E’ in libreria da un paio d’ anni un bel volume dedicato al vino dei poeti: opera del concittadino Pietro Gibellini, è intitolato Il calamaio di Dioniso. Questo saggio si occupa della presenza del vino nella letteratura italiana moderna, attraverso un percorso letterario, che indaga nelle pagine più significative della prosa e poesia che va dal Parini a D’Annunzio. Sfogliando le pagine del Calamaio, troviamo che l’ autore latino o greco più citato come fonte dagli italiani non è Omero né Virgilio, né Alceo che beve per la morte dell’avversario politico, né Apicio col suo trattato gastronomico, ma è invece Orazio. Al motivo del vino nella poesia dell’ antico poeta di Venosa aveva dedicato un saggio critico anche il celebre latinista Antonio La Penna; lo si può leggere come una piacevole riflessione esposta in un convegno scientifico del 1990 dal titolo emblematico: In vino veritas. Ce n’è a sufficienza, credo, per capire l’ importanza del vino nella poesia oraziana e la sua occorrenza testuale; più in generale, per arrivare al significato che la bevanda di Bacco riveste nell’ insieme della produzione e, soprattutto, nella visione della vita del nostro autore.
Anche uno dei testi latini più noti a livello scolastico ci permette un incontro diretto col vino di Orazio. Penso all’ode 1,37, cioè alla poesia in cui il poeta esultava per la morte di Cleopatra. Molti a scuola l’hanno letta nel testo latino: celebre è già il suo esordio, con quel Nunc est bibendum, cioè "Ora bisogna bere", perché, scriveva Orazio, c’era la grande occasione: vale a dire la scomparsa della regina egiziana che costituiva agli occhi del poeta una minaccia mortale per Roma.
Quando Orazio nell’ anno 30 a.C. diceva questo, aveva in mente un analogo canto di esultanza che voleva tradursi in una bevuta: quello del poeta Alceo, che più di cinque secoli prima aveva inneggiato con corrispondenti parole greche alla morte del tiranno Mirsilo. Va rilevato che in entrambi i casi, sia in quello di Alceo sia in quello di Orazio, la propaganda politica faceva da sfondo alla gioia del canto: Mirsilo era l’avversario politico dell’aristocratico Alceo, che per screditarlo lo ingiuriava come capopopolo sobillatore. In verità Mirsilo e la sua fazione popolare non desideravano altro che sostituirsi nel potere a quell’aristocrazia di cui Alceo faceva parte e dei cui privilegi il poeta era uno strenuo difensore.
La stessa propaganda è sottesa al testo oraziano, che assimilava la regina d’Egitto a varie forme di male e di depravazione: ma era davvero il regno degli eunuchi orientali, quello di cui Cleopatra era espressione (così faceva intendere Orazio), o non era piuttosto un centro di potere alternativo a quello di Ottaviano, che Orazio stava diligentemente servendo anche con lo strumento della poesia? Se per Alceo l’idolo polemico era la pretesa tirannide di Mirsilo, per Orazio la forzatura politica era rivolta all’Oriente di Cleopatra.
In ogni caso, la ricaduta degli avvenimenti sui due poeti fu forte, coinvolgente, appassionante. E così entrambe le poesie invitavano alla bevuta delle grandi occasioni, quelle in cui si festeggiano gli avvenimenti epocali. Orazio auspicava da tempo l’arrivo di questo momento, visto che in una precedente lirica, l’epodo IX, si era chiesto quando sarebbe giunta l’ora di poter gustare, in compagnia dell’amico Mecenate, il Cècubo conservato per la festa. Era il vino delle grandi occasioni, naturalmente perché giudicato il migliore, quel Cècubo rinomato che proveniva dalle viti cresciute nel Lazio meridionale, tra Formia e Terracina.
É dunque il Cècubo, precisa Orazio, che sarà ora prelevato dalle cantine dove è stato lasciato a invecchiare a lungo, in attesa del momento adatto. Ora che la sperata vittoria di Ottaviano contro Antonio e Cleopatra si è realizzata, il Cècubo sarà stappato dall’ anfora dove la resina o la pece hanno permesso la conservazione; verrà poi filtrato con un colino prima di scendere nel cratere, dal quale i convitati attingeranno lietamente le coppe. E sarà il momento del simposio.
Giornale di Brescia, 25.5.2003.