Lesbia e Aspasia sono nomi fittizi, entrati di forza nella storia della poesia. Il primo copre l’unico grande amore di Catullo, il secondo nasconde Fanny Targioni Tozzetti, l’ultima e più grande illusione di Leopardi. Tra il poeta latino e l’italiano corrono quasi diciannove secoli, ma la loro vicenda su questo punto sembra quasi la stessa. L’analogia viene dalle ragioni di fondo e sale fino alle forme esterne, a cominciare proprio dai nomi scelti. Lesbia richiama immediatamente Saffo, la poetessa dell’isola di Lesbo, che fu patria della lirica in senso stretto: la leggenda le attribuiva una morte violenta per amore. Il ricordo di Aspasia è legato a quello di Pericle, il capo politico del periodo d’oro di Atene: era una cortigiana, ma fornita di doti intellettuali. I due nomi sono tratti dal mondo greco, perché greca è la prima cultura di entrambi i poeti, i quali di quel mondo sembrano conservare la duplice e apparentemente contraddittoria personalità, insieme sentimentale e razionalistica. Di Leopardi il De Sanctis diceva che “il cuore non può liberarlo dalla ragione”. Per Catullo basterebbe ricordare la sua fama di poeta dotto, che acclimata in Italia il razionalistico alessandrinismo greco. Questa duplicità è già uno dei tratti di fondo, che accomunano i due poeti e si riflettono nella loro poesia. Vi si aggiunga che sono entrambi abbastanza giovani per essere irrequieti e non conformisti. Così, quando si verifica un evento, che li impegna fortemente e non rientra nei canoni consueti, non esitano a gettare in faccia a tutti la loro singolarità. Scrive Leopardi nel Pensiero dominante: «A scherno / ho gli umani giudizi, e il vario volgo/ a’ bei pensieri infesto / … calpesto». E Catullo (V 2-3): «Valutiamo un soldo bucato tutti i brontolii dei vecchi parrucconi». Le critiche, reali o presunte, riguardavano la relazione, che si era stabilita, platonicamente tra Giacomo e Fanny, meno platonicamente tra Catullo e Lesbia. Le due donne erano signore di classe e maritate, l’una soltanto gentile col contino di Recanati, l’altra disposta a considerare il corteggiatore provinciale, più giovane di lei, un’occasione di divertimento, di cui stancarsi presto. Ma per Leopardi come per Catullo si trattava invece di una cosa terribilmente seria, capace di assorbire tutto l’ essere e i suoi pensieri. Per esprimere il suo incantamento, Catullo non trova di meglio che parafrasare una celebre ode di Saffo (di cui è nota la traduzione di Quasimodo). È l’ode LI, scritta in strofe appunto saffiche: «Mi sembra simile a un dio, anzi, se è lecito, superiore a un dio, colui che, sedendoti di fronte, ti ascolta e ti guarda sorridere dolcemente…».E Leopardi quasi di rimando: «Che mondo mai, che nova / immensità, che paradiso è quello /là dove spesso il tuo stupendo incanto / parmi innalzare… Tali sono, credo, i sogni / degli immortali (Il pensiero dominante). E in Aspasia, ricordando: «Apparve / novo ciel, nova terra, e quasi un raggio / divino al pensier mio». Ma già nel momento dell’infatuazione si insinua il tarlo razionalistico. Ricordando in Aspasia quel suo periodo di passione, Leopardi afferma, rivolto alla donna, di esser stato «già dal principio conoscente e chiaro / dell’esser tuo, dell’arti e delle frodi». Catullo, dopo aver seguito per tre strofe il modello saffico, se ne distacca bruscamente con un salto di concetti, che ha dato molto da fare ai filologi per la sua violenta diversità, ma che non è altro se non il momento della riflessione, che si alterna al momento dell’estasi. Qui il poeta si fa la diagnosi del proprio stato patologico: «La colpa è dell’ozio, o Catullo; è colpa dell’ozio, se ti esalti e ti ecciti così». La parola latina otium si rende male con la corrispondente italiana «ozio», perché si carica di significati diversi. L’ozio lamentato dal poeta è il vuoto interiore, la mancanza di impegni, il senso di vanità, che si cerca di riempire con l’attivismo o il rumore o lo stordimento dei sensi. Meglio si renderebbe forse con la leopardiana «noia». Del resto è lo stesso Pensiero dominante che accosta i due termini: «Che intollerabil noia / gli ozi, i commerci usati…». La delusione che sopravviene inevitabile, se dà ragione del timore razionale, provoca a sua volta un’esplosione di sentimenti in negativo. Catullo, più impetuoso e popolare, non esita a inveire contro la donna fedifraga e caricarla di epiteti oltraggiosi. Leopardi è più controllato, ma ancor più severo; come suole, allarga la sua vicenda a considerazioni generali. Non si accontenta di ricordare «arti e frodi», ma ritiene che «donna non pensa / né comprender potria» la grandezza dell’ amore ideale, perché «non cape in quelle / anguste fronti ugual concetto…» (Aspasia). E’ un tentativo di giustificare l’atteggiamento di una persona singola attraverso un sussulto ingeneroso di antifemminismo generale. Ma anche Catullo, quando è colpito da una delusione nei suoi slanci affettivi (che non comprendono solo Lesbia, ma anche gli amici), è portato a giudicare negativamente tutta l’esistenza. La disperazione si concretizza nel carme LXXIII, che non nomina Lesbia. La poesia è stesa in distici elegiaci (il metro delle epigrafi!) e rivolta a se stesso: «Smettila di illuderti che voler bene serva a meritare qualche cosa da qualcuno o a farti ricambiare. Tutto è ingratitudine. A nulla vale aver fatto del bene, anzi il peso morale diventa più grave». Con ugual mossa, in stile ancor più nudamente epigrafico, Leopardi emette la sua sentenza esistenziale (A se stesso): “…Posa per sempre. / Assai / palpitasti. Non val cosa nessuna / i moti tuoi, né di sospiri è degna la terra”. Per nostra fortuna la disperazione in entrambi si traduce in poesia, che è una forma di vita. Tuttavia Catullo cerca un conforto anche sul piano esistenziale e scrive quella celebre preghiera agli dei, che è la richiesta di esser liberato dal male. La questione della religiosità di Leopardi è più complessa; però anche nell’ abbattimento sembra di risentire un’eco dell’incipit dell’Ecclesiaste in quell’«infinita vanità del tutto».
Giornale di Brescia, 7.7.1999.