Tenuto conto dell’ora e della sostanza particolarmente densa delle relazioni che abbiamo sentito fino ad ora, mi limiterò a formulare alcune osservazioni sui temi che, più o meno esplicitamente, sono stati trattati negli interventi precedenti.
Il primo polo su cui vorrei centrare la vostra attenzione concerne un problema già trattato dal Sen. Carli, ma su cui ritengo si possa svolgere opportunamente qualche ulteriore approfondimento: l’atteggiamento del magistero ecclesiastico nei confronti del capitalismo, cioè del sistema in cui viviamo.
Il secondo spunto, suggeritomi da Mons. Charrier, è quello della collocazione della Sollicitudo rei socialis nel quadro della dottrina sociale della Chiesa.
In chiusura farò alcune considerazioni sul tema dell’etica dei comportamenti, sviluppato nella seconda parte dell’enciclica.
1 – Il documento pontificio, in forma apparentemente simmetrica, prende le distanze e muove una dura critica nei confronti dei due grandi sistemi economico-politici che dominano il mondo. Prima della promulgazione di questa enciclica, ed in particolare in occasione di un convegno tenutosi l’anno scorso a Bologna sul tema “Denaro e coscienza cristiana”, avevo avuto occasione di esprimere l’opinione che, anzichè insistere in rifiuti pregiudiziali e prevalentemente teorici nei confronti dei sistemi economici (e segnatamente di quello seguito nel mondo occidentale), convenisse alla Chiesa richiamare i cristiani impegnati nell’attività economica al rispetto dei principi etici e dell’ispirazione evangelica nei loro comportamenti. Ciò anche perché, sul piano di una analisi storico-empirica serena, imparziale, è difficile negare che il sistema “neo-capitalistico” o meglio “di economia di mercato”, pur con tutte le sue imperfezioni, ha dimostrato una singolare capacità di favorire sia un’elevazione delle condizioni materiali di vita, sia una diffusione e un consolidamento della libertà democratica nei paesi dove ha trovato applicazione.
Ora, nella Sollicitudo rei socialis ci si trova di fronte, in prima apparenza, ad una ripresa e ad una conferma dei tradizionali giudici di condanna congiunta del sistema liberistico e di quello collettivistico.
L’affermazione che la conflittualità in atto tra Occidente e Oriente costituisce un grave ostacolo al processo di sviluppo mondiale, è accompagnata da giudizi molto gravi, laddove si sostiene che in ognuno dei due blocchi la contrapposizione reciproca è – cito testualmente – “ingigantita, oltre il lecito, da motivi della propria sicurezza”. E, a questo proposito, cade nei confronti dell’Occidente una denuncia estremamente pesante, per l’appunto simmetrica rispetto a quella rivolta al blocco orientale, ossia quella di nascondere “dentro di sé, a suo modo, la tendenza all’imperialismo, come si dice comunemente, o a forme di neo colonialismo”.
Tale denuncia non impedisce a Papa Giovanni Paolo II di ricordare che la Chiesa non ha soluzioni tecniche da offrire al problema del sottosviluppo e che non intende proporre sistemi o programmi economico-politici, così come non sostiene una terza via tra capitalismo liberista e collettivismo marxista. A ben vedere, allora, rimane in sospeso una domanda fondamentale a cui rispondere: c’è una condanna nei confronti sia di un sistema sia dell’altro, e non c’è, allo stato, una proposta autonoma da parte del pensiero cattolico (perché non gli compete) di vie alternative. Qual è la via d’uscita?
Ecco, io cercherò di dare una risposta a questa domanda, per integrare il discorso che ha fatto su questo tema il Sen. Carli. E anticipando la conclusione, dirò subito che è solo apparente nell’enciclica la posizione critica simmetrica nei confronti dei due sistemi. Valgono, al riguardo, alcune puntuali considerazioni.
La prima constatazione è la seguente: non è più ripetuta, nei confronti del sistema occidentale, una condanna pregiudiziale motivata da ragioni di principio. Questo è un punto (su cui tornerò più avanti) da non trascurare, giacché tradizionalmente la condanna della Chiesa cattolica nei confronti del sistema economico liberale trovava radici e fondamento precisamente sul piano dei principi.
Una seconda constatazione: escludendo la proposizione di terze vie, il Papa suggerisce e raccomanda che si operi all’interno dei sistemi, affinché gli stessi, attualmente carenti ed imperfetti, siano migliorati e resi idonei ad affrontare la sfida dello sviluppo globale. L’enciclica afferma che tali mutamenti sono urgenti e indispensabili per la causa dì uno sviluppo comune a tutti: in ciò sembra lecito cogliere un invito del Pontefice al perseguimento di riforme interne ai due sistemi, quale strada più realistica per il superamento dell’attuale situazione di impasse dello sviluppo. Un siffatto processo di revisione, da cui può anche scaturire un riavvicinamento fra i due blocchi, sembra in qualche misura già avviato – osserva l’enciclica – laddove sono riscontrabili segni di ravvedimento circa ì guasti provocati all’economia di entrambi i sistemi dal carico eccessivo delle spese militari, nonché (e qui il riferimento concerne chiaramente uno solo dei due sistemi) dal burocratismo e dalla intrinseca inefficienza.
Un terzo punto, che mi limito ad accennare, dichiarandomi perfettamente d’accordo con la tesi prima sviluppata dal Sen. Carli, è quello della situazione esplosiva dì povertà connessa al problema del sottosviluppo di intere popolazioni. Nell’attuale contesto planetario, essa rappresenta un problema drammatico, che esige da entrambi i sistemi politico-economici (quindi anche da parte di quello occidentale) l’impegno ad un ripensamento radicale.
Infine, sempre per quanto riguarda i giudizi espressi dall’enciclica nei confronti dei sistemi economico-politici deve essere sottolineato come la Sollicitudo rei socialis, pur comprensibilmente preoccupata di apparire come frutto di una riflessione super partes al fine di raggiungere l’ascolto di tutti i destinatari, contenga la novità di un pronunciamento chiaro a favore del diritto alla libera iniziativa economica. Questo diritto viene presentato come valore fondamentale da tutelare, non solo per il bene del singolo, ma anche per il bene comune. All’enunciazione di questo principio, tra l’altro, si perviene in modo nuovo rispetto al passato, attraverso un’argomentazione di carattere empirico-storico, non più di ordine teoretico e deduttivo. Le parole testuali dell’enciclica a questo riguardo sono le seguenti: “L’esperienza ci dimostra che la negazione di un tale diritto, o la sua limitazione in nome di una pretesa eguaglianza di tutti nella società, riduce, o addirittura distrugge di fatto lo spirito d’iniziativa”, determinando un livellamento verso il basso e consentendo all’apparato burocratico di ridurre tutti i cittadini “in una posizione di dipendenza quasi assoluta”.
A mio avviso, l’importanza di questo pronunciamento, è tanto maggiore in quanto esso è dichiaratamente fondato sull’esperienza, cioè su un’analisi storico-pragmatica, che in quanto tale valorizza l’apporto delle scienze politiche, delle scienze economiche e delle scienze giuridiche. Questo, d’altronde, è un pregio peculiare dell’enciclica (anche se non nuovo in assoluto) su cui tornerò tra poco.
2 – E con ciò passo ad un secondo ordine di riflessioni, che riguardano la collocazione della Sollicitudo rei socialis rispetto alla dottrina sociale della Chiesa.
In un convegno tenutosi pochi giorni fa all’Università Cattolica si è fatto una specie di bilancio sullo stato attuale dell’insegnamento sociale della Chiesa. Si è riconosciuto che negli ultimi anni hanno visto un affievolimento, se non una crisi, di tale insegnamento. E’ noto che le Settimane Sociali da tempo non si tengono più, a conferma del fatto che si è attraversata una fase di difficoltà, o quanto meno di dubbio sulla effettiva capacità dell’insegnamento sociale della Chiesa (oggi si preferisce usare questo termine rispetto a quello tradizionale di “dottrina sociale”) di orientare eticamente la prassi.
A questo riguardo a me pare che l’enciclica rappresenti una svolta – certo non radicale, perché si colloca sempre nel segno di una continuità, e tuttavia molto rilevante – su non pochi punti problematici. Ne accennerò rapidamente alcuni, tra i più significativi.
L’insegnamento sociale della Chiesa deve o meno elaborare ed indicare progetti, cioè sistemi di organizzazione? Nella Sollicitudo rei socialis è detto con estrema chiarezza che la Chiesa non ha soluzioni tecniche da offrire e che la dottrina sociale della Chiesa non propone una “terzia via”. Viene, in definitiva, delegato ai laici il compito di definire obiettivi progettuali coerenti con l’ispirazione religiosa.
Dobbiamo ammettere che in passato l’insegnamento su questo punto non era sempre risultato così chiaro. Si affacciava spesso la pretesa di offrire contributi di progettualità con il rischio di impegnare pericolosamente la Chiesa nel temporale. Io giudico positivo e fecondo che sia stata consacrata con l’autorità di un’enciclica l’opportunità che l’insegnamento sociale della Chiesa si astenga da proposte programmatiche, che devono invece essere elaborate dai laici professionalmente impegnati nell’azione sociale.
Un altro profilo importante, sotto il quale va considerata la collocazione dell’enciclica rispetto alla linea tradizionale della dottrina sociale riguarda il tema (su cui mi sono già prima soffermato) delle pregiudiziali teoretiche nei confronti dei sistemi economici.
Sia chiaro che non viene qui messa in discussione la legittimità delle valutazioni etiche espresse dalla Chiesa sui sistemi economico-politici. E’ evidente che tali sistemi hanno radici storiche, politiche, di natura filosofica o addirittura teologica, quindi con implicazioni di natura etica. Se dunque non si può mettere in dubbio la legittimazione di interventi e giudizi della Chiesa, si deve tuttavia sottolineare che proprio l’evoluzione storica dei sistemi comporta un progressivo loro distacco dalle originarie matrici culturali, il che suggerisce l’opportunità di un riesame aggiornato degli esiti concreti dei sistemi stessi. A me pare giusto segnalare, tra l’altro, che un’attenzione soverchia al tema dei sistemi ha generato negli operatori economici di parte cattolica qualche imbarazzo. Tanti di essi hanno finito con il ragionare in questi termini: “se il sistema in cui operiamo è definito ingiusto, che valore può avere una pedagogia dei comportamenti? I comportamenti, per loro natura, sono in gran parte condizionati dal sistema stesso”.
Arrivo al punto di dire che questa frattura fra l’insegnamento sociale della Chiesa e la prassi ha generato anche situazioni di ipocrisia. Proprio dovendo operare in un sistema condannato, spesso gli operatori credenti hanno finito per uniformarsi ai comportamenti disinvolti ed utilitaristici degli altri.
La posizione che la Chiesa assume oggi a questo riguardo risulta, mi pare, più feconda. E’ chiaro che non potremmo attenderci da essa l’avallo ad un sistema piuttosto che ad un altro; ma proprio il superamento di condanne teoretiche e pregiudiziali apre la strada al suggerimento di agire all’interno dei sistemi per stimolare modifiche, ritocchi, revisioni.
Un ulteriore aspetto dell’enciclica che si inserisce nello stato attuale della dottrina sociale è di natura metodologica ed è costituito dal crescente utilizzo delle scienze sociali.
I giudizi etici non derivano certo dalle analisi fornite dalle scienze sociali, ma queste ultime costituiscono uno strumento utile per una corretta “lettura” della realtà e dei fenomeni sociali: ed è evidente che una adeguata conoscenza di tale realtà costituisce il necessario presupposto per la formulazione di valutazioni di natura etica.
Quante volte le problematiche effettive che i protagonisti dell’attività economica e sociale hanno dovuto affrontare sono risultate diverse da quelle che venivano tradizionalmente poste alla base dei documenti della Chiesa! Anche sotto un profilo metodologico, dunque, sono ravvisabili nell’enciclica orientamenti nuovi e fecondi.
3 – Infine, consentitemi di fare alcune osservazioni a proposito dei giudizi severi che il Papa formula sulle tendenze comportamentali più diffuse oggi nei rapporti economici. A mio avviso, tali richiami sono opportuni e giustificati perché è proprio sul piano dei comportamenti e del costume, che va individuato il vero rischio di insuccesso del nostro sistema economico e civile.
La cupidigia di potere e l’avidità di danaro sono i due peccati che potremmo definire capitali dell’odierna vita economica e sociale, sul piano dei comportamenti individuali. Ma fondata, a mio avviso, è anche la denuncia dell’esistenza di quelle che sono state chiamate «strutture di peccato», cioè di condizionamenti derivanti da comportamenti collettivi (del tutto erroneamente qualcuno ha letto in chiave di demonizzazione dei sistemi tale formula, che invece si riferisce ai comportamenti).
In negativo, i peccati; in positivo, le virtù. Per la prima volta della solidarietà sentiamo parlare come virtù. In precedenza, la solidarietà ricorreva frequentemente nei documenti di parte cattolica, ma veniva presentata come un progetto. Un progetto che, per le ragioni spiegate prime, resterà per lo più vago, generico, incapace di incidere sulla realtà.
Nessun sistema sociale è mai stato in grado di sopravvivere a lungo al venir meno delle motivazioni etiche che – sia pure compenetrate con le motivazioni utilitaristiche – ispirano i comportamenti dei singoli e dei gruppi.
Se questo è vero, occorre chiedersi se il sistema economico e sociale del mondo occidentale possa resistere all’affievolimento di quelle virtù morali e civili, ossia di quei valori, che sono all’origine del suo sviluppo, e che ora lasciano spazi scoperti e inquietanti.
Questo è forse l’interrogativo decisivo che ci conduce nel vivo della crisi che il pensiero liberale e l’etica protestante conoscono nel nostro tempo. E ci fa intravedere l’importanza del contributo alla soluzione dei gravissimi problemi economici e sociali del nostro tempo, che potrebbe venire da un pensiero cattolico rinnovato e vigoroso, se supportato da comportamenti coerenti.
NOTA: testo, non rivisto dal’Autore, della conferenza tenuta a Brescia il 21.4.1988 su invito della Cooperativa Cattolico-democratica di Cultura.