Se guardo la mia esperienza, un momento in cui mi sono accorto della serietà del fatto ecumenico, è stato quando, iniziando gli studi di filosofia, ho pensato a quali erano stati i Padri della cultura moderna: Cartesio, che ha lanciato la grande corrente del Razionalismo; Grozio, uno dei fondatori del Diritto Moderno; Kant, soprattutto nella sua opera La pace perpetua. Mi sono domandato come mai questi pensatori fossero tutti cristiani: chi aveva studiato al collegio dei Gesuiti, chi aveva avuto una formazione cattolica, chi protestante; mi chiedevo perché quando questi cristiani avevano voluto trovare un punto di riferimento, non si fossero riferiti al Vangelo. Ma poi ho capito. Non si poteva più fare riferimento al Vangelo, proprio nel momento in cui, nel nome di questo, ci si stava uccidendo a vicenda. Era il momento all’origine della modernità in cui, in nome anche del Vangelo, si combattevano le guerre di religione. Allora è stata drammaticamente presente l’urgenza dell’ecumenismo e noi oggi paghiamo il fio di quelle pagine di storia. Il mio compito mi sembra sia un po’ quello di raccontarvi qualcosa della situazione attuale dell’ecumenismo, alla luce della mia esperienza, che è un po’ quella del pellegrino, del nomade, attraverso le strade europee e degli altri continenti. Mi sembra che l’ecumenismo sia davanti ad una svolta, un crisi, ma di passaggio, probabilmente di salto di qualità. Questo l’ho visto, nel Dicembre del 1998, quando ho partecipato alla Ottava Assemblea del Consiglio Mondiale della Chiese nello Zimbabwe. Era il cinquantesimo della vita del Consiglio delle Chiese, che può essere visto come la realtà, il simbolo che ha incarnato tutto un processo, un cammino, un paradigma ecumenico. Ad Arare è emerso che vi erano sì delle novità, ma anche come fosse necessario compiere un passaggio perché vi era uno stato di crisi. Chi ha espresso chiaramente questo sono stati i fratelli ortodossi, i quali, prima dell’assemblea, ne avevano già a lungo discusso. Il Patriarcato di Mosca, ad esempio, ha mandato all’Assemblea una delegazione molto piccola e di un livello ridotto: era un segnale. Gli Ortodossi Europei hanno parlato al Consiglio delle Chiese e hanno spiegato di aver aderito al Consiglio fin dall’inizio, ma di non sentirsi pienamente a casa in questo organismo, perché è nato in Occidente, nel mondo protestante, ed è quindi troppo occidentale, troppo protestante. Certi temi – hanno sottolineato – che sono stati affrontati dal Consiglio non sono temi che appartengono alla nostra tradizione: il tema dell’ordinazione femminile, della traduzione della Bibbia con un linguaggio inclusivo, quindi al femminile. Queste sono questioni anche etiche, entrate oggi molto fortemente nel dibattito ecumenico, come ad esempio il dibattito sull’omosessualità. In più, temi che appartengono alla tradizione ortodossa non vengono trattati seriamente, perché sarebbero motivi di divisione, come la figura di Maria, il concetto stesso di tradizione o la realtà della liturgia. Appunto per questo gli Ortodossi chiedono una riforma radicale del Consiglio Mondiale della Chiese. Questo era il segnale di una difficoltà che si è creata e che ha alle spalle il problema del rapporto tra Oriente, rappresentato in modo tipico dall’Ortodossia, e l’Occidente, perché alla spalle di certe domande c’è questo confronto tra le due culture, le due tradizioni che sono state separate da un muro e con scarse possibilità di contatti. Crolla il muro e improvvisamente ci troviamo sullo stesso teatro. Paradossalmente adesso, essendo più vicini, ci accorgiamo di essere più lontani. Questo è un po’ un paradosso dei nostri tempi, più siamo vicini, più siamo nella stessa casa, nello stesso teatro, più ci accorgiamo che siamo diversi, quindi lontani. C’è una questione culturale, la questione del rapporto con la cultura occidentale, con la cultura moderna. I nostri fratelli dell’Oriente si domandano: “Cosa significherà per la nostra Chiesa, per le nostre Chiese consegnarci nella mani dell’Occidente? Perché tante volte la parola stessa ecumenismo crea paure e non la si vuole usare? Crea paure perché una certa idea fa dire che nell’Occidente c’è il secolarismo, la crisi dei valori, la deriva morale. Cosa succederà se questo avverrà anche da noi? Dobbiamo fare un altro muro o tentare un dialogo?” Sappiamo che l’Oriente, attraverso la Diaspora, ha creato un dialogo, pensate all’Istituto S. Sergio di Parigi per dire un esempio; il dialogo è avvenuto, ma era una minoranza. Adesso sono di più i popoli che si possono incontrare. Se passiamo al rapporto cattolici e ortodossi, questa è una realtà molto in scena oggi. Ho visto, durante il Sinodo dei vescovi per l’Europa l’Ottobre scorso, che quando si parlava di ecumenismo, la questione era tra cattolici ed ortodossi, paradossalmente oggi il mondo cattolico della Riforma sembra un po’ più lasciato a parte, perché il mondo ortodosso è entrato sulla scena e ci pone delle domande. Le domande che gli ortodossi pongono ai cattolici sono soprattutto tre: la prima questione è quella definita del proselitismo. In Russia, per esempio, nel vuoto del Comunismo, c’è stata una invasione delle sette provenienti dagli Stati Uniti, con grossi poteri finanziari alle spalle. Però il popolo di base ortodosso, che ha avuto quaranta – cinquant’anni di impossibilità di formarsi o aggiornarsi, non riesce a distinguere chiaramente tra una setta che viene dagli Stati Uniti, una chiesa del mondo protestante o la Chiesa cattolica. Dentro il calderone di questi movimenti finiscono tutti: finiscono i protestanti, così come finiscono i cattolici. Il problema del proselitismo è chiaro anche per gli ortodossi, rivolto essenzialmente a questi gruppi religiosi. D’altra parte c’è anche il problema, reale, del confronto con la Chiesa cattolica, in quanto fa “paura”, per la sua organizzazione, la sua preparazione. L’altro grande nodo è la questione di quelli che chiamiamo i “cattolici orientali” o greco–cattolici o uniati, parola non bella, non accettata dai nostri fratelli cattolici. Questi cattolici sono comunità che vivono in Oriente, di tradizione orientale, che nel corso della storia, per vari motivi, si sono uniti a Roma diventando cattolici nel senso pieno del termine. Questi cattolici non sono sopportati dal mondo ortodosso, che li ritiene dei traditori, dall’altra parte il mondo ortodosso ha paura che questa sia una strategia della Chiesa cattolica per conquistare gli ortodossi. Noi abbiamo dei cattolici che hanno conservato la tradizione ortodossa, la liturgia orientale, infatti hanno, per esempio, il sacerdozio sposato. E’ chiaro che questa non è l’intenzione cattolica, loro sanno che nel ’93 la commissione mista ortodossa – cattolica ha pubblicato un documento, in Libano, in cui i cattolici hanno chiaramente dichiarato che l’uniatismo non è il metodo dell’ecumenismo che noi seguiamo, anche se i fratelli cattolici orientali esistono, sono fratelli nostri a titolo pieno. L’ho visto anche durante il sinodo, per i vescovi latini era una sorpresa trovarsi insieme ai fratelli vescovi greco – cattolici, tutti sanno che esistono, però un conto è sapere che esistono, un conto è stare insieme e discutere di tutti i problemi con questi fratelli vescovi che hanno un’altra tradizione. L’altro tema, forse il tema teologico più serio, è la questione del primato di Pietro o la questione del servizio all’unità. Qui c’è questo confronto tra primato e sinodalità, proposto dal mondo ortodosso, come organo in grado di servire l’unità. Sui rapporti tra i cattolici e i protestanti, che in questo momento sono leggermente più in ombra, i nodi fondamentali sono quelli del ministero ordinato, mentre con gli anglicani c’è un dialogo teologico molto forte, quasi una sintonia, una simpatia. L’ordinazione femminile da parte della Chiesa anglicana è stato un nodo che ha creato delle difficoltà anche all’interno della Chiesa anglicana stessa. L’altra questione, molto dibattuta e tornata in auge dopo la firma della dichiarazione comune luterano–cattolica sulla giustificazione firmata ad Augsburg nell’Ottobre scorso, è il problema stesso dell’eucarestia: il prossimo passo dovrà essere l’intercomunione o almeno l’ospitalità eucaristica. Il mondo tedesco e svizzero insistono molto su questo passo da fare dopo aver trovato un accordo sulle verità di fondo circa la giustificazione. L’altro sarebbe l’intercomunione, altro nodo molto dibattuto. Ho già citato per gli ortodossi i problemi etici; anche per il mondo protestante oggi i problemi morali sono diventati di grande attualità. Noi lo vediamo, ad esempio, quando ci presentiamo davanti alle istituzione europee: a Bruxelles o davanti al Parlamento di Strasburgo. Le Chiese sono ascoltate, sono cercate dalle istituzione pubbliche perché ci si rende conto di come l’Europa ci sarà solo se avrà un’anima. Sanno che la Chiese hanno un contributo unico da dare, soprattutto possono dare quel fondamento etico di cui la società ha bisogno, ma che la società, da sola, non è in grado di darsi. Però, se ci presentiamo sui problemi etici divisi tra di noi, ovviamente, creiamo altri problemi. In questi tempi, in certe aree soprattutto della Riforma, la questione legata al giubileo, alle indulgenze, è tornata in auge, il dibattito si è aperto in molti paesi, anche in Italia. Vi elenco alcuni luoghi che possiamo chiamare di crisi, ma probabilmente li potremmo leggere come dei luoghi che ci richiedono una crescita; un passo avanti, non un passo indietro. Accanto a questi nodi noi vediamo dei segni che ci dicono che il cammino è già avviato verso una sponda, un porto nuovo che noi non vediamo ancora. A me piace sempre ripartire da un’esperienza europea, un’esperienza con cui mi sono anche trovato a lavorare e di cui ho parlato qui esattamente quattro anni fa: l’esperienza dell’Assemblea Ecumenica di Graz. Abbiamo avuto una sorpresa: noi pensavamo ad un’assemblea di delegati delle chiese e pian piano abbiamo visto crescere a sorpresa, attorno, un popolo ecumenico. Ci ha un po’ sorpreso vedere che la cultura ecumenica era una realtà molto diffusa, una realtà che si stava lanciando, che stava diventando capillare. Pensando ad altri fatti mi viene in mente il viaggio di Giovanni Paolo II in Romania. E’ un primato storico. Io, quando sono arrivato giovedì sera a Bucarest, ho avuto occasione di parlare sia con gli ortodossi che con i greco–cattolici, sia con i cattolici-latini ungheresi. Quelli dell’area ungherese erano molto arrabbiati con il Papa perché non visitava le loro chiese e quindi veniva a dare ragione agli ortodossi; i greco–cattolici si erano già lamentati prima e il Papa però li aveva tranquillizzati; gli ortodossi ovviamente temevano il viaggio, avevano rischiato ad invitare il Papa, ma temevano la reazione di Mosca, un’eventuale affermazione della Chiesa cattolica in Romania. Io ho assistito a quello che possiamo chiamare un miracolo grazie al carisma del Papa. Ricordo il discorso al Patriarcato, quando il Pontefice ha iniziato dicendo al Patriarca: “Io ho sognato tanto questo momento, l’ho atteso tanto e tutte le volte che pensavo a questo momento pensavo al Vangelo, pensavo al momento in cui Andrea ha visto il Messia.” – Voi sapete che il Patriarca, in qualche maniera, è successore di Andrea, l’evangelizzatore, colui che è andato da Pietro e gli ha detto di aver visto il Messia – “Io sono venuto qui da Andrea perché mi dica: io ho visto il Messia. Io sono venuto qui per contemplare il volto di Cristo nella vostra Chiesa e per ringraziarvi perché voi, in questo secoli, siete stati fedeli al Vangelo”. Ad un certo punto il Papa si è rivolto all’anziano Patriarca, 84 anni, lo ha guardato e gli ha detto: “Chi ci perdonerà questa mancanza di testimonianza, come farà ancora il mondo a credere nel Cristo, se noi continuiamo ad essere divisi”. Io in quel momento ho avuto l’impressione quasi che il Papa dicesse: “Siamo tutti e due anziani, un giorno o l’altro ci troveremo davanti al Padre dei Cieli, di cosa ci chiederà conto? Ci chiederà conto delle Chiese e della divisione.” Si sente che il Papa ha nel suo cuore questa realtà. Eravamo alla celebrazione finale del Papa, all’unica celebrazione che il Pontefice ha fatto in pubblico, davanti a trecentomila persone, tra cui molti ortodossi. Arrivato il Papa tra un grande sventolio di bandiere, dalla folla si leva un grido: “Unità!” Da quel momento in poi tutta la folla ha preso a ripetere questo ritornello. Il Papa l’ha citato di nuovo dicendo: “Come è successo a Bucarest”. Poi ha invitato il Patriarca ad avvicinarsi e ha detto: “Noi vi promettiamo che fino alla fine dei nostri giorni ci impegneremo a far sì che l’unità si realizzi. Io invito Teoptis a Roma perché possiamo, almeno fra noi, fare un passo avanti.” Noi assistiamo a questi fatti che sono dei segni, come ad Augsburg la firma della dichiarazione comune. Anche qui voi sapete che si sono susseguiti trent’anni di lavoro teologico molto serio, di dibattiti fino al giorno della firma; forse avete seguito il fatto che, duecento e più, teologi tedeschi hanno ancora espresso enorme perplessità. La stessa Chiesa cattolica con Ratzinger ha fatto delle osservazioni. Poi, partecipando all’evento, abbiamo colto che l’evento era capitato: c’era qualcosa di nuovo. Qualche giorno fa parlavo con i responsabili della Chiesa anglicana, i quali dicevano: “Su un documento simile noi siamo pronti a firmare.” Ciò vuol dire che lo Spirito spinge al di là di tutto ciò che noi possiamo immaginare. Io ho partecipato al Sinodo per i Vescovi d’Europa, il secondo sinodo speciale e potrei dire che, durante il sinodo, il tema ecumenico è stato il tema più trattato e forse il più positivamente trattato. Nel 1991, al primo sinodo, il Patriarcato di Mosca ha rifiutato di mandare un delegato per polemica e il rappresentante di Costantinopoli aveva fatto un intervento, davanti al Papa, fortemente polemico. L’atmosfera dell’ultimo sinodo era del tutto diversa, era un atmosfera veramente bella, erano invitati dieci delegati delle altre chiese, c’erano i responsabili della Kek, conferenza delle Chiese d’Europa, con cui noi collaboriamo molto. Un momento molto commovente è stato quando il vescovo ortodosso rumeno Josif, all’inizio del suo intervento, ha detto: “Io non ho un mandato per dire questo, però sono arcivescovo e quindi penso di aver diritto di dirlo, io, innanzitutto, sono qui per chiedere, come ortodosso rumeno, perdono del male che la nostra Chiesa ortodossa ha fatto ai greco–cattolici della Romania. Chi conosce la situazione sa cosa vuol dire questo. Avevo dei vescovi greco–cattolici accanto con le lacrime agli occhi, non riuscivano a credere. Questo vescovo ortodosso ci ha dato un esempio enorme, qui dobbiamo lavorare sulla via del perdono, chiedere perdono e darci perdono. Potrei raccontare altri aneddoti: sono stato a pranzo, dal Papa, con i rappresentanti delle altre Chiese e il Papa, chiedendo agli altri cosa pensassero del sinodo, infine arriva al rappresentante della chiesa greco–ortodossa. Il Papa coltiva il grande progetto di andare alle sorgenti della fede; voleva andare a Ur dei Caldei, andrà probabilmente in Febbraio in Egitto sul Sinai, a Marzo a Gerusalemme e nel progetto c’era anche di andare ad Atene all’Aeropago. Questo ha suscitato in Grecia nei mesi di Luglio e Agosto scorsi una reazione molto dura, hanno fatto sapere al Papa che la sua visita non era gradita, perché non vogliono un Papa eretico. Il Papa, una volta visto il rappresentante della chiesa greca, gli dice: “Ma una volta S. Paolo aveva predicato all’Aeropago, dopo questi discorsi gli dissero che su quegli argomenti lo avrebbero voluto sentire un’altra volta e allora anche al Papa hanno mandato a dire che lo vorranno sentire un’altra volta”. C’era un clima bello, in cui si è riso e il vescovo ortodosso gli ha replicato: “In Grecia succedono spesso molti terremoti e questa notizia è stata per noi come un terremoto”. Poi il Papa ha commentato: “Verrò, verrò, o verrà poi un altro”. Il sinodo stesso, quindi, è stato un fatto ecumenico. Questi sono solo dei segni, ma l’elenco potrebbe essere ancora più lungo, sono dei segni attuali che ci dicono come il cammino vada avanti nonostante i nodi che abbiamo. Noi siamo abbastanza convinti che l’ecumenismo debba procedere, siamo abbastanza convinti che dobbiamo andare verso una ecclesiologia di comunione, siamo convinti che questa sia una volontà del Signore però, a volte, sembra che ci manchi come la chiave, il segreto perché queste intuizioni, anche teologiche ma non solo, funzionino. Se dovessi dire, anche un po’ a livello personale, dove sta, a mio parere, il punto è che noi, probabilmente, abbiamo bisogno di una lente d’ingrandimento che ci riconcentri sul Vangelo. Mi sembra che ad Augsburg abbiamo firmato il documento perché improvvisamente abbiamo avuto il coraggio di rileggere tutto il discorso ripartendo dalla scrittura, dalla rivelazione, ripartendo dall’origine abbiamo scoperto che abbiamo delle verità di fondo su cui siamo d’accordo. Allora, questo non sarà forse il metodo che dobbiamo imparare per tutte le questioni? Cioè, ripartire radicalmente dalla condizione, dal Vangelo e aver la calma di prendere quella luce e con quella luce provare ad illuminare tutte le questioni. Mi sembra che, dal Vangelo, noi troviamo il punto di vista, l’occhio, per capire le cose. Mi accorgo sempre di più che tutto dipende dall’occhio che hai, è l’occhio che conta. Torno al sinodo dei vescovi: la prima settimana i quotidiani scrivevano “I vescovi al capezzale dell’Europa”, sembrava dominasse il pessimismo; la seconda settimana sembravano esistere due squadre, quella dei pessimisti e degli ottimisti, alla fine esce un messaggio che è tutto un inno alla speranza. Mi sembra che la svolta sia avvenuta nel momento in cui i vescovi, grazie allo Spirito Santo, si sono chiesti con quali occhi avrebbero dovuto vedere le cose, se solo con occhi statistici, di potere, di divisione di territorio o con l’ottica della fede. Il vescovo di Dublino ha fatto una battuta simpatica: “Se leggiamo le cose sempre a livello statistico, prendiamo per esempio la prima comunità cristiana, gli Apostoli e Gesù, sul calvario ce n’era uno, statisticamente l’8,5%! La statistica, quindi, relativizzava un po’ la questione. Invece nel momento in cui noi, vescovi per primi, vediamo le cose con gli occhi della fede, possiamo riscoprire la speranza, possiamo vedere che l’unità esiste già. Non dobbiamo inventarla noi, perché l’unità è già capitata. L’avvenimento della riconciliazione è già avvenuto. Noi non abbiamo una speranza, le Chiese sono già unite perché il figlio è già venuto sulla Terra, ha già pagato le guerre di religione, ha già pagato tutti i rifiuti che ci continuiamo a fare, ha già pagato i sospetti che abbiamo tra di noi; li ha già pagati tutti, fino alla croce, fino alla morte, fino all’abbandono sulla croce. Lui ha già pagato tutto e questo suo pagare è stato il suo modo per dire “non c’è amore più grande di chi dà la vita”. Penso che un punto su cui dobbiamo sempre tornare ad imparare è il Cristo e mettere gli occhi, innanzitutto, nello sguardo del Cristo Crocifisso. Il Cristo Crocifisso è andato a cercare i dolori dell’umanità, a cercare le lacrime e ad assumersele. Allora penso che anche noi dobbiamo essere persone che devono avere questo occhio, che vanno a cercare paradossalmente le divisioni, vanno a cercare dove sia oggi crocifisso Cristo. Cristo sarà crocifisso nei lager, nel Kossovo, ma anche crocifisso nelle divisioni tra i Cristiani e crocifisso nel fatto che non possiamo fare la comunione insieme e nel fatto che non ci capiamo in certe condizioni etiche. Allora avere gli occhi del crocifisso è sapere riconoscere gli occhi del crocifisso, ma se è il crocifisso e già abita le divisioni, se queste divisioni sono già abitate dal crocifisso, allora sono già abitate da Dio. Nel momento in cui lo riconosciamo noi entriamo con lui dentro la divisione. Ma lui ha assunto la divisione per amore, l’ha portata dentro di sé e l’ha riempita talmente di amore da risorgerla. Il muro in lui è già caduto, la riconciliazione è già capitata. Allora, se noi ci mettiamo gli occhi del risorto, noi vediamo che la riconciliazione c’è già, improvvisamente la scopriamo anche tra di noi, il risorto ci fa vedere che lui è già presente nella Chiesa cattolica, ma è presente anche nella Chiesa della Riforma, così come in quella ortodossa. E’ lui che è presente e se noi abbiamo gli occhi del Risorto, noi lo vediamo e lui ci fa vedere che è presente anche in tutti i gesti di riconciliazione che tentiamo di fare: lo riconosciamo nella firma di Augsburg, lo riconosciamo durante il sinodo della Chiesa cattolica, nell’incontro dei Patriarchi; lo riconosciamo in tutti i segni di riconciliazione perché noi abbiamo gli occhi per vedere la riconciliazione e quasi quasi noi ci dimentichiamo della storia del male, perché sappiamo che la storia del male non è vera storia, la vera storia è quella del bene. Noi dobbiamo avere sempre occhi vigili per andare a cercare dovunque lo spazio del bene, i passi di Dio. Mi sembra che si possano aprire alcune piste, ne elencherò alcune. La prima prospettiva che si apre, guardando le cose con la luce della Pasqua, è la prospettiva del dialogo. E’ chiaro, ma dobbiamo ancora ripeterlo, perché anche nella Chiesa cattolica ci sono persone che temono il dialogo, perché se il dialogo è mal capito, male interpretato, può far paura. C’è allora chi dice: “Il dialogo apre il relativismo, dimentica le differenze”. Mi sembra che non dobbiamo rinunciare al dialogo, ma riapprofondire e andare a scoprire che cosa esso sia esattamente. A me piace sempre guardare l’icona di Emmaus, che è stata l’icona del sinodo, per intuire cos’è il dialogo; il dialogo è quando, tra i due, comincia a camminare il terzo, quel terzo è il risorto, è lo spirito del risorto ed è quel terzo che comincia gli “ermeus” alle Scritture, a commentarle, è lui il teologo, come è lui che, alla fine, celebra l’eucarestia, la Cena. Lì capita un dialogo, ma il dialogo chi è? Alla fine, l’esito del dialogo è Gesù Cristo stesso, è il Risorto stesso che cammina fra di loro. I due che parlano diventano lo spazio perché capiti la Verità. Il dialogo non è il contrario della Verità, dobbiamo uscire, io credo, da questa dicotomia, ma se il dialogo non fosse coincidente in qualche maniera alla verità, non ci interesserebbe, o non ci interesserebbe la verità, o non ci interesserebbe il dialogo. Noi dobbiamo approfondire il dialogo finché siamo sicuri che il dialogo è il luogo dove capita la verità, persuasi, consci, che la verità è al di là di noi, che non siamo noi la verità. La verità è al di là di noi, è Gesù Cristo stesso, Dio stesso. Quindi, una prima pista consiste nell’approfondire il dialogo. Se non lo facciamo fra cristiani, come faremo ad affrontare un dialogo con i fratelli musulmani? O come faremo ad affrontare i grandi dialoghi con la cultura dell’Asia, che poi è il nostro futuro? Come faremo a fare un dialogo o un incontro se noi non sappiamo nemmeno di cosa si tratti, se non l’abbiamo sperimentato fra di noi. Una seconda pista è il bisogno di un po’ spazio ecumenico nuovo, a diversi livelli. Se guardiamo l’Europa, il primo livello è uno schema Est–Ovest che non funziona. Oggi noi non possiamo più fare ecumenismo o da occidentali, o da orientali. Sarebbe bello che ci ponessimo al di là di questo dualismo per metterci insieme: esistono sì contraddizioni, culture diverse, ma infine siamo insieme. Quindi è necessario uno spazio nuovo che superi questo divario, un grosso limite dell’Europa. Un altro luogo dove, mi sembra, occorra questo spazio sono le altre regioni della Terra, il Sud del mondo, gli altri continenti. Quando ero nello Zimbabwe, per il Consiglio, ad un certo punto una donna del Togo, una pastora, viene verso di me, mi prende per le spalle e mi dice: “ma qualcuno può spiegarmi chi sono questi ortodossi e cosa vogliono?” Lei, del Togo, non aveva nessuna idea dei nostri dibattiti che qui stiamo facendo. Oppure una ragazza giovane degli Stati Uniti, probabilmente di una Chiesa Pentecostale, che dice: “io sono curiosissima di ciò che si dibatte qui, ma non capisco niente”. Questa ragazza mi sembrava così lontana, tanto che dicevo che si doveva creare uno spazio in cui nel mondo entrino queste altre voci sulla scena. Un altro spazio che vorrei sottolineare, è che probabilmente dobbiamo ripensare anche gli spazi degli organismi ecumenici: il Consiglio Mondiale della Chiesa si sta ripensando. Non so cosa vuol dire questo, probabilmente, dobbiamo conservare i dialoghi bilaterali che sono utili, importanti a livello teologico e dobbiamo sempre dare più spazio a dialoghi almeno trilaterali, insieme. E’ diverso se parlo io cattolico e tu riformato ed è diverso se parliamo insieme. Certi problemi vengono affrontati in maniera del tutto diversa. Il Patriarcato di Mosca vorrebbe un forum e lo vorrebbe secondo le Chiese confessionali tradizionali: Ortodossa, Cattolica e quelle tradizionali della riforma. Per la mia esperienza, tante volte nella teologia si fatica a procedere, non per motivi teologici, ma per altri motivi, ci sono dei sassi, degli ingombri sul terreno. Quindi, perché abbiamo sospeso i lavori della Commissione mista ortodossi–cattolici? Non tanto per motivi di carattere teologico, ma per la questione del proselitismo, per la questione storica degli uniati. Su questo ci siamo scontrati, ma adesso, per fortuna, abbiamo riprogettato di incontrarci e forse proprio nel mese di luglio sembra che a Baltimora si ritroverà la Commissione. Spesso ho l’impressione che il dialogo teologico sia bloccato da altri elementi politici; noi dovremmo sgomberare il campo e penso che la teologia avrebbe uno spazio più libero per fare il lavoro teologico che le è proprio. L’ultimo spazio che cito è riguardo al ripensamento completo di spazio ecumenico. Si dovrebbe ripensare a cos’è l’unità fra le Chiese e come questa unità si concilia con le diversità, in modo che le diversità abbiano come fine di creare qualcosa di nuovo, quindi l’unità, ma l’unità non è per niente la fusione o la distruzione delle diversità, ma è la realizzazione delle differenze, delle identità. Dovremo probabilmente ripensare molto alla luce della teologia trinitaria, di un Dio che è Uno e che è Diverso nello stesso tempo, ad uno spazio ecumenico. Una terza prospettiva è quella che abbiamo definito, a Graz e dopo Graz, “l’ecumenismo del popolo”. Questo è l’ecumenismo dei credenti, di tutti i credenti. Noi stiamo vedendo che si fanno dei passi in questa direzione, cioè a livello di diffusione, vediamo quante diocesi, quante parrocchie, quante comunità cominciano questo lavoro di tipo capillare. Questo, secondo me, è il lavoro più serio che esista, perché questo fa crescere il livello a tutti. Io vorrei qui spezzare ancora una volta una lancia per l’Italia, perché noi non abbiamo una tradizione ecumenica a livello popolare, perché lo abbiamo sempre ritenuto un problema non dell’Italia, in quanto paese cattolico. Noi sappiamo di gemellaggi tra diocesi che si diffondono; questo ci dà speranza. L’ultima prospettiva che volevo indicare l’ho di nuovo colta durante il sinodo. Noi come cattolici abbiamo ora una certa esperienza di sinodalità, abbiamo anche concluso i sinodi dei continenti, i sinodi regionali; forse è giunto il momento per noi e, lo si è visto anche a Roma, di fare una riflessione sul sinodo, forse dobbiamo approfondire, rivedere, ripensare anche il metodo della sinodalità e fare un passo avanti. Questo non lo dico io, era una realtà che c’era nell’aria a Roma e che tanti dicevano. Questo ha conseguenze ecumeniche credo, perché sappiamo che più approfondiamo la sinodalità e più troviamo un tema comune con il mondo ortodosso, più troviamo una sintonia con tutto il mondo della riforma protestante, perché uno dei nodi è veramente il modo di servire l’unità della chiesa. Stando con i fratelli protestanti, ho visto che non è che i nostri fratelli non gioiscano dell’unità, noi tutti vogliamo l’unità, ma è il come che dobbiamo cercare. La sinodalità, dunque, è una cosa da approfondire, io però devo dire che anche a Roma durante il sinodo ho percepito la grandezza di quello che noi cattolici chiamiamo la figura del Papa, cioè uno che rappresenti l’unità. Io l’ho notato in questo: se noi mettiamo insieme duecento vescovi e discutiamo sull’ecumenismo, noi avremo cento vescovi che sull’ecumenismo vorrebbero già l’inter – comunione, altri cento per cui questo sarebbe la pura eresia. Allora il sinodo deve trovare un consenso tra i vescovi che consisterà nel dire quale sia lo stato della Chiesa cattolica e cercare di fare un passo avanti, ma il sinodo dovrà trovare un consenso. Il Papa ascolta, vive della sinodalità e poi è chiamato ad esprimere non solo la somma delle parti. Il Papa può fare un passo profetico che il sinodo o una singola conferenza episcopale difficilmente possono e potranno fare.
NOTA: Testo, non rivisto dall’Autore, della conferenza tenuta a Brescia il 21.1.2000 su invito della Cooperativa Cattolico-democratica di Cultura.