolo vizioso), mentre da un lato appare indebolirle, dall’altro è un porre il sigillo al loro valore assoluto; lo stesso effetto consegue dalla tesi che le verità eterne dipendono dalla volontà divina: anche qui per un verso appaiono indebolite (perché non sono vere in sé) ma per l’altro rafforzate (proprio perché volute da Dio)[21]. In realtà in Cartesio prevale il carattere di assolutezza di quelle verità.
Pascal invece, quando parla del metodo geometrico, lo distingue dal «vero metodo, che produrrebbe le dimostrazioni nella forma più eccellente, se fosse possibile arrivarci», metodo che consiste nel «definire tutti i termini e provare tutte le proposizioni»[22]. Ora per quanto riguarda i termini elementari e gli assiomi «questo metodo sarebbe bello, ma è del tutto impossibile», perché richiederebbe di risalire all’infinito. Ci si deve allora arrestare a quei termini e principi che sono «così chiari che non se ne trovano più altri che servano meglio alla loro prova. Dal che appare che gli uomini sono in uno stato di impotenza naturale e immutabile a realizzare una qualsiasi scienza secondo un ordine del tutto perfetto». L’ordine della geometria è perciò meno convincente senza peraltro essere meno certo[23]. E’ come una certezza a cui si è costretti. Anche Pascal infatti assegna le certezze prime al «lume naturale», ma questo lume naturale viene definito non come momento della ragione (così in Cartesio), ma come natura[24] e ha la sua sede nel cuore, per cui «i principi si sentono»[25]. Per Cartesio l’intellezione è separata e indipendente dalla sensibilità[26], e solo la ragione coglie i principi, anche delle cose materiali: «la pura ragione ci ha fornito luce abbastanza per farci scoprire alcuni principi delle cose materiali, e ce li ha presentati con tanta evidenza che non potremmo più dubitare della loro verità»[27]. Per Pascal invece le evidenze in generale non appartengono solo alla sfera intellettiva, ma anche ai sensi[28], e inoltre la ragione è separata dalla facoltà intuitiva, dal cuore, al quale soltanto spettano le nozioni e i principi primi, che la ragione accoglie. Il cuore e la ragione sono in Pascal due facoltà totalmente eterogenee. La ragione diventa in lui una facoltà formale, discorsiva, strumentale. Ma in questo modo, ha osservato Laporte[29], per Pascal l’evidenza dei principi è il risultato di una sorta di costrizione. Molti interpreti hanno visto qui una restrizione della certezza cartesiana della scienza[30]. Vedremo qui come la soggettivizzazione del criterio di verità produca il suo duplice contraddittorio effetto di rafforzamento della certezza (in quanto non richiede più di essere fondata su un rapporto con l’esteriorità) e di indebolimento della medesima (per la stesso motivo). E come Pascal indebolisca ancora di più il criterio cartesiano dell’evidenza, perché assegnando le nozioni prime e i principi alle intuizioni e ai sentimenti finisce, come ho detto, per soggettivizzare il criterio di verità più di quanto non avesse fatto Cartesio. In effetti l’evidenza, in quanto viene attribuita alla ragione, e dunque a una facoltà impersonale, ha un carattere più oggettivo di quanto non abbia il sentire del cuore. L’evidenza cartesiana è come il lato oggettivo della certezza, mentre il sentimento pascaliano è una dimensione soggettiva che si oggettivizza. Se Cartesio aveva già trasferito nella ragione il fondamento della verità, Pascal fa un passo ulteriore nella stessa direzione, soggettivizzante, trasferendolo nel cuore.
Ma la differenza più rilevante fra le prospettive epistemologiche dei due pensatori, a cui gli interpreti tradizionalmente hanno dato più rilievo, è quella per cui in Pascal vi sarebbe un maggiore sperimentalismo, differenza questa che si connette con la sua restrizione dei poteri della ragione e con l’attribuzione ai sensi, e più in generale alla sfera del sentire, di una capacità di produrre evidenza. Pascal difende il carattere sperimentale della scienza al punto di affermare che le esperienze «sono gli unici principi della fisica», e proprio per questo sostiene che nella scienza vi è un progresso infinito»[31]. A questa conseguenza, che evidenzia la modernità dell’epistemologia pascaliana, si affianca l’altra conseguenza altrettanto moderna, e cioè il carattere ipotetico delle conoscenze scientifiche. Nella Risposta al Padre Noël Pascal distingue tre tipi di ipotesi: quelle la cui negazione porta a conseguenze assurde (e quindi devono essere riconosciute come vere), quelle la cui affermazione conduce a conseguenze assurde (che quindi vanno riconosciute come false) e tutte le altre che restano dubbie finché l’esperienza non le faccia ricadere nel secondo caso e quindi le falsifichi: «per far sì che un’ipotesi diventi evidente non basta che tutti i fenomeni ne derivino, mentre, se ne deriva qualcosa di contrario ad uno solo dei fenomeni, ciò basta a garantirci della sua falsità»[32]. Questa è una vera e proprio svolta epistemologica che, come ogni svolta, dà luogo non soltanto a contrasti con i sostenitori dei modelli precedenti, ma a vere e proprie incomprensioni. Così nella polemica col Padre Noël Pascal osserva come l’avversario non abbia capito la sua tesi. Egli infatti non afferma, come sostiene il Padre Noël, «l’esistenza reale dello spazio vuoto», ma invece che «lo spazio è vuoto fino a quando non si sia dimostrato che una materia lo riempia; il che non è una reale affermazione del vuoto»[33].
Il radicale sperimentalismo mette Pascal in conflitto non solo con la scienza di ispirazione aristotelica del suo tempo, ma anche in parte con Cartesio, e in particolare con le ipotesi dell’esistenza di particolari materie, delle quali non c’è riscontro sperimentale, al fine di spiegare fenomeni che non si riesce a spiegare altrimenti. Pascal non accetta il procedimento di quei fisici che presuppongono certe materie sulla base del fatto che la loro esistenza spiega certi fenomeni e la loro inesistenza non è dimostrabile. «Se questo modo di provare è accettato, non sarà più difficile risolvere le difficoltà più gravi, e le maree marine e l’attrazione del magnete diventeranno facili da spiegare, se è lecito costruirsi apposta materie e qualità»[34].
Sarebbe antistorico attribuire a Cartesio (come peraltro anche a Pascal) una scelta consapevole fra matematismo e sperimentalismo. Va detto tuttavia che nel suo sistema l’esperienza ha una funzione più di conferma che non di fonte delle conoscenza. La questione è già chiaramente impostata nella sesta parte del Discorso sul metodo laddove parlando della necessità delle esperienze nella scienza egli esplicita il suo metodo scientifico nel modo seguente: «In primo luogo ho cercato di trovare in generale i principi o cause prime di tutto ciò che è o può essere nel mondo, senza considerare a questo scopo niente altro se non Dio che l’ha creato, e non traendoli da altra fonte se non da quei germi di verità che sono nelle nostre anime naturalmente. In secondo luogo ho esaminato quali erano i primi e più comuni effetti che si potevano dedurre da tali cause: e mi sembra di aver trovato, per questa via, dei cieli, degli astri, una terra, e su la terra dell’acqua, dell’aria, del fuoco, dei minerali e altrettali cose che sono più comuni e semplici, e però più facili a conoscere»[35]. Fin qui il metodo è aprioristico. Il ricorso all’esperienza s’impone quando si discende alle realtà più particolari che potrebbero essere dedotte in modi diversi. «A questo scopo non conosco altra via che di cercare daccapo altre esperienze, tali, che il loro esito non sia lo stesso se deve essere spiegato in un modo oppure nell’altro»[36]. I fenomeni particolari devono cioè essere spiegati sottoponendo alla prova sperimentale le diverse ipotesi plausibili che possono essere ricavate dai principi; il progresso della scienza dipende dalla possibilità di approntare tali esperimenti[37].
Il sistema scientifico svolto secondo tali criteri viene esposto da Cartesio nei Principia philosophiae. Anzitutto i principi più generali, che non dipendono dall’esperienza. Quello più fondamentale è che «Dio è la causa prima del movimento e ne conserva sempre un’eguale quantità nell’universo»[38], principio che è fondato sulla dimostrazione (a priori) dell’esistenza di Dio e in secondo luogo sulla natura divina: «Noi conosciamo anche che è una perfezione in Dio non solamente di essere immutabile nella sua natura, ma anche di agire in un modo che egli non cambia mai», dal che consegue che egli conserva sempre nella materia un’eguale quantità di movimento[39]. Allo stesso modo le tre leggi fondamentali della fisica sono fondate su argomentazioni puramente razionali e metafisiche, e di nuovo sul principio dell’immutabilità divina. La prima è la legge dell’inerzia: «Ogni cosa resta nello stato in cui è, fino a che nulla la cambia»[40]. La seconda legge riguarda il moto rettilineo: «Ogni corpo che si muove tende a continuare il suo movimento in linea retta»[41]; mentre la terza[42] (II parte §§ 40-42) riguarda la trasmissione del moto fra le parti della materia, trasmissione nella quale tutto il movimento che Dio ha originariamente impresso nella materia, pur passando da parte a parte, si conserva, di modo che «questo continuo cambiamento che è nelle creatura non ripugna in alcun modo all’immutabilità che è in Dio, e sembra anzi servire di argomento per provarla»[43].
Per il resto, come Cartesio sintetizza nella Lettera a Picot, che funge da prefazione ai Principia, la prima parte della fisica contiene ancora la teoria dei corpi celesti per poi passare alla terra e ai suoi elementi. A questa deve seguire la spiegazione «di ciascuno degli altri corpi particolari che sono sulla terra, cioè dei minerali, delle piante, degli animali, e principalmente dell’uomo; poi, infine, trattare esattamente della medicina, della morale, e delle meccaniche»; rispetto a queste sezioni particolari della fisica Cartesio riconosce la necessità di un ampio arco di esperienze a cui le sue forze non possono giungere e che perciò lascia come compito alla posterità[44].
Secondo Giorello e soprattutto secondo Geymonat, l’epistemologia di Cartesio non può essere ascritta semplicemente allo sperimentalismo o al matematismo, perché in lui convivrebbero prospettive diverse[45]. Più precisamente, sempre secondo Geymonat, Cartesio trae dall’esperienza un nucleo razionale che poi mette a confronto con l’esperienza (e ciò vale per la conoscenza delle realtà particolari) oppure, più modernamente ancora, egli elabora modelli non suggeriti dall’esperienza, che, anche se non sono veri, forniscono una chiave per comprendere la realtà[46]. Questa interpretazione di Geymonat sembra modernizzare eccessivamente Cartesio: effettivamente si può dire che egli finisca per operare in questo modo e però non è questa la sua intenzione, perché i modelli proposti non sono pensati come indifferenti alla verità. E’ chiaro che in Cartesio, come ancora dice Geymonat, il ruolo dell’esperienza non è quello teorizzato dall’empirismo inglese (e nemmeno – noi possiamo aggiungere – da Pascal), ma forse giova ripetere che egli non avverte la contrapposizione dei due orientamenti scientifici. Certamente il suo orientamento è razionalistico e tuttavia l’esperienza ha una funzione concorrente e non entra in contrasto con la ragione.
Molto rilevanti sono i nessi che nei due pensatori si stabiliscono fra il nuovo approccio scientifico e le prospettive filosofiche più generali. Anzitutto il già ricordato primato della soggettività e la fondazione in essa del sapere. In questo Pascal è discepolo di Cartesio e, come lui, si ispira alla tradizione agostiniana. Come ha osservato Husserl, con Cartesio «per la prima volta […] viene messa in discussione l’esperienza nel senso usuale, l’esperienza “sensibile” – e correlativamente il mondo stesso: quel mondo che in questa esperienza e in virtù di questa esperienza ha per noi un senso e un essere, quel mondo che vale costantemente per noi, in quanto direttamente alla mano, in un’indiscutibile certezza, con questo e quel contenuto di realtà singole, e che soltanto nei dettagli, occasionalmente, può ridursi a mera apparenza e a dubbio»[47]. La giustificazione del sapere richiede di retrocedere alla soggettività per trovare in essa le certezze prime e in questo ripiegare sulla soggettività si finisce addirittura per affermare che Dio, proprio in quanto è colto nell’interiorità, è più certo del mondo[48].
Anche per Pascal, d’altra parte, la sede della certezza è nell’interiorità, con la differenza, rilevante, che questo luogo non appartiene alla ragione, ma a una facoltà più fondamentale e distinta dalla ragione, cioè il cuore.
In secondo luogo è comune ai due pensatori un certo predominio della scienza nell’ambito dal sapere. Così in Cartesio si giunge a una certa limitazione del valore della metafisica: «Va tenuto presente che non si deve esagerare nell’applicarsi alle Meditazioni e alla metafisica in genere, e che non si deve sottoporle ad elaborati commenti e simili […]. Basta averne acquisito una volta una conoscenza generale, e ricordarne poi la conclusione; altrimenti la mente ne resta troppo distratta dalle cose fisiche e sensibili, divenendo incapace di prenderle in considerazione, laddove è questa l’occupazione umana che più dobbiamo caldeggiare, perché può essere ferace di risultati che giovano alla vita»[49]. Un passo questo che getta una luce estremamente ambigua sulla filosofia cartesiana: la metafisica è il fondamento indispensabile ma può essere dimenticato, è un sapere essenziale ma trascurabile, è la più alta attività speculativa ed è un’occupazione distraente. Certo non pare dubbio dove stia il vero interesse di Cartesio, che del resto già il Discorso sul metodo esplicitava contrapponendo alla «filosofia meramente speculativa che s’insegna nelle scuole» una filosofia pratica che ci fa «quasi padroni e possessori della natura» rendendoci più comoda la vita e aiutandoci a combattere meglio le malattie[50]. Quest’accentuazione dell’interesse pratico della filosofia non può che portare con sé tanto un’emarginazione della filosofia quanto un nesso strettissimo e una subordinazione della scienza alla tecnica, nel che Cartesio si dimostra veramente punto di origine della modernità.
In Pascal invece il predominio della scienza comporta un’esclusione della metafisica, perché ciò che sorpassa la geometria ci sorpassa e la metafisica è vista come un presuntuoso tentativo dell’uomo di innalzarsi a Dio con le sue sole forze. Molti Pensieri e soprattutto la Conversazione col De Saci mettono in luce questa deriva dell’orgoglio razionalistico, che attraversa tutta la storia della filosofia e ha le sue punte negli stoici e in Cartesio. La metafisica è il tentativo di conoscere Dio senza l’aiuto di Dio, prescindendo dal suo intervento; ma in questo senso è una forma di ateismo, ancora più pericolosa dell’ateismo esplicito, perché è un tentativo mascherato di fare a meno di Dio. Così mentre Cartesio limita la metafisica funzionalizzandola alla scienza, Pascal la esclude autonomizzando la scienza. Questa infatti dipende soltanto dall’esperienza e dalla ragione, appartiene a un ordine diverso rispetto a quello proprio di Dio e delle realtà spirituali, ma in questi limiti ha una sua autonomia. In Cartesio senza la metafisica la fisica non potrebbe nemmeno incominciare e sarebbe un sapere del tutto incerto. In Pascal invece la scienza resta subordinata solo alla religione, ma è una subordinazione di valore e di importanza. Peraltro proprio la sua autonomia rispetto alla metafisica è un elemento di debolezza: essa non può avere una fondazione assoluta. Le uniche certezze che possiamo avere sono soltanto indirette. Ancora nel saggio su Lo spirito geometrico Pascal osserva che l’uomo «conosce per disposizione naturale soltanto la menzogna, e non deve accettare per vere se non le cose il cui contrario gli appare falso. E per questo, tutte le volte che una proposizione è inconcepibile, bisogna sospendere il giudizio su di essa e non negarla per tal segno, ma esaminare il contrario; e se lo si trova manifestamente falso, si può avere l’ardire di affermare la prima, per quanto incomprensibile essa sia»[51]. E’ così che si possono conseguire certezze nell’ambito della geometria, certezze tuttavia limitate in quanto conoscenze indirette, come è inevitabile visto che ai veri primi principi non si può risalire. E si tratta qui di conoscenze geometriche; quelle fisiche, che dipendono dall’esperienza, avranno un grado di certezza necessariamente inferiore. Dunque, rispetto a Cartesio, in Pascal la scienza sconta la sua autonomia con una fondazione più debole e un valore molto più limitato.
Una terza conseguenza filosofica della svolta epistemologica è il dualismo. La matematizzazione e meccanicizzazione della natura comporta una distinzione sostanziale fra corpi e spiriti. La sostanza corporea è definita dall’estensione e quella pensante dal pensiero; perciò, osserva Cartesio, possiamo avere un’idea chiara di una sostanza pensante e di una sostanza estesa solo se «separiamo accuratamente tutti gli attributi del pensiero dagli attributi dell’estensione»[52]. E’ la distinzione che scaturisce dal cogito, la cui dimostrazione comporta la possibilità di pensare l’io separatamente dal corpo. Perciò nella sesta Meditazione Cartesio dice: «la mia essenza consiste in ciò solo, ch’io sono una cosa pensante, o una sostanza, di cui tutta l’essenza o la natura è soltanto di pensare», e poco più avanti: «poiché da un lato ho una chiara e distinta idea di me stesso, in quanto sono solamente una cosa pensante e inestesa, e da un altro lato ho un’idea distinta del corpo, in quanto esso è solamente una cosa estesa e non pensante, è certo che quest’io, cioè la mia anima, per la quale sono ciò che sono, è interamente e veramente distinta dal mio corpo, e può essere o esistere senza di lui»[53].
Analogamente Pascal afferma che vi è una «distanza infinita tra i corpi e gli spiriti», e che di conseguenza «tutti i corpi, il firmamento, le stelle, la terra e i suoi regni non valgono il minimo degli spiriti, perché questo conosce tutto ciò e se stesso; e i corpi nulla»[54]. Ma anche qui lo stesso principio, quel dualismo che era un presupposto della nuova visione scientifica, prende una piega filosofica diversa. In Cartesio vi è da un lato l’esigenza di trovare un principio esplicativo della connessione fra anima e corpo (di qui l’idea della ghiandola pineale) e dall’altro l’interesse a costruire una scienza almeno delle passioni dell’anima, scienza che anticipa in fondo quella geometrizzazione dello spirito che Spinoza porterà a compimento. Al contrario Pascal, proprio nella consapevolezza che, a causa della discontinuità della realtà, è impossibile un’applicazione generalizzata del metodo geometrico, affida la comprensione della realtà spirituale a quello spirito di finezza che è contrario a quello geometrico, dal che consegue un’ulteriore restrizione del valore della scienza in quanto è incapace di comprendere la realtà spirituale. Di qui le ripetute osservazioni, in alcuni casi con esplicito riferimento a Cartesio, sull’inutilità della geometria e in generale sulla vanità delle scienze e sul loro carattere fuorviante[55], osservazioni che non smentiscono il primato delle scienze nell’ambito della conoscenza, ma ne riducono fortemente il valore e il significato umano.
Va sottolineato, a proposito degli ultimi due punti, cioè del primato del modello scientifico di conoscenza e del dualismo, come ne consegua ciò che avevo indicato all’inizio, e cioè una tendenziale (nonostante le apparenze) separazione di scienza e filosofia. O perché il primato del modello scientifico di conoscenza porta a una sorta di emarginazione della filosofia, o perché il dualismo tende a separare, nonostante i ricordati tentativi di Cartesio e Spinoza, l’ambito della scienza (che è quello dei corpi) dall’ambito della filosofia (quello dello spirito).
Un carattere opposto, e cioè tendente piuttosto a ristabilire una certa contiguità di filosofia e scienza, ha l’ultimo importante tema che segna una convergenza scientifica fra i due pensatori e insieme dà luogo a una divergenza filosofica, cioè il tema dell’infinito. Per Cartesio, come abbiamo visto, l’estensione del mondo è indefinita: «Questo mondo, o la materia estesa che compone l’universo, non ha limiti, poiché, in qualunque luogo voglia fingerne, possiamo ancora immaginare al di là spazi indefinitamente estesi, che non immaginiamo solamente, ma che concepiamo essere tali in effetto quali li immaginiamo; sì che essi contengono un corpo indefinitamente esteso, poiché l’idea dell’estensione che noi concepiamo in qualsiasi spazio, è la vera idea che dobbiamo avere del corpo»[56]. Così per Pascal il mondo è «una sfera infinita il cui centro è ovunque, la circonferenza in nessun luogo»[57], e non soltanto è infinitamente grande, ma le sue parti sono infinitamente piccole. Inoltre per ambedue l’infinito definisce la realtà dell’uomo. Cartesio sostiene sì che le facoltà dell’uomo sono limitate, vi è però l’eccezione della volontà: «Non vi è che la sola volontà, che io sperimenti in me così grande, che non concepisco l’idea di nessun’altra più ampia e più estesa: di modo che essa principalmente mi fa conoscere che reco l’immagine e la somiglianza di Dio»[58]. Ma anche nella conoscenza c’è questa presenza dell’infinito: l’idea di Dio, che per Cartesio non può che provenire da Dio stesso e quindi ne dimostra l’esistenza.
Anche per Pascal l’uomo, che è in una posizione intermedia fra il nulla e l’infinito[59], porta in sé nella sua finitezza una dimensione di infinitezza che è l’impronta di Dio in lui, impronta che Pascal vede anche nelle altre realtà naturali: «poiché la natura ha impresso l’immagine sua e quella del suo creatore in tutte le cose, queste partecipano quasi tutte della sua infinità»[60]. Nell’uomo questa infinità si mostra non solo nella sua relazione con Dio, ma anche nel progresso della conoscenza[61], che dimostra appunto che l’uomo «non è stato generato che per l’infinità»[62]. E anche l’inarrestabile movimento del divertissement dimostra questa esigenza d’infinito, che nessun bene finito riesce a soddisfare.
Ma di nuovo interviene tra Cartesio e Pascal una differenza fondamentale. L’impronta dell’infinito nell’uomo per Cartesio rende dimostrabile l’esistenza di Dio, e perciò mette facilmente in comunicazione l’umano e il divino. Per Pascal segna invece il limite invalicabile della conoscenza umana, nel senso che la traccia dell’infinito che è in noi, poiché si dà soltanto nella forma dell’indefinito, non è una prova dell’esistenza del vero infinito, ma solo l’indicazione di una possibilità, per cui è egualmente ragionevole ammettere la sua esistenza e non ammetterla. Anche nella sua applicazione alla natura l’infinito ha un duplice e opposto effetto. Da un lato occulta il divino in quanto il mondo nella sua indefinitezza si presenta come dispersione priva di senso; dall’altro può apparire invece come traccia del divino. Perciò il famoso Pensiero 84 allo stesso tempo parla dello sgomento dell’uomo nell’infinito in cui perde ogni orientamento, e anche riconosce che la possibilità di immaginare un’estensione all’infinito dello spazio e del tempo «è il più grande segno sensibile dell’onnipotenza di Dio». In Pascal l’infinito assume dunque non solo il volto rassicurante della traccia del divino, ma anche il volto dell’inquietante, come la dimensione che sfugge alla limitatezza umana, che fa perdere i punti di orientamento.
Cartesio e Pascal presentano in questo modo non solo le due tendenze della scienza moderna, ma anche i due volti del pensiero moderno, quello razionalista e progressivo, che celebra i trionfi della ragione e della scienza, e quello che ne conosce non solo i limiti, ma anche la potenziale deriva atea e nichilistica; oppure quello che affida alla scienza il progresso dell’umanità e quello che ne coglie la pericolosità per la vita spirituale; oppure ancora quello che tende a una pacifica concordanza fra ragione e fede attraverso un’operazione più o meno occulta di secolarizzazione e quello che invece mostra l’inaggirabile tensione che attraversa il loro rapporto.
Se comprendiamo in questo modo l’inizio dell’epistemologia e più in generale della filosofia moderna, allora riusciamo ad averne un quadro più mosso, anzi vi vediamo una frattura, che è molto più profonda di quella, tradizionalmente riconosciuta ma in realtà più apparente che reale, tra razionalismo ed empirismo. E’ una comprensione inadeguata del moderno quella che non ne coglie l’intima tensione che lo attraversa, una tensione che non solo ne rende più comprensibile la crisi, ma che forse costituisce la sua vera e propria essenza.
Ma questo discorso meriterebbe un più ampio sviluppo e ci porterebbe troppo oltre il nostro tema.
[1] Testo rivisto dall’Autore.
[2] Ricerca della verità mediante il lume naturale , in CARTESIO, Opere, Bari, Laterza, 1967, I, p. 110.
[3] Discorso sul metodo, in Opere, cit., I, p. 136.
[4] PASCAL, Pensieri Opuscoli Lettere, Milano, Rusconi, 1984, p. 269.
[5] Lettera a M. Le Pailleur, in Pensieri Opuscoli Lettere, cit., p.254.
[6] Vedi Meditazioni metafisiche, in Opere, cit., I, p. 320.
[7] I Pensieri sono citati dall’edizione di Pascal sopra menzionata, che riproduce l’ordinamento dell’edizione Chevalier.
[8] Discorso sul metodo, in Opere, cit., I, p. 152; Meditazioni metafisiche, ivi, p. 292.
[9] Lettera a M. Le Pailleur, cit., p.267.
[10] Regole per la guida dell’intelligenza, regola seconda.
[11] Lo spirito geometrico, in Pensieri Opuscoli Lettere, cit., pp. 333-4.
[12] Regole, cit, regola terza.
[13] Colloquio con Burman, in Opere, I, cit., pp.679-80.
[14] Meditazioni metafisiche, cit., p.411.
[15] Colloquio con Burman, cit., p. 680; v. Meditazioni metafisiche, cit., p.539.
[16] I Principi della filosofia, in Opere, cit., II, p.40.
[17] Lettera a Chamat, in Opere, cit., II, p.625.
[18] Lo spirito geometrico, cit., p.342.
[19] I Principi della filosofia, cit., p. 41, v. 41-42; v. anche La ricerca della verità, in Opere, cit., I, pp.123-24; Meditazioni metafisiche, cit., pp. 219, 220, 286, 310, 319-20, 322, 334-35, 555, 573.
[20] V. I Principi, cit., p. 41.
[21] V. Meditazioni metafisiche, cit., pp. 246-47,314-15,319,413-14, 543,578,581,584-85; I Principi, cit., p.32; Lettere, in Opere, cit., pp.665-6,710.
[22] Lo spirito geometrico, cit., p.334.
[23] Ivi, p. 336.
[24] Ivi, p. 341.
[25] Pensiero 479.
[26] Meditazioni metafisiche, cit., pp. 544-45, 547-48.
[27] I Principi, cit., p.117.
[28] Risposta al P. Noël, in Pensieri, Opuscoli, Lettere, cit., p.235.
[29] J. LAPORTE, Le coeur et la raison selon Pascal, Paris, Elzévir, 1950, pp. 133-34.
[30] Vedi S.A MELZER, Discourses of the fall, Berkeley Los Angeles London, University of California Press, 1986, p.100; A. DEL NOCE, Riforma cattolica e filosofia moderna, Bologna, Il Mulino, 1965, pp.66-8; M. HEESS, Blaise Pascal, München, Fink, 1977, pp. 101,103,131; e T.M.HARRINGTON, Pascal et la philosophie, in AA.VV., Méthodes chez Pascal, Paris. Puf, 1979, p.38.
[31] Prefazione al Trattato sul vuoto, cit., pp.273-75.
[32] Op. cit., p. 241.
[33] Ivi, pp. 250, 239 ,276-7.
[34] Risposta al Padre Noël, cit., p. 239.
[35] Opere, cit., I, pp. 173-74.
[36] Ivi, p. 174
[37] V. ibidem.
[38] Opere, cit., II, p. 90.
[39] Ibidem
[40] Ivi, p. 91.
[41] Ivi, p. 93.
[42] Ivi, pp. 94-95.
[43] Ivi, p. 95,
[44] Ivi, p. 21.
[45] V. AA.VV., Descartes: il Metodo e i Saggi, Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana, 1990, pp. 724, 728.
[46] V. ivi, p. 723.
[47] E.HUSSERL, La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale, Milano, il Saggiatore, 1987, p. 104.
[48] V. S.NICOLOSI, Certezza di Dio e fondamento assoluto della scienza. La rivoluzione cartesiana del sapere, in Dialogo di filosofia, n. 4, Roma, Herder, 1988, p. 58.
[49] V. Colloquio con Burman, cit., p. 690.
[50] Opere, cit., I, pp. 172-73.
[51] Op. cit., p.345.
[52] I Principi della filosofia, cit., p. 53.
[53] Op. cit., pp. 254-55.
[54] Pensiero 829.
[55] V. Lettera a Fermat, in Pensieri Opuscoli Lettere, cit., p.221; Pensieri 80,193,196,346.
[56] I Principi della filosofia, cit., pp. 80-1.
[57] Pensiero 84
[58] Meditazioni metafisiche, cit., pp. 235-36.
[59] V. L’arte di persuadere, in Pensieri Opuscoli Lettere, cit., p. 353; Pensiero 84.
[60] Pensiero 84
[61] Prefazione al Trattato sul vuoto, cit., pp. 271, 274-5.
[62] Ivi, p. 274.