Uno dei diagnostici più acuti del nostro tempo e della crisi di civiltà con cui, piaccia o no, tutti dobbiamo fare i conti, è senza dubbio Edgar Morin, le cui opere sono largamente tradotte in Italia. In una pagina di “Terra-Patria” (trad. it. Cortina, Milano 1994) lo scrittore francese ci offre una visione sintetica delle conclusioni a cui è pervenuto: “L’idea di modernità continua a essere affascinante e piena di promesse dove si sogna il benessere e la liberazione attraverso i mezzi della tecnica. L’idea della modernità comincia invece a essere messa in discussione nel mondo del benessere acquisito. La modernità era e rimane un complesso di civiltà animata da un dinamismo ottimista. Ora, la problematizzazione della triade che anima questo dinamismo problematizza la modernità stessa. La modernità portava in sé l’emancipazione individuale, la secolarizzazione generale dei valori, la differenziazione del vero, del bello, del bene. Ma ormai l’individualismo non significa più solo autonomia ed emancipazione; significa anche atomizzazione e anomizzazione. La secolarizzazione significa non solo liberazione dai dogmi religiosi, ma anche perdita dei fondamenti, angoscia, dubbio, nostalgia delle grandi certezze. La differenziazione dei valori sfocia non più solo nell’autonomia morale, nell’esaltazione estetica, nella libera ricerca della verità, ma anche nella demoralizzazione, nell’estetismo frivolo, nel nichilismo”.
L’ultima parola, “nichilismo”, con cui si chiude il passo citato ci riporta alla causa prima e al denominatore comune della malattia mortale dell’uomo contemporaneo. Nichilismo significa, infatti, come aveva precisato Nietzsche, che non si riconosce più un Principio primo e supremo, non c’è un fine particolare delle cose né un fine ultimo, non essendoci più la Verità e il Bene. Ma se tutti i valori sono svalorizzati, perde il suo significato originario anche il Bello, come la Verità e il Bene? Questo dovrebbe essere l’esito inevitabile e la logica conclusione, anche se, come osservava Dostoevskij, «persino i nichilisti non possono sottrarsi al fascino della bellezza». Il nichilismo, in realtà, ha travolto, o meglio si adopera a travolgere, anche il valore del Bello. Va da sé che la cancellazione della Bellezza, rendendo il mondo inospitale e inabitabile, rende improbabile ogni domanda sul senso della vita. Da questa diagnosi non si devono, però, trarre a priori generalizzazioni inaccettabili del tipo: poiché il nichilismo caratterizza fortemente, in negativo, l’età contemporanea, l’arte del nostro tempo è essa stessa nichilista, e dunque disumana e disumanizzante. Prescindiamo dalla constatazione, fin troppo ovvia, che “ogni giudizio en masse” è inevitabilmente falso, come osservava Kierkegaard, e che ogni spirito autenticamente creativo cerca sempre un “suo” varco per aprirsi un sentiero oltre e fuori le angustie del proprio tempo. È, invece, un dato di fatto che eminenti studiosi di estetica, di diverso orientamento ma di profonda ispirazione religiosa – penso in questo momento al Maritain de “L’intuizione creativa nell’arte e nella poesia”, tradotta dalla Morcelliana, e agli scritti del russo Pavel Evdokimov, soprattutto al suo “Gogol e Dostoevskij” – hanno mostrato con singolare penetrazione il «valore rivelativo» e la spiritualità dell’arte moderna. Ci sono in essa, a partire da Baudelaire e da Dostoevskij, creazioni di straordinaria potenza e profondità e non solo nella letteratura, ma nella scultura, in architettura, nella pittura e persino nell’ultima e più discussa delle arti, quella filmica. Il problema vero è ricordarci che l’universalità del Bello non impedisce la contingenza di valutazioni erronee; il numero e l’importanza degli elementi perturbatori del giudizio estetico rendono necessaria la critica, la quale ha il compito di accettare la realizzazione del valore estetico in un’opera o in una serie di opere. La discriminante è sempre fra arte autentica e non arte, fra una creazione riuscita e opere non riuscite che cadono inesorabilmente al di qua della soglia dell’arte.
L’esperienza del Bello è universale e ogni uomo, prima o poi, è sorpreso da questo meraviglioso incanto, nell’una o nell’altra forma. Se poi il discorso si porta sull’arte, di arte si può parlare solo e sempre in quanto creazione di opere belle, né ci può essere arte che non scaturisca dal sentimento del bello e non ne sia espressione. È dunque un paradosso fuorviante la tesi formulata da Giuseppe Rensi e più volte acriticamente riproposta, secondo la quale il fine dell’arte sarebbe il brutto, e più propriamente il repellente. Ma, come al solito, anche l’errore ci obbliga a precisare una verità. La perfezione viva e vibrante della rappresentazione estetica, l’afflato spirituale dei sentimenti che vi sono trasfusi ed espressi, l’efficacia evocativa di cose, persone e stati d’animo costituiscono il fascino singolare di cui anche il brutto si riveste nell’arte, e questo fascino è senza dubbio bellezza. Insomma, in arte noi non abbiamo il brutto ut sic, né il brutto al posto del bello, ma semplicemente, per dirla con Kant, la rappresentazione bella del brutto attraverso l’espressione di sentimenti e immagini che esso ha suscitato nell’animo dell’artista. E che le cose stiano così, l’”Inferno” di Dante, i maggiori drammi di Shakespeare e alcune commedie di Molière sono lì ad attestarlo. Tante opere artistiche del nostro tempo vanno lette in questa luce per comprenderne l’intrinseca bellezza e spiritualità. Talora nelle nostre valutazioni ci dimentichiamo che non esistono canoni fissi del bello e la perenne novità della poesia, come di qualsiasi arte, trova in ogni epoca – e dunque anche nella nostra – nuove vie per offrire agli uomini il suo dono. Il Bello, quello naturale così come quello artistico, non è solo ciò che piace. Oltre a essere una festa per gli occhi, esso nutre lo spirito e lo illumina, pone tutto l’uomo nella condizione di sentire il mondo come luogo di segrete corrispondenze e di irradiamento del divino.
Giornale di Brescia, 23.5.2000. Articolo scritto in occasione dell’incontro con Giovanni Reale su “La negazione della bellezza e la domanda sul senso della vita”.