Nei primi anni del II sec. d.C. Plinio il Giovane, ex console e influente senatore ,costatava con amarezza che a Roma si era ormai instaurato un regime dittatoriale :"Tutto è nelle mani di un uomo solo, che si è assunta ogni cura e fatica per l’utilità comune". Plinio veniva dall’Italia Settentrionale, e in periferia il rimpianto per il costume e le istituzioni repubblicane era più vivo che alla capitale. In una lettera lo stesso scrittore rievoca i tempi, in cui l’educazione politica si trasmetteva da padri in figli e attraverso la partecipazione pubblica. Tutto questo era andato perduto. Bisognava anzitutto restituire dignità alle istituzioni: recentemente anche il senato si era disonorato, scrivendo volgarità e scherni nelle schede di votazione segreta. Bisognava poi prendere parte con impegno ai processi politici e all’amministrazione pubblica, centrale e locale ,pur sapendo che si trattava di benigne concessioni del potere. Come si poteva allora influire proprio su questo punto? Plinio pensa non a delineare dal nulla un modello di principe, ma di foggiarlo partendo dall’attuale, che egli giudica ottimo. In effetti Traiano aveva rispetto della legalità, in netto contrasto con la gestione eslege di Domiziano. Nasce così il panegirico, che avrà grande fortuna in seguito: anche diretto a personaggi come Costantino e Teodosio scadrà però nell’adulazione più smaccata. Anche quello tracciato da Plinio è un quadro idealizzato, nell’illusione che, attribuendo pubblicamente certe virtù al principe, questi si senta impegnato a realizzarle: appare così un personaggio cordiale e popolare, addirittura democratico: riceve tutti con facilità, entra a piedi nella capitale, gestisce e rispetta le istituzioni tradizionali, presiede i processi, garantisce le libertà personali, rifiuta il culto della personalità. Anche la sua clemenza non è capricciosa, come spesso quella degli autocrati, ma ragionata e non disgiunta da fermezza. Nonostante la perentoria affermazione che per Traiano "le leggi sono superiori all’imperatore", il quale si sente ad esse sottoposto come ogni altro cittadino, si avverte tra le righe il disagio della situazione di fondo, come si legge meglio in quest’altra battuta :"Tu ordini di essere liberi, lo saremo. Tu ordini di manifestare liberamente le nostre idee, lo faremo". Emerge dunque la consapevolezza che tutto dipende dalle qualità del principe. Si capisce la reazione sdegnata del libertario Alfieri alla lettura di questo testo. Proprio la qualità della persona era stato il fondamento della concezione del potere mezzo secolo prima nel pensiero di Seneca, difficile da sintetizzare perché asistematico. Il filosofo non discute la monarchia come regime, perché nella concezione stoica essa viene considerata una sorta di proiezione sulla terra dell’ordinamento del cosmo, il quale è governato da un’Intelligenza superiore unica. Per realizzare questo principio però l’imperatore dovrebbe essere un saggio, capace di governare secondo ragione e natura. A tale scopo è necessaria l’azione dell’intellettuale, che nel ruolo di maestro e consigliere influisce sulla personalità del principe. Se tale influenza è buona, il governo sarà buono. Questa influenza positiva sostituisce le garanzie costituzionali e l’equilibrio dei poteri, assicurando alla fonte la correttezza dei comportamenti, ossia l’osservanza delle leggi morali, che hanno valore universale. La teoria non è però in grado di indicare il rimedio, se il sovrano devia o prevarica. L’unica speranza allora è riposta nella clemenza, che dovrebbe essere esercitata, perché utile a guadagnare il favore dei sudditi e assicurare la tranquillità generale. Seneca stesso dovette verificare la debolezza del suo nobile tentativo di stabilire la collaborazione fra l’intellettuale e il potere dall’interno del sistema (rifiutando la contrapposizione frontale degli stoici dell’opposizione). Quando Nerone salì sul trono, il filosofo da precettore si trasformò in ministro e l’impero conobbe un quinquennio felice. Ma quando il principe diede sfogo ai suoi peggiori istinti e ascoltò altri consiglieri, svanì ogni speranza di governo liberale o almeno razionale. Il filosofo si ritirò a vita privata, senza per questo evitare la condanna a morte. A sua volta il principe finì come spesso i tiranni antichi, vittima della violenza di una congiura. Prima ancora di Seneca aveva mostrato fiducia nella ragionevole clemenza del dittatore anche Cicerone, abbozzando una teoria per qualche verso simile. L’occasione gli fu offerta dal perdono che Cesare, dittatore e padrone assoluto di Roma, aveva concesso a Marcello, repubblicano convinto e deciso anticesariano. Proprio costui aveva proposto qualche anno prima di togliere a Cesare il governo della Gallia prima della scadenza del mandato, perché aveva intuito la pericolosità per le istituzioni tradizionali di un uomo, che in Occidente stava gettando le basi della potenza personale da contrapporre a quella orientale di Pompeo. Il perdono a un avversario di tal fatta spinse Cicerone a rompere il silenzio, che osservava in pubblico dall’avvento di Cesare al potere. Il discorso in favore di Marcello riesce una giustificazione della dittatura, fondata sul consenso generale e necessaria per la ricostruzione postbellica, ma traccia soprattutto un quadro dei meriti del dittatore: egli ha riportato molte vittorie anche per merito della fortuna e dei suoi collaboratori, ma non deve a nessuno la vittoria su se stesso e i propri rancori, quindi la gloria della clemenza. Di questa peraltro l’oratore cerca di dimostrare l’utilità anche per la sicurezza personale del dittatore e soprattutto per la sopravvivenza della sua fama. Nonostante il perdono ufficiale Marcello, che era forse più lungimirante e meno emotivo di Cicerone, esitò a lungo prima di abbandonare l’esilio, e lo fece solo per le insistenze del fratello, che si era abbassato per lui di fronte a Cesare. Ma non giunse mai a Roma. Un servo l’uccise durante il lungo viaggio, non si sa bene perché. Un giallo concluse così la vicenda. Cicerone riscattò poi il suo momentaneo cedimento alla fiducia nel dittatore con la lotta condotta dopo il cesaricidio in difesa della libertà repubblicana. Già allora la lezione sulla dittatura liberale era riuscita vana.
Giornale di Brescia,18.8.2005.