Ovidio visse anni felici nella Roma di Augusto, i suoi versi lo avevano ben presto reso famoso, ma un decreto dell’imperatore, originato da una causa mai veramente chiarita, lo confinò esule a Tomi sul Mar Nero, dove rimase fino alla morte.
Tutta la poesia scritta nell’esilio nacque allora dal dolore, se ne alimentò e vi rimase sempre vincolata. Le Muse tuttavia sorrisero ad Ovidio anche nel più triste dei luoghi, ma fu un sorriso più mesto e più freddo. La fantasia non spaziò più fervida e libera come ai bei tempi della felicità; fu allora poesia di ricordi che scaturiscono sempre da una lacrima.
Nella sorte mutata la sua anima si abbandona al pianto, al dolore, spesso esagerato con ogni artificio della retorica e, quando la mitologia e la retorica hanno il sopravvento, allora la poesia suona meno sincera, si appesantisce di fastidiosa erudizione. Quando invece il dolore è lieve e sfumato, la poesia si eleva e risplende della luce della sincerità.
Quasi sempre la sua poesia si anima di calore e di affetto mentre scrive alla moglie e le parla, senza dottrina e retorica, ma col cuore che si confida con piena effusione, con un linguaggio flebile e sommesso, proprio di un uomo che si piega vinto dal fato. C’è in particolare un’elegia dedicata alla moglie (Tristia III, 3) che forse non è stata apprezzata dagli studiosi in giusta misura e che a me sembra una delle più belle, se non la più bella, tra le elegie di Ovidio.
Il poeta compose questa poesia quando giaceva ammalato e costretto dalla malattia a dettarla ad un altro. Da questa particolare situazione nascono le confidenze alla moglie, mormorate, mai gridate: "Con quale animo pensi che me ne stia in questa regione maledetta?".
E poi immagina la moglie accanto al suo letto piangente e quasi dolcemente rimproverante: "Perché ti sei ridotto così?”. La risposta è la sintesi di tutti i motivi che hanno reso triste l’esilio del poeta: "Non sopporto il clima, non sono abituato a quest’acqua, la terra stessa, non so come, non mi piace… non un medico che possa lenire il male, non un amico che consoli e inganni il tempo, che scorre lento, conversando".
In questo stato di inerzia e solitudine la mente febbricitante si eccita e sente ancor più la mancanza di ciò che è lontano: persone e cose care vengono tutte insieme alla mente, ma tra tante immagini gli sorride più bella e vittoriosa su tutte quella dolcissima della moglie, rivelata a noi in due versi di sapore virgiliano: "Con te lontana io parlo, te sola ripete la mia voce, nessuna notte e nessun giorno viene a me senza te".
Il ricordo della moglie è presente anche in altre elegie, ma è mescolato al desiderio di tornare a Roma. Qui ormai il ricordo di Roma si è spento, perché Ovidio sente vicina la morte e invoca la moglie solo per amore, non perché lo aiuti a tornare.
A confermare il suo amore per lei esclama: "Se fossi ormai per venir meno e la lingua riarsa potesse a mala pena rianimarsi in un fil di voce, se in quell’estremo momento qualcuno annunziasse che la mia donna sta per giungere, balzerei in piedi e la speranza di averti di nuovo tra le braccia mi restituirebbe la salute". Ma forse ella non sa nulla di lui vicino alla morte e spensierata trascorre i suoi giorni. Il dubbio è tremendo, ma la sua ombra è allontanata dalla mente con ferme parole che scacciano la gelosia: "Non lo fai, lo affermo. Sono certo che il tempo senza di me non può scorrere se non triste per te".
La fantasia del malato farnetica e lo induce a pensare che, se lo attendeva un destino così crudele, sarebbe stato meglio che gli dei lo avessero fatto morire prima dell’esilio. Nella parte centrale dell’elegia la parola che sa più di amaro è exul, esule. "Così lontano io morrò in lande desolate… non ci sarà alcuno che morto mi pianga, né al cadere delle lacrime della sposa si prolungherà per brevi attimi il mio respiro; né darò le mie ultime volontà; né mano amica chiuderà gli occhi morenti". I versi si snodano lenti, ribattuti da note uguali e tristi: né… né…. senza… senza. Rassegnazione, mestizia, ma più commovente spira il rimpianto per colei che non gli sarà accanto nell’ora suprema.
Ovidio immagina che la notizia della sua morte giunga come un fulmine alla sua amata sposa a Roma, e la descrive in preda ad un clamoroso dolore, con le braccia tese verso la terra nemica, chiamando per nome l’estinto. L’idea di un così grande dolore della moglie è di conforto per Ovidio, che tuttavia la esorta a non graffiarsi le guance e a non strapparsi i capelli. Poi il poeta sposta l’attenzione al destino del suo spirito dopo la morte e, pur senza proporsi l’angoscioso problema dell’aldilà, svela il suo animo che gli fa desiderare la distruzione totale: "Volesse il cielo che col corpo perisse l’anima mia e che nessuna parte di me sfuggisse al rogo divoratore! Altrimenti volando nel vasto aere, come cantò il vecchio di Samo, Pitagora, andrà vagando tra le ombre dei Sarmati e sarà in eterno tra spiriti selvaggi". L’idea di restare per sempre, anche in spirito, nella terra dove aveva sofferto l’esilio lo turba profondamente.
Da qui la preghiera: “Le ossa almeno siano raccolte in piccola urna; così io non sarò in esilio anche morto". Chiede infine che, amorosa, la moglie sparga di profumi le ossa riportate finalmente in patria e sul monumento funebre scriva questo epitaffio: "Qui giaccio io, Ovidio Nasone poeta, cantore di delicati amori, che perii per il mio ingegno; non sia grave a te, che passi e hai amato, mormorare: le ossa di Ovidio riposino infine dolcemente".
L’ultimo pensiero, però, torna ancora alla moglie, perché consoli le ceneri con funebri offerte e lacrime, che renderanno più belle le corone di fiori che ella porterà sulla sua tomba.
I pensieri, le voci di questa elegia sgorgano dall’animo del poeta che sente vicina la fine e trova accenti sinceri e commossi nel vagheggiamento di un ultimo dolente colloquio con la moglie, un colloquio mirabile di un morituro, che per magia di canto vede le sue ceneri, che nella realtà resteranno incompiante a Tomi, onorate e confortate di profumi, di pianto e dolci sospiri.
Giornale di Brescia, 16.10.1993.