Questa sera vorrei spiegarvi ed illustrarvi quello che io ho capito della guerra girando nei paesi in guerra come chirurgo, quello che ho capito della guerra di oggi, non della guerra in generale e lo farò con una serie di diapositive.
Quando, nel 1988, operavo sul confine afgano, venne questo bambino. Quando arrivò in ospedale chiesi ad uno dei nostri infermieri afgani cosa gli fosse successo e mi fu risposto che aveva preso in mano una mina giocattolo. La mia reazione fu, questa è propaganda, non ci credo. Non ci credo perché non è facile crederci, fino a quando non lo si vede e fino a quando non lo si sa. Poi ovviamente capitò il secondo caso, poi il terzo, poi qualcuno mi portò qualcuna di queste mine, disinnescate, e allora anche la mia incredulità che, forse derivava da ragioni ideologiche, venne meno.
– Questa si chiama P.F.M.1: è una mina di produzione russa, sovietica si diceva allora. E’ una mina che gli afgani chiamano il pappagallo verde, è stata buttata in quantità impressionanti sopra i loro villaggi, parliamo di parecchie centinaia di migliaia di queste mine. I tecnici militari hanno sempre detto che non è vero, che non sono mine giocattolo, ha quella forma perché deve veleggiare bene, quando la si butta dagli elicotteri. Come se si trattasse di giocare con gli aquiloni. In realtà è fuori discussione che questa mina è molto attraente per i bambini, non ho mai operato un adulto ferito da queste mine. Queste mine funzionano per accumulo di pressione, vuol dire che bisogna tenere in mano un po’ prima che funzionino. E questa è una logica assolutamente perversa che poi cercherò di spiegarvi più in dettaglio. Se il bambino è veloce, come avverte l’esplosione imminente, butta via la mina e se la cava, fra virgolette, come il bambino di prima che ha perso solo 2 dita. Se invece l’esplosione avviene in tutta la sua violenza, quando la mina è tenuta stretta in pugno avanti, succede come a questo bambino somalo che ha perso entrambe le mani.
Allora io ho cominciato a riflettere, io ero andato lì per fare chirurgia di guerra, sapevo che era un ospedale per feriti di guerra, era un ospedale della croce rossa internazionale, intorno a me in realtà non vedevo neanche una pistola ad acqua e non vedevo nessun combattente, vedevo soltanto tantissime donne e tantissimi bambini. Allora ho cominciato a riflettere su che cosa era diventata la guerra. Guerra che io conoscevo ovviamente, essendo nato nel 1948, soltanto dai racconti di mio padre quando ero bambino o dai films che hanno inondato i teleschermi per anni. Volevo scoprire che cosa fosse questa guerra. Ho scoperto che questa guerra ha come una arma fondamentale le mine anti uomo quella che io, invece, pensavo essere una aberrazione, una sorta di barbaro cinismo, arma che oggi è responsabile di circa il 20% di tutte le vittime di guerra, dei feriti di guerra.
– Qui c’è una piccola panoramica di varie mine. Questa non è che una piccola panoramica dei circa 400 modelli di mine antiuomo che si conoscono. Anche se poi se ne fabbricano molte di artigianali e quindi probabilmente questo arsenale dell’orrore è ancora più ampio di quello che noi pensiamo.
– Questa è una delle ammiraglie, si chiama Velmara ’69?, è una mina a frammentazione. Questa mina salta prima ad una altezza di circa 50–60 cm., dopo di che scoppia, sparando tutt’intorno circa 2000 frammenti di metallo arrugginito. E’ una mina che può uccidere nel raggio di 20–25 m., ovviamente non si trova più niente del corpo di chi l’ ha calpestata e può ferire gravemente molto gravemente fino a 250 m., fino a 360 gradi.
– Questa invece si chiama V.S.50 ed è una mina che funziona con meccanismi diversi, è una mina che si può gettare tranquillamente da elicotteri, cosa che viene fatta regolarmente, ed è un’altra mina anti uomo che per le dimensioni è difficilmente riconoscibile quando si trova nel terreno, specialmente se è ricoperta di terra.
– Questo è un ragazzo curdo che abbiamo fotografato così, con la sua gamba sana, con in mano una di queste mine, la stessa mina che gliel’ ha tirata via. È seduto sul retro di un pulmino che è prodotto dalla stessa ditta che ha prodotto la mina, che ha prodotto la sua amputazione: una macabra sequenza che credo varrebbe la pena di spezzare.
– Quella che si vede si chiama S.B.33, è prodotta a Colleferro vicino a Roma, azienda del gruppo FIAT, ed è una mina anti uomo anche questa, gettabile, da elicotteri, fatta di una forma che assomiglia molto a quella di un sasso, che funziona anche a teste in giù, water-proof, che resta sempre nel terreno.
– Questa è invece una mina sovietica, un po’ più potente, che produce effetti abbastanza disastrati.
Io so che certe immagini non si possono far vedere, per esempio in televisione non si possono fare vedere, anche perché la televisione non te lo consente, ma credo che forse non è inutile vedere quello che succede ad un ferito da mina.
– Questo ragazzo ha le 2 gambe completamente maciullate fino al ginocchio, ed è stato necessario fare una amputazione al di sopra del ginocchio.
Che cosa hanno in comune queste armi? Hanno alcune caratteristiche che le rendono assolutamente uniche: la prima è che sono delle armi indiscriminate: cioè sono armi che colpiscono senza avere un bersaglio, colpiscono quel malcapitato che vi metterà un piede sopra o che le toccherà dentro. E però, pur essendo indeterminate, non sono armi casuali. Noi sappiamo benissimo, perché l’esperienza di chi fa il chirurgo, di chi fa lo sminatore, ma anche l’esperienza di chi studia questi problemi, che almeno il 95% dei feriti da mina sono civili. Sappiamo benissimo che le attività a più alto rischio sono attività assolutamente non belliche, come quelle di cercare legna, lavorare la terra, giocare etc. I militari hanno sempre sostenuto che l’uso delle mine militari anti-uomo è giustificato o sarebbe giustificato per proteggere istallazioni chiave o per indirizzare le truppe nemiche in una direzione anziché in un’altra. Queste sono delle volgari menzogne perché l’uso che si fa delle mine anti uomo oggi nella pratica non è questo. In questa diapositiva non ci sono installazioni militari, quelli sono campi e questa gente stava lavorando, e che continua a lavorare pur sapendo che sono minati, perché non hanno alternativa, perché quella è la loro terra e perché devono sfamare la loro famiglia e perché tutti devono fare così.
– Questo è un cimitero, perché i cimiteri sono state altre aree selettivamente minate. E la stessa cosa succede per i corsi d’acqua. Oltre alla disseminazione a pioggia, a caso sui villaggi senza ovviamente nessuna mappatura di queste armi, sono state minate selettivamente tutte quelle strutture, fonti etc. che consentono alla popolazione civile di riprendere la vita. Di riprendere come dire una esistenza normale alla fine delle ostilità. Ovviamente si sa che la gente prima o poi va a trovare i suoi morti: così si mettono le mine nei cimiteri; si sa che la gente ha bisogno dell’acqua e si mettono le mine nei torrenti.
– Questa ragazza ha perso una gamba su una mina in un torrente del Kurdistan iracheno, mentre con una brocca d’acqua prendeva l’acqua per il pic–nik della festa della primavera dell’anno scorso.
Da questo problema delle mine anti uomo, che credo si possano tranquillamente definire come un sistema barbaro di distruzione di massa pianificata, e come un’ arma che di fatto ha abolito il concetto di dopo guerra, siamo passati a considerare, come dire, la guerra nei suoi aspetti un po’ più generali. Perché dico abolito il concetto di dopo guerra? Perché lo vediamo in questo momento tutti i giorni, leggendo o sentendo la televisione, che un soldato, una volta italiano, una volta portoghese, nella ex Iugoslavia è stato ucciso, ferito, mutilato da una mina. Cosa succederà lì? C’è un processo in atto, ci sono degli accordi, tutti sperano che si arriverà alla pace. Il giorno dopo che la pace sarà firmata, i 600 giornalisti che sono stati a Sarajevo, abbandoneranno l’Holiday Inn, le televisioni se ne andranno, l’ex Iugoslavia sparirà dalle prime pagine dei giornali e dopo un mese sparirà anche dalle terze pagine dei giornali, la gente finalmente fuori dall’ enclavi comincerà a ricostruire, a lavorare la terra, i bambini ricominceranno a giocare, a non stare più chiusi, tappati negli scantinati, insomma si dice che la vita ricomincerà a riprendere. Cosa succederà allora delle 5/6000 mine che sono sparse nella Iugoslavia? Cosa succederà di tutte le mine che oggi ci sono nei giardini pubblici di Sarajevo? Succederà quello che è successo, e che succede in tutti gli altri paesi: in una sessantina di paesi nel mondo, cioè che questa gente continuerà ad essere massacrata nel silenzio, senza i riflettori del CNN, senza i giornalisti a testimoniare le loro tragedie, e questa gente avrà la vita distrutta e quella della loro famiglia distrutta, rovinata senza neanche qualcuno che li rappresenti. Qualcuno potrebbe obiettare: ma è sempre stato così! Non è vero, alla fine del primo conflitto mondiale le vittime civili furono il 15% del totale delle vittime. Il che vuol dire che gli eserciti si affrontavano fra di loro. Non l’85%. Nel secondo conflitto mondiale c’è ovviamente il punto di svolta. Alla fine della seconda guerra mondiale il 60, 65%, secondo le varie ricerche totale delle vittime sono civili. Cioè questo rapporto si inverte. E si inverte principalmente per due fattori, per i bombardamenti a tappeto sulle città, che ovviamente interessano la popolazione civile di quelle città, e perché l’uomo 50 anni fa più o meno scopre disgraziatamente che si possono mettere in atto strumenti scientifici della distruzione della razza umana. E mi riferisco ovviamente ai campi di sterminio nazisti e all’olocausto. Queste cose che hanno di fatto cambiato, e che segnano un punto di svolta storico importantissimo, come ebbe a dire Bertold Brecht, hanno purtroppo buttato un seme che ha dato frutti amarissimi. Oggi non c’è conflitto in cui le vittime civili non siano più del 90% del totale. Non è soltanto l’esperienza nostra che dimostrano queste diapositive. Abbiamo raccolto una casistica di circa 12000 pazienti, che sono stati ricoverati nell’ospedale di Kabul, ospedale della croce rossa internazionale, in 2 anni, e su 12000 pazienti ricoverati, feriti di guerra tutti quanti, perché quello era un ospedale di feriti di guerra esclusivamente, solo il 7% erano combattenti. Credo il 34% erano bambini sotto i 14 anni, il 26% erano anziani, un 16% le donne, un 17% di uomini non combattenti.
Questa è stata la nostra esperienza, e secondo me una statistica basata su 12000 osservazioni incomincia ad avere una rilevanza, un significato. Siamo andati a fondo di questo problema e abbiamo scoperto, per esempio, che i principali centri di ricerca mondiale e mi riferisco al Peace Institut di Oslo riportavano nei loro studi cifre impressionantemente analoghe o addirittura sovrapponibili per tutti i conflitti contemporanei. Perché oggi i conflitti, per lo più non sono più conflitti internazionali, sono conflitti interni, sono conflitti non più combattuti dagli eserciti regolari ma sono combattute da bande di criminali, combattenti, guerriglieri, gente che lotta per tutto quello che si vuole, per la liberazione, l’autonomia, l’indipendenza, conflitti etnici, tribali, religiosi, di tutto. Ma alla fine tutti fanno la stessa cosa. Tutti hanno scelto questa nuova forma di guerra per cui la guerra è fatta da tizio contro caio, e non importa di che colore sia tizio e caio, intendiamoci, si risolve sempre col fatto che è sempronio a pagare, cioè che è la popolazione civile a pagare. Oggi statisticamente, nei paesi del terzo mondo, dove per lo più avvengono questi conflitti, ma non solo, il combattente è il mestiere più sicuro. E questo credo la dica lunga sulla barbarie a cui siamo arrivati. Ci siamo posti il problema cosa fare? Il nostro lavoro è ovviamente una piccolissima gocciolina nella quale io continuo a credere. E credo che sia meglio che questa gocciolina esista che non che non esista. E che sia meglio che ne esistano tante di queste goccioline perché forse alla fine diventerà un ruscelletto.
– Questo è il fiume Tigri, la Mesopotamia, che oggi si chiama nord Iraq o la terra dei curdi. In questo posto abbiamo deciso di lavorare a partire dal marzo del ’95 per un paio di ragioni. La prima è che i curdi vivono una guerra estremamente complessa contro Saddam Hussein, che vede purtroppo i partiti curdi in lotta in guerra fra di loro, che vede il territorio dei curdi iracheni, tre milioni e mezzo di abitanti infestato da dieci milioni di mine anti uomo. Queste sono state le ragioni per le quali abbiamo scelto questo paese. Siamo partiti con una serie di veicoli da Milano, altra gente è andata a in aereo in Turchia, alla fine, dopo 2600 km, siamo riusciti ad arrivare, con un team di 8 persone, in un villaggio di montagna , a 20 km circa dal confine iraniano. Lì abbiamo trovato che l’ospedale, costruito da dei tedeschi due anni prima, che poi se ne erano andati per ragioni di sicurezza, era di fatto un albergo dei guerriglieri. Allora abbiamo fatto lunghe trattative con i saggi o gli anziani del villaggio per imporre le regole della nostra permanenza lì. Erano molto semplici: vogliamo costruire un ospedale, riportare questo ad essere un ospedale e questo deve essere un ospedale per i curdi. Non un ospedale per questo o quel partito, per questa o quella appartenenza politica. E vogliamo ovviamente un ospedale senza armi, dove ci sia rispetto della persona e della dignità umana.
– Questa è una veduta parziale del villaggio, un villaggio che è stato bombardato e ricostruito, non si sa veramente quante volte, l’ultima volta è stato nel ’91.
– Questa è la facciata dell’ospedale, in quell’armadio pitturato di rosso, la gente che arriva lascia le pistole, le armi prima di avere l’ingresso in ospedale. Questo ospedale si è ben presto riempito di feriti di guerra, di gente che era ferita dalle mine, ma anche di gente che era ferita a causa del conflitto interno. Il conflitto interno è una guerriglia di intensità variabile, però quando esplodono i combattimenti si usano razzi, mortai, ma anche cannoni di una certa potenza e quindi ovviamente i villaggi vengono bombardati.
– Questo è uno dei villaggi di sopra, completamente distrutto, sono tutte macerie nelle quali la gente cerca ancora di vivere. Uno dei problemi che ci siamo trovati ad affrontare è stato quello di mostrare la nostra neutralità. Cioè non potevamo più stare soltanto “stare”, in un paese che era di fatto diviso in due perché non volevamo essere identificati come un team medico-chirurgico che lavorava per una parte. Per cui abbiamo deciso, nel settembre scorso, di costruire un secondo centro chirurgico per vittime di guerra nel sud del nord-Iraq al di sotto del trentaseiesimo parallelo.
– Queste sono una serie di diapositive sulla costruzione dell’ospedale. Anche questo è un centro chirurgico che si chiama proprio centro chirurgico per vittime di guerra. Abbiamo imposto a tutte e due le fazioni in lotta di rispettare la neutralità di questi centri e di considerare i feriti che arrivano come gente sotto la nostra protezione per cui quando un paziente, anche passando dal fronte, viene portato in quell’ospedale, una volta dimesso lo riportiamo dall’altra parte con le nostre macchine, e non si permette che qualcuno lo interroghi, o lo metta in galera o peggio lo faccia sparire. Questo secondo ospedale, che ha aperto i battenti 10 giorni fa, ha visto peraltro un grosso lavoro anche nei mesi precedenti, il lavoro della formazione del personale locale, lavoro di insegnamento, di infermeria, di chirurgia etc., da un punto di vista teorico, ovviamente anche dei corsi d’inglese per potere riuscire poi a comunicare con questa gente. Poi come sempre, quando ci si trova in queste situazioni si fanno i conti senza l’oste… e a novembre quando stavamo finendo di costruire l’ospedale è scoppiata una epidemia di colera. Il colera, non è strano neanche a novembre anche se la temperatura non è l’ideale per questa malattia, ma non è strano se si pensa che le condizioni igieniche del paese sono in progressivo deterioramento a causa dell’embargo. Per cui ho dovuto mettere in piedi velocemente un ospedale da campo incominciando a fare latrine, zone di disinfezione, e piantare tende, per un ospedale che alla fine è stato in grado di accogliere un migliaio di pazienti. Abbiamo avuto nel mese di novembre 825 casi di ricovero di colera, ed è stato un lavoro molto difficile, anche perché abbiamo dovuto improvvisarci medici esperti del colera, mentre eravamo solo un piccolo gruppo di chirurghi.
NOTA: testo, non rivisto dall’Autore, della conferenza tenuta a Brescia il 22.2.1996 su invito della Cooperativa Cattolico-democratica di Cultura.