Lettera 1233. Erasmo al suo Guillaume Budé

INTRODUZIONE ALLA LETTERA 1233

Guillaume Budé è coetaneo di Erasmo, essendo vissuto tra il 1468 e il 1540. È il maggiore tra gli umanisti francesi. Nato in una famiglia della borghesia parigina, studiò teologia a Parigi e diritto a Orléans. A partire dal 1491 si dedicò con grande impegno allo studio della lingua greca e latina, conquistando ben presto nell’una e nell’altra un primato che solo Erasmo, dopo parecchi anni, gli avrebbe potuto insidiare. Non è un caso che già nel 1497, quando Erasmo doveva stringere la cinghia e fare lezioni private per mantenersi agli studi a Parigi, Lefèvre d’Étaples poteva dedicare a Budé una traduzione di Aristotele con queste parole: “Tu conosci il greco come se fossi nato sul suolo dell’Attica, e il latino come se, nato nel Lazio, vi fossi stato educato dai maestri più dotti”. Nel 1508 apparve la sua prima grande opera, “Annotazioni sui libri delle Pandette”, che restituiva al testo la purezza originaria portando nella storia del diritto il rigore del metodo filologico. Nell’ “Asse”, pubblicato nel 1514-15, studiò il valore delle monete nel mondo classico, tentando di ricostruire le condizioni di vita nella società di quel tempo. Per Budé la filologia non è mera erudizione, ma strumento di accertamento, di critica storica e via al recupero della saggezza antica. Nello scritto su “Il giusto metodo per insegnare le lettere”, del 1527, e nel dialogo” Filologia”, che è del ’30, Budé esalta le potenzialità formative della nuova cultura, che egli definisce orbicularis, “circolare”, perché dà un tono e un metodo, una forza unificante a tutte le discipline. Erasmo, naturalmente, condivideva in tutto questi ideali, che aveva diffuso largamente in molti suoi scritti sul rinnovamento della cultura e dell’educazione. Nel 1535, un anno prima della morte di Erasmo, Budé pubblicò lo scritto “Sul passaggio dall’ellenismo al cristianesimo”, difendendo dalle accuse di eresia i suoi studi e con essi il programma dell’umanesimo cristiano.

Erasmo e Budé entrano in rapporto tra loro solo nel 1515 ed è l’olandese a fare il primo passo. Indubbiamente tra i due umanisti c’è accordo sulle questioni di fondo, come la preminenza dell’umanesimo cristiano, l’urgente necessità della riforma della Chiesa, la lotta contro i teologi oscurantisti. Erasmo, però, mentre apprezzava altamente i contributi scientifici di Budé e la sua padronanza della lingua greca, non aveva né competenza né interesse per gli studi giuridici e monetari dell’umanista francese, anche se non avrebbe mai osato confessarlo. Egli si rivolge a Budé perché vuol preparare il terreno alla corretta ricezione in Francia dell’opera che gli stava più a cuore, il Nuovo Testamento, pubblicato nel testo greco e latino; e l’umanista più autorevole di quella nazione, benché difensore della Vulgata di Gerolamo, era il solo che potesse far comprendere agli altri le intenzioni di Erasmo e la validità del metodo da lui seguito. La prima edizione del Nuovo Testamento conteneva, infatti, un caloroso elogio delle qualità intellettuali del francese, che gliene è molto grato: “Non posso esprimere – scrive Budé – quanto la tua recente lettera mi abbia reso tuo amico” (Ep. 403 del 1° maggio 1516). Poche settimane dopo, Erasmo comunica a Budé l’intento di pubblicare una riedizione del Nuovo Testamento e ne sollecita le osservazioni (Ep. 421).
A Budé Erasmo indirizza, nel settembre del 1521, l’Epistola 1233, una delle più accurate ed eleganti. Il tema centrale è uno solo: la novità assoluta ed esemplare dell’incantevole “utopia domestica” realizzata da More. Le idee di More sull’educazione delle donne sono fortemente in anticipo sui tempi ed Erasmo, che aveva reputazione di misogino, si converte ad esse con gioiosa adesione. In quel campo – scrive Erasmo – la netta superiorità dell’inglese rispetto a se stesso e a Budé va riconosciuta senza indugio alcuno. Il ritratto di More che Erasmo traccia per Budé rivela la simpatia di quell’uomo così pienamente virile nei confronti della donne: una simpatia che non è solo comprensione e apertura al loro mondo, ma anche umiltà. Egli è, infatti, uno di quei rari uomini che nell’età moderna abbia avvertito una perdita di umanità, e quindi un danno per tutti, là dove le donne – spose, madri, figlie – non abbiano interamente il posto unico e insostituibile che loro spetta nella famiglia, nella cultura, nella società. Da tale convincimento nasce la necessità di quell’educazione che More sarà tra i primi a voler impartire alle donne: un’educazione uguale a quella degli uomini, ma non ricalcata su di essa e rispettosa della vera femminilità. L’argomento, che era ben presente nella lettera a Ulrich von Hutten, trova qui uno sviluppo tematico; ciò fa dell’Epistola 1233 un documento di straordinaria importanza per cogliere un aspetto essenziale della personalità di More e del suo modo geniale di preparare un cammino di liberazione per l’altra metà del genere umano. Erasmo, del resto, parla qui per diretta conoscenza, perché quando era stato per mesi ospite nella casa di More, a Bucklersbury, era rimasto ammirato dell’atmosfera di gioia, della vivacità culturale, del gusto artistico e del fervore religioso di quella lieta brigata. Di tale esperienza egli serbava il più caro ricordo, avendo passato nella famiglia More le ore più belle della sua vita.

Quando si venne a sapere, in una conversazione occasionale, che Francesco I intendeva assicurare alla Francia “un vivaio di saggi”, nel circolo di Budé si cominciò a delineare, pur tra molte incertezze, l’ardito progetto di un istituto di cultura superiore aperto al nuovo, in opposizione alla Sorbona, “una vecchia – diceva Vives – in pieno delirio di senilità” (“Adversus pseudodialecticos”, 1520). Di quell’istituto, che poi sarebbe diventato celebre col nome di “Collège de France”, Budé scrisse ripetutamente a Erasmo, soprattutto nelle lettere inviategli nel 1517, proponendogli di trasferirsi a Parigi e di presiedere così alla sua nascita. Budé, però, puntualizzò con chiarezza che egli era solo un discreto intermediario, non un garante, e che pertanto non dipendeva da lui dargli alcuna assicurazione. Occorreva, perciò, la massima prudenza: “Se tu accetti, fatti precisare prima dal principe le condizioni” (Ep. 522). Da parte sua Erasmo, pur ringraziando per l’offerta, prende tempo, chiede di consultarsi con gli amici e anche con Enrico I non si sbilancia. Dice solo: “Vorrei essere degno dell’invito fattomi” (Ep. 533). In effetti, Erasmo non vuol offendere gli amici francesi con un netto rifiuto, ma è anche vero che nessuno di essi era in grado di sostenere fino in fondo presso il re la sua candidatura a maître del nuovo istituto. Frattanto, nel marzo 1519 declina la proposta, ben altrimenti seria, che gli veniva fatta da Vienna, di essere il precettore dell’arciduca Ferdinando. L’olandese intende consacrare tutte le sue forze esclusivamente al lavoro intrapreso, libero da qualsiasi altro vincolo: è, infatti, per lui del tutto inconcepibile vivere a stretto contatto, o peggio alle dipendenze, di una qualsiasi corte, regale o pontificia che fosse. Dal canto suo Budé, malgrado le difficoltà che si opponevano alla realizzazione del progetto, non intende rinunciarvi e nella prefazione alla grande opera dei “Commentari della lingua greca”, che è del 1529, così torna a ricordarlo al sovrano: “Noi ti abbiamo presentato la filologia come una fanciulla povera, da maritare, a cui ti abbiamo pregato di far la dote. Tu ci avevi promesso, con quella bontà naturale e spontanea che ti è propria, che avresti fondato una scuola, un seminario di dotti, di eruditi famosi. Ci avevi detto che avresti ornato la tua capitale con questo istituto […]. Ci avevi promesso che sarebbe sorto un magnifico edificio, in cui sarebbero state insegnate le due lingue [latina e greca]. In questo tempio dei buoni studi tu dovevi offrire, a quanti vi si dedicassero, un mantenimento conveniente e gli agi necessari: il numero dei membri di tale comunità consacrata a Minerva e alle Muse, non l’avevi limitato; avevi deciso che sarebbe stato cospicuo. Ecco quello che ci avevi promesso!” Nel 1530 Francesco I finalmente istituiva i “lettori reali”, che furono in origine tre per il greco, due per l’ebraico, uno per la metematica. L’anno seguente nasceva il Collège royal de France che, dal tempo della Rivoluzione in poi, sarà chiamato Collège de France.
.
I due umanisti avevano concluso tra loro un patto d’amicizia, che li autorizzava a criticarsi reciprocamente in piena libertà (Ep. 493 del 26 novembre 1516). In Budé, tuttavia, la franchezza familiare spesso cedeva il posto a qualcosa d’altro: egli arrivava allora a mettere in dubbio il valore di alcuni scritti a cui Erasmo teneva di più e a rivendicare non solo i propri meriti, com’era legittimo, ma una sorta di primato nei confronti dell’amico (Ep. 531). Erasmo reagiva con l’arma dell’ironia e Budé, offeso, minacciava allora di rompere. L’olandese, però, vedeva giusto quando confidava a Vives: “Budé non giungerà mai a inimicarsi Erasmo, anche se ha lanciato contro di me crudeli invettive: ci vuole ben altro che una scaramuccia letteraria per separare dei cuori uniti dai legami delle Grazie” (Ep. 1066). La lettera a Vives porta la data del 17 febbraio 1520, quando i rapporti tra i due sembravano, almeno per il francese, irrimediabilmente compromessi; ma l’anno seguente è proprio all’illustre e permaloso Budé che Erasmo invia uno degli scritti più belli che siano usciti dalla sua penna, l’Epistola 1233, a celebrazione di More, il più caro e affascinante degli amici.

ERASMO AL SUO GUILLAUME BUDÉ

Anderlecht, [forse nel settembre] 1521.

Recentemente, trovandomi a Bruges tra i molti che erano al seguito dell’imperatore, ho preso più lepri in una stessa tana, come dice il proverbio, cioè ho salutato in una sola volta un gran numero di amici. Tra questi cito in primo luogo un amico tanto autorevole quanto affettuoso e ben degno egli stesso di affetto, il reverendissimo cardinale di York, che il nostro Carlo ha ricevuto con onori regali in quanto incaricato di un’ambasciata a nome del suo sovrano. Erano presenti, insieme a moltissimi altri, che non nomino perché a te sono ancora sconosciuti, Cuthbert Tunstall, Thomas More e William Mountjoy. In cuor suo Thomas More aveva fortemente sperato di incontrarti tra i membri della delegazione francese a Calais. L’arrivo del cardinale mi fece particolarmente piacere perché mi aspettavo che, con la sua accortezza e autorità, riuscisse a comporre quelle contese che, con grande pericolo dell’umanità, oppongono fra loro i principi più potenti della terra. Purtroppo, se guardiamo a come vanno le cose oggi, non ho ragione alcuna per sperare, a meno che un Deus ex machina non volga verso il meglio i nostri disegni. Ma le agitazioni dei re non devono avere il potere di annullare i patti delle Muse.
Ci sono persone che intrigano perché l’imperatore e il re di Francia non si accordino nel modo migliore: costoro, con un’astuzia degna di chi abbia animo di tiranno, coltivano il vivaio delle discordie allo scopo di consolidare il loro dispotismo, mentre noi esauriamo le nostre forze a litigare. Tu indovini, ne sono certo, a chi mi riferisco. Che i due principi se ne accorgano prima che sia tardi, in modo da non dover poi dire, con una saggezza inutile e pagata a caro prezzo, perché tardiva: ”Non ci avevo pensato!”.
Tu fai bene a felicitarti con More. In effetti, senza che egli lo avesse domandato o sollecitato, il re gli ha conferito un prestigioso incarico, aggiungendovi un trattamento che non è per nulla da disprezzare: è diventato il tesoriere del suo principe. Per gl’inglesi questa funzione è tra quelle che sono più ambite e che danno più lustro, ma è anche esposta all’invidia e a spiacevoli manovre. C’era un concorrente, un uomo che godeva di largo credito, che ambiva talmente a ricoprire quella carica che ne avrebbe pagato di tasca sua le spese per gestirla. L’eccellente re, tuttavia, dette una prova irrefutabile della predilezione per More, preferendo aumentare lo stipendio a chi non aveva brigato per ricoprire quel posto piuttosto che assegnarlo a chi lo avrebbe tenuto gratuitamente. Non contento di ciò, nella sua grande benevolenza il principe vi aggiunse la dignità di cavaliere; e non si può dubitare che, presentandosene l’occasione, egli non finisca per mettere nelle mani di More altri onori supplementari, anche se è molto più agevole per i principi conferirli a persone celibi. More, invece, appartiene pienamente all’ordine dei coniugati, da cui non riuscì a distaccarlo neppure la morte della moglie: perduta la giovane donna che aveva sposato, essendo divenuto vedovo, ha preso in moglie a sua volta una vedova.
Io, però, aggiungerei ancora un motivo per rallegrarmi con More del favore che gode presso il re, perché ciò che accresce la sua autorità e liberalità si traduce in beneficio per gli studi umanistici; More, in effetti promuove quegli studi con un impegno tale che, se i mezzi finanziari fossero all’altezza dei desideri, non mancherebbe ai giovani inglesi che abbiano ingegno un mecenate imparziale e generoso. Può accadere che alle corti dei principi si proceda allo stesso modo dei medici: costoro cominciano prima di tutto a liberare il corpo affidato alle loro cure e subito dopo lo nutrono, cercando poi di rinvigorirlo. A More fino a questo momento è capitato di fare qualcosa di simile e, per l’esperienza che tu hai, conosci meglio di chiunque altro quanto ciò sia difficile. Tuttavia quelli che hanno testa si sono resi conto della bontà di More: lo hanno compreso soprattutto quando, essendo gravato da debiti, era ben lontano dall’avere in abbondanza e tuttavia continuava a largheggiare.
More, dottissimo egli stesso, è l’ornamento del mondo degli studi e non solo perché accorda imparzialmente il suo appoggio a tutti gli studiosi: lo è anche perché provvede accuratamente a istruire a fondo tutti i membri della sua famiglia negli studi letterari più elevati. Egli ci dà così l’esempio di qualcosa di assolutamente nuovo che, se non m’inganno, tra breve tempo sarà imitato da molti, tanto più che l’esperimento è felicemente riuscito. Delle tre figlie di More Margaret, la primogenita, è già maritata a un giovane che prima di tutto è un uomo felice, poi di grande integrità morale e misura nel modo di agire; e non è estraneo neppure ai nostri lavori intellettuali. Di tutt’e tre le figlie More si è preso cura fin dalla loro più tenera età, provvedendo a formarle innanzi tutto a una vita pura e santa, poi a una cultura letteraria di squisita finezza. Alle tre figlie egli aggiunse una quarta, che alleva per generosità, perché si faccia compagna alle altre. Della sua famiglia fa parte anche una figlia della seconda moglie, una ragazza di stupenda bellezza e di rara intelligenza, maritata da qualche anno a un giovane non privo di cultura, la cui condotta di vita vale più dell’oro. Il più giovane dei figli di More, nato dal primo matrimonio, è un maschio sui tredici anni.
Meno di un anno fa More mi mostrò qualche saggio dei loro progressi letterari. A tutti prescrisse di scrivermi, ciascuno secondo i propri mezzi; l’argomento non fu imposto e i loro elaborati non furono rivisti neppure a voce. Quando sottoposero per la correzione i loro fogli al padre, questi si mostrò dispiaciuto per la cattiva scrittura e ordinò di ricopiarli diligentemente, in modo più leggibile. Quando ciò fu fatto, egli, senza cambiare neppure una sillaba, sigillò le lettere e me le inviò. Credimi, Budé, non v’è nulla che mi abbia sorpreso tanto. Riguardo ai contenuti, nulla c’era di infantile o detto a sproposito; lo stile, poi, era tale da evidenziare i passi avanti compiuti giorno dopo giorno. Questa è l’amabile schiera che More riunisce sotto uno stesso tetto, insieme ai mariti delle figlie. Nella sua casa tu non vedrai nessuna donna starsene oziosa, nessuna che si perda in futilità da donnicciola. Esse possono anche avere tra le mani un libro di Tito Livio, perché hanno compiuto progressi tali da saper leggere e comprendere senza traduzione autori di quel livello, a meno che ci si imbatta in espressioni che darebbero da pensare anche a me o ad altri.
La moglie, che non è donna di cultura ma ha talento naturale e senso pratico, governa tutta la famiglia con ammirevole abilità: in essa adempie per così dire l’ufficio di “reggente”, assegnando a ciascuno un compito ed esigendone l’adempimento, senza permettere ad alcuno di starsene in ozio e di perder tempo in sciocchezze.
Nelle tue lettere dici spesso che la filologia non gode di buona reputazione presso di te perché ti arreca due mali: ti rovina la salute e, per le spese che comporta, intacca i tuoi beni di famiglia. More, invece, riesce a organizzare la sua vita in maniera da godere la stima di tutti e sotto ogni aspetto, dichiarando apertamente che deve alla sua formazione umanistica l’equilibrio che gli assicura una salute prospera, l’affetto e la stima del migliore dei re, un patrimonio più consistente, nonché la simpatia e la benevolenza di chi gli sta vicino e di chi gli è lontano. Viene così a trovarsi in una posizione ideale: non solo si rende più accetto a se stesso e agli amici, ma è anche in grado di rendere il servizio migliore alla patria, ai familiari e ai parenti acquisiti. Riesce persino a intrattenere le relazioni più adatte con la corte e l’alta società. In una parola, egli è l’uomo che sa affrontare ogni situazione ed è, infine, il più gradito a Dio. Una volta gli studi avevano una cattiva reputazione, perché si pensava che facessero perdere il buon senso a chi vi si dedicava: ebbene, More è uno che coltiva gli studi con passione, al punto che non c’è viaggio da intraprendere, né affari da trattare, per quanto numerosi e difficili, che possano strappargli i libri di mano; eppure difficilmente tu troverai qualcuno che sia come lui l’uomo di tutti in ogni momento. Nessuno, infatti, è pronto come lui a compiacere gli altri, a venir loro incontro, ad essere più vivace nella conversazione; nessuno come lui sa unire una saggezza così autentica a tanta cordiale gentilezza. Grazie a queste sue qualità è successo che, mentre prima l’amore per le lettere era considerato del tutto inutile per la vita, perché non sembrava essere né un suo sostegno né un suo ornamento, adesso non vi è nessuno tra gli stessi nobili che consideri i figli degni dei loro avi, se non sono istruiti nelle buone lettere. C’è di più: ai sovrani sembra che manchi parecchio allo splendore della loro regalità, se la loro cultura umanistica lascia a desiderare.
In quasi tutti gli uomini era radicata l’opinione che lo studio delle lettere non giovasse alla purezza d’animo e alla buona reputazione delle donne. Una volta neppure a me ripugnava una simile maniera di pensare ed è stato More in effetti a strapparmela via dall’animo. I due fattori che minacciano pericolosamente la purezza delle ragazze sono, a veder bene, l’ozio e i divertimenti sfrenati; l’amore delle lettere ci protegge, invece, dall’uno e dagli altri. Non vi è nulla che preservi il buon nome e l’integrità morale di una giovinetta quanto una condotta incontaminata; né vi sono ragazze più saldamente caste di quelle che lo siano per consapevole scelta. Non disapprovo neppure il parere di chi pensa che giovi alla loro onestà praticare lavori manuali; rimane vero, però, che nulla occupa così interamente il cuore di una giovinetta come lo studio. Grazie allo studio, gli animi si sottraggono a un ozio pernicioso e si lasciano penetrare dai migliori precetti, che indirizzano a una vita buona suscitando entusiasmo per essa. L’ingenuità e l’ignoranza dei fatti causano in molte ragazze la perdita della purezza prima ancora che arrivino a comprendere da quali pericoli sia minacciato un tesoro così grande. Non capisco poi per quale ragione i mariti dovrebbero temere di avere mogli meno esemplari per probità solo perché istruite, a meno che non abbiano la pretesa di assoggettarle a imposizioni indegne di un’onesta sposa. Penso che niente sia più difficile che aver a che fare con degl’ignoranti e che un animo esercitato negli studi abbia senza dubbio il vantaggio di poter ragionare in modo corretto e onesto, ed anche di saper discernere quello che è giusto e conveniente: è proprio vero, infatti, che chi ha dato un insegnamento, ha quasi fatto nascere anche una convinzione. L’incanto e la solidità di un matrimonio procedono soprattutto dalla buona disposizione d’animo dei coniugi più che dall’amore carnale; i coniugi tra i quali ci siano effettive consonanze intellettuali sono uniti tra loro da legami molto più solidi e una donna è portata a rispettare di più il marito, se vede in lui anche chi può guidarla nel lavoro intellettuale, né sarà meno pia perché meno superstiziosa. Per quanto mi riguarda [poiché non è il numero delle pratiche di pietà che conta, ma la loro qualità], io preferisco un solo talento d’oro puro a tre talenti falsi, in cui l’oro sia mescolato al piombo e a scorie.
Si sente dire qua e là che alcune donne, dopo aver ascoltato un sermone, vanno ripetendo al ritorno quello che il predicatore ha lumeggiato così bene; in realtà esse riescono anche a rendere con precisione, come in un disegno, l’atteggiamento e l’espressione del volto di chi ha parlato, ma per il resto non sanno dirci che cosa sia stato detto e in che modo. Le donne, invece, di cui ti sto parlando sono in grado di riferire un sermone quasi per intero, nel suo ordinato svolgimento, e sanno anche giudicarlo. Se il prete, parlando a vanvera, si lascia andare a dire stupidaggini, cose empie o strampalate – e accade più di una volta ai nostri giorni – loro, a seconda dei casi, se la rideranno, o non prenderanno nemmeno in considerazione quanto hanno udito, o addirittura ne proveranno orrore. Ecco che cosa significa “ascoltare” un sermone! È una gioia vivere con donne del genere. Devo, perciò, esprimere il mio totale dissenso da quanti credono che una moglie serva solo a soddisfare le loro voluttà, come se a ciò non fossero più adatte certe pazzerelle semifatue. Occorre soprattutto un cuore a una sposa che voglia mantenere la famiglia sulla giusta via, guidare e formare dei figli, accontentare in tutto il marito. Nel corso di una recente conversazione, posi a More questa domanda: “Se ti capitasse di perdere delle persone che ti sono care, e può succedere a chiunque su questa terra, la loro morte non colpirebbe te più terribilmente di chiunque altro, proprio perché tu ti sei impegnato a fondo per la loro crescita spirituale e umana?”. Mi rispose immediatamente: “Anche di fronte all’inevitabile, preferisco che esse muoiano istruite piuttosto che ignoranti”. Mi venne allora in mente all’improvviso una frase che, se non sbaglio, è di Focione, il quale la pronunciò mentre beveva la cicuta. Alla moglie che gridava: “Povero marito mio, tu muori innocente!”, egli rispose: “Ma che dici, donna? Avresti forse preferito che morissi colpevole?”.
A poco a poco un pensiero si insinua talora nel mio animo: mi piacerebbe tracciare il profilo parallelo di voi due, entrambi eccezionali campioni impegnati in una battaglia che è la stessa ed è ben degna di lode. Sarebbe come mettere di fronte l’uno all’altro [Marco Furio] Camillo e Scipione l’Africano. Per tanti anni e in tempi più difficili ti sei battuto contro i nemici delle buone lettere e sotto questo aspetto sei superiore a More; tuttavia quello che tu hai tentato di fare solamente con i tuoi figli e fratelli, More non ha esitato a compierlo con le spose e le figlie, intrepidamente incurante delle critiche che gli vengono mosse per questa sua esemplare novità. In ciò egli ti è, a sua volta, superiore. Con le opere che hai pubblicato tu, però, hai arricchito più di lui i tesori delle due lingue e in avvenire, come ci ripromettiamo, li accrescerai sempre di più, se finalmente tirerai fuori dai cassetti le tue ricchezze e ti deciderai a renderne partecipi gli altri con generosità. È vero, la gioventù studiosa attende da More ancora qualcosa di grande, perché egli è ben lontano dalla vecchiaia e suo padre che, come io credo, avrà all’incirca ottant’anni, è un vegliardo così incredibilmente robusto che si farebbe fatica a trovarne uno che porti meglio i suoi anni: la qual cosa ci autorizza a prevedere anche per More una lunga vita. Sono certo che su di un punto tu puoi portare un grande contributo agli studi greci, se non ti limiterai a fare per nostra utilità l’inventario di termini in vista di un lessico assai ricco: tu devi spiegare di quella lingua anche ciò che non è a tutti evidente, come i caratteri tipici, le costruzioni particolari e le figure retoriche. So che è un lavoro al di sotto della tua fama e che può sembrare assai modesto; credo però che, quando l’interesse generale lo richieda, sia degno di un uomo superiore abbassare talvolta se stesso. È quello che Platone esige dal suo saggio.
Aleandro da parecchio tempo si trova da queste parti, ma finora ha avuto pochi contatti con me, perché del tutto assorbito nell’affare luterano, nel quale si è mostrato coraggioso e determinato. Quando abbandonerà questo incarico, o piuttosto quando lo lascerà avendone adempiuto gli obblighi, sarà possibile godere della sua compagnia piacevole e insieme dotta. Nell’arena letteraria Vives prosegue attivamente la sua corsa e con successo; conoscendo abbastanza il suo carattere, sono certo che non se ne starà quieto finché non avrà lasciato tutti dietro di sé. Io poi voglio bene a te e a voi tutti [, amici parigini,] perché, grazie al vostro buon senso, siete venuti a capo di De Brie, e amo De Brie perché si è arreso ai consigli degli amici. D’altra parte More, incapace com’è di serbar rancore, avrà certamente dimenticato quella piccola disputa che c’era stata. Mi ha arrecato vivo piacere apprendere che, seguendo il tuo esempio, De Brie si sta esercitando anch’egli a scrivere nelle due lingue e non dubito affatto che porterà a buon fine quello che tu per primo – non solo in Francia, ma nel nostro tempo – hai osato intraprendere con ardore giovanile e con molto successo. Risponderò alla sua lettera umana e dotta appena avrò un po’ di tempo libero.
Scrivo queste righe dalla campagna di Anderlecht dove, spinto dal tuo esempio, anch’io cerco di condurre una vita campestre; possa anch’io, come te, costruirmi una casa in campagna. Comunque vada, a me questo soggiorno fa tanto bene che ormai sono deciso a tornarvi ogni anno. Sta bene.

Il testo completo di note, reperibile nel file allegato, è tratto dal volume “Erasmo da Rotterdam. RITRATTI DI THOMAS MORE” con saggio introduttivo, traduzione e commento di Matteo Perrini (La Scuola Editrice, Brescia, 2000). Il volume è fuori commercio.