Nel mio intervento vorrei tentare di enucleare quali siano i collegamenti esistenti fra la Sollicitudo rei socialis da una parte, e le condizioni dell’economia mondiale dall’altra. Innanzitutto credo che per interpretare correttamente l’enciclica si debba tenere presente che essa si colloca in uno spazio definito, al paragrafo 34, come “cosmico”. Ed io vorrei, con un esempio, chiarire cosa si intenda con questa espressione.
Quando nel documento pontificio si esprimono giudizi sui diversi sistemi economico-sociali, e sulla loro incapacità a risolvere i problemi dello sviluppo (uno sviluppo economico sempre inteso come strumentale a quello della persona umana), sottolineando le disuguaglianze presenti nel mondo, tali disparità sono considerate sempre nella dimensione “Francoforte – Monaco di Baviera: Ouagadougou – Asmara”, quindi in una dimensione cosmica. Noi non siamo di fronte, come in parte alcuni commentatori hanno creduto di poter affermare, a giudizi sul sistema del capitalismo liberale, nei luoghi in cui esso viene praticato, o del collettivismo marxista storicamente realizzatosi, ma il giudizio è sempre espresso in un quadro di universalità.
In questa visione, i problemi dello sviluppo vengono configurati come problemi la cui soluzione costituisce un dovere. Perché? Perché se è vero che dovere dell’uomo è di agire per contribuire a creare le condizioni nelle quali si raggiunga l’uguaglianza, quale condizione di sviluppo della persona umana, questo dovere non può esauririsi nel risolvere i problemi del proprio stato, della propria regione, della propria provincia. Si tratta di un obbligo che si proietta universalmente. Questo approccio ha implicazioni di carattere pratico, in quanto ne deriva che lo sviluppo degli uni condiziona quello degli altri e ne è condizionato, quindi, implicitamente. E l’avvertimento, sotto questo profilo, dei pericoli che l’umanità corre (o una parte di essa corre), quando si adagia nella convinzione che la propria prosperità raggiunta per brevi periodi possa essere duratura. Non si possono, cioè, costruire isole di prosperità, circondate al loro esterno dalla miseria. Si tratta di una visione che ha fondamento sempre in considerazioni di carattere morale, ma che presenta rilevanti risvolti di carattere pratico.
Non a caso un paragrafo si riferisce al tema del debito estero, che è una delle grandi questioni irrisolte nei paesi in corso di sviluppo, che contribuisce a determinare la loro condizione ed ostacola sensibilmente il loro decollo economico, fenomeno sul quale mi soffermerò nella seconda parte della mia esposizione.
Ma dove mi pare che l’enciclica meriti dagli «uomini pratici» una attenta riflessione è la dove viene posto un problema su cui si discute molto, cioè il problema del diritto di iniziativa economica. Il diritto di iniziativa economica viene presentato come l’elemento nel quale si esprime la possibilità del cittadino di esaltare le proprie capacità e, al tempo stesso, la personalità di tutti.
L’enciclica condanna, quindi, tutti i sistemi che, indipendentemente dalla loro natura, soffocano la soggettività creativa dei cittadino. Quando ciò accade, si attua un processo di livellamento verso il basso e, in luogo dell’iniziativa creativa, nasce la passività, la dipendenza, la sottomissione all’apparato burocratico. I sistemi sociali ed economici non possono, in definitiva, prescindere dall’esigenza di rendere possibile la esplicazione della creatività dei singoli. Si tratta di un’affermazione che non ha contenuto esclusivamente economico, ma nella quale si riflette una precisa concezione morale.
L’enciclica contrasta infatti tutte le forme di sopraffazione di cui la società moderna è, purtroppo, sovraccarica. Mi sembra utile, al riguardo, indicarvene una, di natura squisitamente economica, che soltanto oggi viene interpretata come una sopraffazione nel nostro paese, ma che negli Stati Uniti viene da tempo considerata tale e viene contrastata sul piano della giustizia penale.
Tutti parlano, più o meno a proposito, del cosiddetto “insider trading”, ma pochi sanno cosa sia. In che cosa consiste, nella fattispecie, questa forma di sopraffazione? Si tratta dì un fenomeno, presente in misura crescente nei mercati borsistici internazionali, dove alcuni personaggi, essendo in condizione di appropriarsi di informazioni che i più non hanno, se ne avvalgono per arricchire se stessi, in modo ingiusto ed iniquo. E’ una sopraffazione che si manifesta in forme nuove, che si annida nella società moderna, e che era del tutto sconosciuta nel passato.
Sempre in campo economico, esistono poi le sopraffazioni dì gruppo. Si pensi solo ad un altro problema di cui si discute molto sul piano pratico, quello delle leggi a tutela della concorrenza e di contrasto ai monopoli.
Sotto questo profilo, contrariamente all’opinione di quelli che hanno creduto di vedervi una certa ripetizione di concetti superati, in più di un passo l’enciclica è modernissima.
Ma un interesse particolare riveste anche l’analisi delle nuove forme di povertà, che sono un’altra manifestazione delle società opulente. Ed, al proposito, vorrei indicarne una, che si sta manifestando nel nostro paese, e si configura come una povertà fisica.
Il nostro sistema di previdenza si è innestato su una struttura sociale nella quale la forma più tipica dell’assistenza era rappresentata dalla famiglia. Mano a mano che la famiglia si disgrega, si disintegra, e l’individuo è alla mercé di se stesso, nascono nuove forme di povertà sulle quali gli attuali meccanismi previdenziali incidono poco o punto.
Occorre, quindi, che all’interno dei singoli paesi siano contrastate tutte le forme che consentono a individui o gruppi di appropriarsi del potere, per esercitarlo soffocando la personalità degli altri.
Ho citato alcuni esempi di tendenze sopraffattrici, di proposito molto specifici – ma ve ne sono anche di portata molto più generale. Si pensi solo alla prevaricazione dei gruppi etnici. Non a caso uno dei grandi temi della campagna elettorale degli Stati Uniti, indipendentemente da quello che sarà il candidato vincente (e credo si possa affermare senza timore di essere smentiti che non sarà il rev. Jackson), è rappresentato sicuramente da una certa impostazione di tipo morale.
L’atteggiamento dello stesso Jackson sul tema dell’uguaglianza finisce comunque per incidere sulla piattaforma dei due grandi partiti che si contendono la Presidenza degli Stati Uniti. Cioè si comincia ad avvertire che non è più tollerabile la posizione di inferiorità di certi uomini rispetto ad altri, in ragione soltanto del diverso colore della pelle.
Vorrei ora brevemente passare ad un altro dei temi che è stato ampiamente discusso dalla stampa, il più delle volte senza aver preso cognizione esatta, a mio giudizio, della logica, della ratio ispiratrice dell’enciclica. Mi riferisco al giudizio espresso sui due grandi sistemi politici, definiti nel documento pontificio come capitalismo liberista e collettivismo marxista.
Questa è materia che viene trattata un po’ in tutti i capitoli della Sollicitudo rei socialis, ma più specificamente ai paragrafi 20 e 21. A mio avviso, se si legano i giudizi espressi in questa parte, con quelli altrove nella stessa enciclica, non credo sia fondata l’interpretazione data da alcuni, e cioè che il Papa se la sarebbe “cavata” esprimendo un giudizio ugualmente critico, equidistante da ciascuno dei due sistemi perché la Chiesa non prende parte né per l’uno né per l’altro, così come non indica una terza via. Io credo, invece, che se noi leggiamo tutto il complesso di questo documento, nelle sue diverse parti e nelle loro interdipendenze, il giudizio da trarre pare a me essere ben diverso, sempre riferito alla dimensione universale.
E’ un dato di fatto inoppugnabile che oggi esistano nel mondo delle disuguaglianze profonde. Il mondo ha progredito nel dopoguerra un po’ dovunque, ma è anche vero che, soprattutto negli ultimi 10-20 anni, le disuguaglianze si sono approfondite. Tutta la documentazione più obiettiva mette in evidenza che il ritmo di crescita del reddito per abitante si è andato sempre più dissociando fra le nazioni sviluppate e quelle in corso di sviluppo.
Vorrei, al proposito, ricordare che alcune affermazioni contenute nell’enciclica hanno molti punti in comune con il documento redatto dall’episcopato cattolico negli Stati Uniti e pubblicato nel novembre del 1986. Ma anche risente ampiamente della critica che è stata svolta da esponenti della Chiesa cattolica dell’America Latina.
Cioè, mentre da un lato la Sollicitudo rei socialis riconosce che il mondo, l’economia moderna, vivono di un intenso dinamismo, nello stesso tempo prende atto, alla luce dell’evidenza statisticamente dimostrata, che questo dinamismo non si è uniformemente diffuso nelle diverse aree del globo.
Qui in sostanza, il giudizio morale si salda con l’analisi della situazione economica. Il giudizio morale è l’obiettivo, l’impulso che dovrebbe animare gli atti che l’uomo compie, i quali dovrebbero ispirarsi alla ricerca della giustizia e dell’uguaglianza, alla eliminazione delle condizioni di inferiorità, a lenire le sofferenze. Ma questo limite tendenziale non può essere un limite circoscritto ad aree geografiche ristrette, deve avere un respiro universale.
Ed è un dato di fatto che l’evoluzione economica di questi ultimi anni non è andata in questo senso, perché le condizioni di vita nei vari paesi si sono andate allontanando. E’ questo un punto che è stato messo in evidenza con grande forza e passionalità dagli esponenti della Chiesa cattolica brasiliana in particolare, che riscontrano all’interno del loro paese disuguaglianze paurose e rappresentano la sola, grande forza che resiste al genocidio degli Indios, in atto nella regione del Nord del Brasile.
Se questa è la logica in cui si muove l’enciclica papale, mi pare evidente che anche il giudizio formulato sul capitalismo liberista e sul collettivismo marxista non è diretto ad equiparare o condannare i due sistemi in quanto tali. Ciò che preme evidenziare al Pontefice è che il conflitto tra i due blocchi rappresenta una delle cause del permanere, o approfondirsi, delle disparità presenti nel mondo. Si scorge nella esistenza di due sistemi che, fin qui, si sono contrapposti violentemente uno all’altro, ciascuno cercando di sopraffare l’altro, attraverso la ricerca della potenza, una distorsione profonda nella distribuzione delle risorse produttive.
E’ questa mia affermazione ineccepibile da un punto di vista economico poiché, tutte le volte che si producono armi, i fattori della produzione (cioè lavoro e materie prime) che sono stati incorporati nelle stesse, rappresentano una ricchezza distrutta, in quanto non soddisfano consumi, ma soltanto esigenze di carattere militare. Ora, quello che si dice nei due paragrafi già citati (nn. 20 e 21), che secondo me sono fondamentali per comprendere da un punto di vista “politico” il contenuto dell’enciclica, è che la contrapposizione dei blocchi, spingendo agli armamenti, provoca una distruzione, in termini strettamente economici, delle risorse e, nello stesso tempo, induce ciascuno di questi a condurre politiche di aree di influenza. Tali politiche vengono spesso condotte attraverso forme di pressione indiretta, nel tentativo di conquistare dall’interno i singoli paesi.
Io ho avuto occasione di tenere tre lezioni presso l’Università istituita nella capitale della Tanzania, e vi assicuro che era del tutto evidente il disorientamento di questi ragazzi, per essere stati inviati a formarsi in diversi paesi. Essendo stati alcuni all’Università di Mosca, altri a Londra, altri ancora negli Stati Uniti, ciascuno era portatore di una visione della realtà che lo contrapponeva direttamente a quella dei suoi compagni. La contrapposizione ideologica è, infatti, una contrapposizione che dall’interno delle due grandi potenze si irradia verso il resto del mondo più debole, e concorre a creare nuove contrapposizioni.
Rispetto a questa lucida analisi contenuta nell’enciclica viene spontaneo domandarsi quale sia la posizione della Chiesa. Io credo che l’impostazione logica della stessa Sollicitudo rei socialis indica con chiarezza che la Chiesa non ha, e non può avere, soluzioni tecniche, ma avverte e presenta gli imperativi morali, che non possono essere disattesi.
Ciò non significa che la Chiesa assuma una posizione di neutralità, di indifferenza rispetto ai problemi sociali, ma al contrario essa li riconduce tutti ad una impostazione profondamente religiosa, ispirata ai principi del Vangelo, per scuotere profondamente l’umanità ed incitarla a ritrovare, in quei principi, la motivazione dei propri atti.
Certo, l’enciclica pontificia non si esime da una elencazione precisa dei problemi pratici da risolvere con urgenza. Il paragrafo 43, pur senza enucleare soluzioni preconfezionate, ricorda alcune grandi questioni aperte, con le quali io stesso ho avuto in passato più dimestichezza.
Fra i problemi cruciali da avviare a soluzione, viene segnalata l’inadeguatezza del sistema internazionale di commercio, prendendo fra l’altro posizione contro le diverse forme dì protezionismo economico, avvertendo i danni che questo arreca. Nel protezionismo economico, infatti, si scorge una forma di disuguaglianza economica, laddove esso agevola certe imprese, danneggiandone altre.
E così, ancora, fra i grandi problemi la Sollicitudo rei socialis cita quello del sistema monetario e finanziario internazionale. L’enciclica afferma chiaramente che gli attuali meccanismi di fluttuazione dei cambi producono, anzi distribuiscono, casualmente la ricchezza. E si mette in evidenza che essi indeboliscono principalmente i paesi più poveri. Tale affermazione trova, d’altro canto, riscontro nelle tesi che vengono sostenute da uomini della finanza internazionale. Non molto tempo fa il Vice Presidente della Bundesbank, Schlesinger (e scelgo di proposito questa persona perché ha fama di essere un rigido, un chiuso, un conservatore) ha tenuto una conferenza nella quale ha sostenuto esplicitamente questa tesi, ribadendo che questi sistemi hanno contribuito ad indebolire ulteriormente le economie più deboli.
Al riguardo, mi sembra opportuno – a questo punto – esaminare come la situazione economica si è sviluppata in questi anni e per quali motivi si è verificato un allungamento delle distanze fra i paesi più ricchi e quelli più poveri.
Io credo che questi fenomeni si sono andati aggravando particolarmente nel corso degli ultimi 14 anni, cioè fra il 1973 ed il 1988. Nel periodo compreso fra il 1973 ed il 1982, i paesi in corso di sviluppo hanno conosciuto un periodo di tassi di crescita maggiori rispetto a quelli dei paesi industrializzati, inducendo gli osservatori di ogni parte del mondo ad esultare per tale evoluzione.
Vi erano, certamente, alcuni paesi nei quali il reddito per abitante aumentava poco, in dipendenza del forte tasso di sviluppo demografico, ma nel complesso si aveva la sensazione che il mondo si stesse muovendo verso una situazione di minori disuguaglianze. Tale processo si realizzava principalmente perché questi paesi ricevevano cospicue risorse dal resto del mondo. Acquisivano beni finali e tecnologie, finanziando, in massima parte, tali acquisti con prestiti contratti sui mercati internazionali.
In sostanza, come usa dire la gente del mestiere, questi paesi avevano disavanzi di bilancia dei pagamenti (cioè importavano più di quello che esportavano) e pagavano la differenza con il ricavo dei citati finanziamenti. Le risorse disponibili all’interno di questi paesi crescevano, quindi, più della produzione nazionale, consentendo un elevato sviluppo dei consumi, degli investimenti, in alcuni casi, delle spese destinate agli armamenti o ad opere faraoniche.
Chi finanziava questi paesi? Essenzialmente le banche commerciali di tutto il mondo, degli Stati Uniti in particolar modo, ma anche dei paesi europei. Questo meccanismo si inceppò sul finire del 1982, quando uno dei grandi paesi indebitati, il Messico, manifestò la propria incapacità a pagare gli interessi sui prestiti ricevuti ed, ancor più, le quote di ammortamento. Fu un segnale che il descritto sistema di trasferimento delle risorse era impostato su criteri irrazionali, perché finanziare lo sviluppo, non è attività propria delle banche commerciali. Il finanziamento dello sviluppo deve concepirsi nell’ambito di un cielo che si estende in periodi lunghi, talora lunghissimi, e che, perciò, trascende le finalità e le capacità delle banche commerciali.
Quando la crisi si è manifestata, ha avuto per effetto una repentina interruzione del flusso di finanziamenti verso questi paesi.
Contemporaneamente, si è poi manifestato un altro fenomeno. Gli Stati Uniti, nel quadro della politica economica seguita dall’amministrazione presieduta dal Presidente Reagan, sono gradualmente divenuti essi stessi un paese nel quale i consumi crescevano – ed in qualche misura crescono tuttora – ad un ritmo più rapido della produzione interna. Si è, cioè, verificata una situazione nella quale il paese più ricco del mondo (ricco sotto il profilo dimensionale) assorbiva, risucchiava risorse dal resto del mondo.
Il meccanismo finanziario che si è andato delineando è, quindi, assai complesso. Ma io lo riassumerei così: le banche americane finanziavano i paesi in corso di sviluppo, ma a loro volta venivano finanziate dal resto del mondo.
Ebbene, cosa è accaduto a partire dal 1982? Le banche commerciali americane hanno seguitato a essere destinatarie di mezzi finanziari provenienti dal resto del mondo, ma hanno cessato di trasferirli ai paesi in corso di sviluppo. Di conseguenza, i flussi finanziari che, fino a quell’anno, avevano attraversato le banche americane e raggiunto i paesi più bisognosi si sono fermati negli Stati Uniti.
E’ una presentazione un po’ semplicistica, ma vi assicuro che se ci si mettesse attorno ad un tavolo e si guardassero le cifre, ricaveremmo una chiara conferma di tale evoluzione. Di fatto, è dimostrabile che è proseguito in questi anni l’afflusso di capitali negli Stati Uniti, ma non più compensato da un pari riflusso.
Se prendessimo le statistiche dei movimenti finanziari pubblicate trimestralmente dalla Banca dei Regolamenti Internazionali (BRI), che ha sede in Basilea, noteremmo che tuttora, ogni trimestre, si sviluppa il credito internazionale, ma nella quasi totalità si tratta di prestiti che i paesi industrializzati concedono ad altri paesi industrializzati, con un saldo netto che si dirige negli Stati Uniti.
E’ questa una situazione che viene richiamata, in certa misura analizzata, e sulla quale sono espressi dei giudizi morali, nel documento pontificio. Una situazione paradossale, contraddistinta dalla concentrazione di risorse nel paese più ricco del mondo.
E’ evidente che i paesi più deboli non possono competere. Il Tesoro degli Stati Uniti può collocare le proprie obbligazioni in Giappone, o in Germania, non certo nel Messico o nel Brasile.
Questa è la realtà che noi abbiamo di fronte. Ci sono diversi documenti, redatti soprattutto sotto l’impulso del clero dell’America Latina, nella quale questi fenomeni vengono descritti con precisione e che individuano con chiarezza le carenze del nostro sistema.
Si dice, da qualche parte, che l’enciclica rischia di cadere lentamente nell’oblio. Può darsi che questo accada nei nostri paesi, ma non nei paesi in corso di sviluppo, per i quali rappresenta il solo messaggio di denuncia di questa situazione.
Certo, se voi mi chiedeste che cosa si potrebbe fare in questa situazione sarei molto imbarazzato a rispondere. Al momento, so soltanto constatare che questo è il fenomeno, e che di fronte ad esso, è importante che vi sia una voce che ci avverta che ciò che sta accadendo contraddice i principi fondamentali ai quali dovrebbero ispirarsi i rapporti tra le persone e le nazioni.
Mi pare questo il punto di coniugazione tra una dura realtà e una voce, una parola, che avverte le contraddizioni della realtà attuale. Noi oggi assistiamo in tutto il mondo ad una crescita di quella che i sociologi e i politologi chiamano “domanda di religiosità”. Credo che ciò avvenga perché si avverte che i sistemi, così come essi sono, non riescono ad esprimere impulsi alla creatività umana, capaci di mettere riparo a queste insufficienze.
Uno degli ultimi numeri del “The Economist” ha pubblicato uno studio dei migliori centri di ricerca religiosa su ciò che sta accadendo in Unione Sovietica. E quello che mi pare interessante è questa conclusione: di fronte all’ideologia collettivista che cade a pezzi, soprattutto gli uomini e le donne giovani cercano risposte nella religione. Non a caso la Chiesa ortodossa sta gradualmente riprendendo peso, così come la Chiesa cattolica di rito orientale, in particolare nell’Ucraina.
Di fronte a questi fenomeni si capiscono anche i motivi per cui il Papa guarda da quella parte, perché certamente quello è un pezzo di mondo nel quale l’umanità è stata oppressa dalle strutture burocratiche.
Nella Sollicitudo rei socialis, al paragrafo 15, il Papa afferma che “bisogna ribadire che nessun gruppo sociale, per esempio un partito, ha diritto di usurpare il ruolo di guida unica, perché ciò comporta la distruzione della vera soggettività della società e delle persone-cittadini, come avviene in ogni totalitarismo. In questa situazione l’uomo e il popolo diventano oggetto, nonostante tutte le dichiarazioni in contrario e le assicurazioni verbali”.
E questo che, anche l’Est, si comincia a sentire in modo sempre più pressante. Che l’uomo cittadino è divenuto oggetto, è dominato da un gruppo (il partito), che si è arrogato il diritto di interpretare i bisogni della società. Per le stesse ragioni si sta, oggi, tentando di costruire un nuovo sistema economico, nel quale si tenta di restituire forza alla soggettività creativa del cittadino.
Nel chiudere la mia relazione, non vorrei apparire come quello che, da un documento così carico di spiritualità, ha voluto “tirar fuori” a tutti i costi delle indicazioni pratiche. Non era certo mio intendimento. Però, secondo me, da questa riflessione noi dobbiamo assolutamente dedurre alcune regole di comportamento, a tutti i livelli. Dobbiamo essere consapevoli che grandi cambiamenti devono compiersi nella società moderna, per garantire,, consacrare nelle istituzioni alcuni di questi alti principi.
E questa la vera riforma istituzionale di cui abbisogna l’umanità: bisogna cercare di costruire delle istituzioni che garantiscano il pluralismo e la soggettività creatrice degli uomini, alle quali deve essere richiesta – nello stesso tempo – una visione di carattere universale, che trascenda le singole collettività nazionali.
In questo contesto si può innestare, mi pare, il principio della solidarietà. Il luogo più naturale dove questa virtù dovrebbe esprimersi è la famiglia, ma la solidarietà deve estendersi all’intero corpo sociale, che a sua volta non può rinchiudersi in se stesso.
Questo è il messaggio che proviene dall’enciclica papale. E io vorrei qui, concludere con una riflessione di carattere pratico. Non c’è dubbio che il mondo occidentale in questi anni ha grandemente progredito lungo il cammino della prosperità. I più sono oggi più prosperi.
Ma sarebbe una politica suicida, quella che immaginasse di poter costruire la unità europea, la crescita del mondo industrializzato, la coesione dei Sette maggiori paesi che si riuniscono periodicamente, nel cuore di un mondo che resta misero e ostile.
Io ricordo sempre gli anni dell’immediato dopoguerra: quelli sono gli anni in cui si avverti, da parte di tutti, il principio della solidarietà. Proprio in questi giorni ricorre l’anniversario dei 40 anni del Piano Marshall, che ha rappresentato una manifestazione di solidarietà di fronte a uomini che vivevano in città distrutte, in luoghi privi di comunicazioni. Oggi noi abbiamo di fronte problemi analoghi, che ci impongono di ricercare nuove forme di solidarietà.
Concludo. Mi è accaduto, qualche tempo fa, di incontrare un uomo d’affari non italiano, di quelli di grande successo, che dividono il proprio tempo fra New York, Tokio, ecc con il quale si è parlato dei grandi problemi del mondo e di questo documento, che egli ben conosceva. Egli osservava: “Vede, oggi le aspettative del mondo sono mosse da tre grandi fatti.
Il primo è rappresentato dal progetto dell’unità europea che indubbiamente eccita le fantasie. Il secondo consiste in ciò che sta accadendo in Unione Sovietica, un blocco che gradualmente si rompe. Le prime manifestazioni di tale processo sono espressione delle nazionalità, che insorgono e chiedono di ritrovare la loro identità. Il terzo avvenimento è costituito proprio dall’ultima enciclica papale.
Per motivi di lavoro – mi ricordava questo personaggio ho contatto soprattutto con i paesi dell’America Latina. Ebbene, in questi paesi i più affermano che, di fronte alla nostra indifferenza per i loro problemi, la sola voce che denota che nel mondo c’è ancora una speranza è, oggi, rappresentata da questo documento di Giovanni Paolo II: la Sollicitudo rei socialis”.
NOTA: testo, non rivisto dal’Autore, della conferenza tenuta a Brescia il 21.4.1988 su invito della Cooperativa Cattolico-democratica di Cultura.