«Era di statura inferiore alla media, di forme tozze, sguarnito di capelli al sommo del capo, il volto non bello ma animato da due occhi scuri, due pupille dove brillava una luce profonda e viva ch’era d’intelligenza e di bontà. La sua parola aveva qualcosa d’impetuoso e di violento in cui si sentiva tutta la tensione dell’essere; non si preoccupava della frase, né dell’immagine, ma lasciava scaturire senza ritegno la sua emozione con la forza di quelli che non si dominano e si fanno trascinare dalla passione invece di moderarla». Così descriveva Gaetano Salvemini, in un libro di memorie (Annali di un pugliese d’altri tempi, Bari, 1972), Giuseppe Caiati che aveva incontrato l’illustre storico nel 1912 in casa di amici e n’era rimasto soggiogato. Il ritratto è veramente felice.
Ma non meno parlante è l’autoritratto che Salvemini schizza quando scrive ai suoi amici più fidati come «gli ditta dentro». Il figlio di Giuseppe Caiati, Domenico, è entrato in possesso, per lascito, di alcune lettere scritte tra il 1910 e il 1919 da Salvemini all’amico che meglio esprimeva in Puglia l’ansia di servire il popolo e di educarlo all’autonomia, all’esercizio del potere, alla difesa organizzata dei propri legittimi interessi: Giovanni Modugno. Le diciassette lettere si possono ora leggere nella rivista di studi storici «Storia contemporanea, 1988, n. 3».
Da quelle lettere, buttate giù in gran fretta e spesso in condizioni di grande stanchezza, il lettore avverte la capacità di sintesi, la forza morale, la meravigliosa concretezza dei due interlocutori, storico di razza e combattente indomito Salvemini, educatore e filosofo Giovanni Modugno, l’uno e l’altro fraternamente uniti nel servire il proletariato indifeso con una totale mancanza di ambizioni e calcoli. Il loro sodalizio e le loro lotte costituiscono un capitolo esemplare nella storia del nostro Paese, e in particolare del Sud, una lezione per tutti.
All’invito rivoltogli nel 1912 da Modugno a candidarsi nel collegio di Bitonto, Salvemini risponde: «Sentir parlare di candidature mi fa venire il freddo nella schiena. Sento di non potermi sottrarre a questa nuova passione. Eppure vorrei non accettarla e sfuggirla». E ne dà la ragione: «L’esperienza di Albano mi riuscì così angosciosa, che non so dove ritroverò la forza di ricominciare da capo». Quale fu «l’esperienza di Albano?». Nel 1910 Salvemini era stato candidato dei socialisti nel collegio uninominale di Frascati-Albano. Rimasto solo in ballottaggio contro il candidato giolittiano Valenzani, probabilmente sarebbe stato eletto se, alla vigilia del voto, non si fosse ritirato avendo saputo che i suoi sostenitori, per neutralizzare le frodi degli avversari, intendevano anch’essi ricorrere a mezzi illeciti.
Nel gruppo di lettere del periodo in cui l’Italia è impegnata nel conflitto gli errori del Partito Socialista ufficiale sono denunciati e il dramma del dopoguerra è già delineato con chiarezza. «I capi – scrive nella lettera del 26 settembre 1916 – non vedono che la speculazione elettorale… Potevano rimanere neutralisti, in una crisi come questa, e lavorare per rafforzare gli elementi antimperialisti. Invece se ne stanno alla finestra a ridere sguaiatamente e stupidamente». Il 12 agosto aveva acutamente osservato: «I contadini che torneranno dalla guerra, non saranno certo riconoscenti a chi ce li ha mandati; né avranno voglia di ritornarci; ma saranno fieri di esserci stati; il cuore umano è pieno di queste apparenti contraddizioni». L’onestà di Salvemini lo induce ad esprimere riserve e preoccupazioni sulla concessione del suffragio universale prima che si riesca a creare una coscienza etico-politica del popolo. «Io avrei desiderato – scrive Salvemini – un suffragio universale conquistato con una mezza dozzina d’anni di agitazione. Così come ci capitò adesso, è un pranzo offerto alle otto di mattina» (lettera del 13 settembre 1916).
Salvemini forgiò uno strumento di educazione politica e di lotta veramente unico, l’Unità, e quel «lavoro penosissimo» lo assorbì interamente. «Ho la coscienza – scrive al carissimo Modugno – che sia quello il solo giornale democratico in Italia oggi… Il nostro giornale dovrebbe essere la luce del Mezzogiorno. Ma solo a Torino si vendono tante copie quante in tutto il Mezzogiorno!» (lettera del 26 maggio 1917). La coscienza di dover affrontare la lotta politica in Parlamento si fa dolorosamente acuta alla conclusione del conflitto.
«L’idea di una lotta elettorale mi spaventa più di quella di un inverno sul Carso» – confida all’amico il 20 dicembre 1918. Ma poi qualche mese dopo si arrende alle affettuose insistenze degli amici. La lettera del 19 marzo 1919 è veramente rivelatrice di un tipo di umanità e di uno stile di cui non si deve perdere la memoria. «Da Bitonto ho ricevuto un telegramma, in cui mi si annuncia che è proclamata la candidatura mia. E subito dopo un espresso per dirmi che per domenica io sia a Bitonto a concionare! Non sanno ancora laggiù che io devo guadagnarmi la vita facendo il professore, e non posso spendere da un momento all’altro 200 lire – ché tante oggi ne occorrono! – per saltare da Firenze a Bitonto». Sono espressioni che rivelano la grandezza cristiana di quel pugnace laicista! La sua vocazione al rigore morale si traduceva in modo di far politica, volontà di render conto alla gente delle idee e degli impegni prima ancora di accettare la candidatura. «E prima di accettare, vorrei venire a parlare in pubblico, tastare il terreno, vedere la folla in che condizione è di spirito. Vorrei venire a dire: so che mi avete proclamato; ma prima di accettare devo dirvi quel che ho fatto, quel che farei, di che mi si accusa, come mi difendo; ora riunite un’altra volta le organizzazioni, e dite se mi volete sì o no: solo se mi riconfermate, accetto. Non ti pare che occorra seguire questa procedura?».
Sì, caro maestro, abbiamo ancora oggi bisogno di quelle procedure e di quella dirittura da cui la cosiddetta «politica-spettacolo», la «politica-affari» di tanta parte dell’attuale classe politica italiana sono abissalmente lontane. Non mancano neppure oggi degni rappresentanti della nazione. A loro diciamo: non mollate! Che l’Italia dei Salvemini, dei Turati, dei De Gasperi e dei Vanoni sia anche la vostra! Se aveste più fiducia nel popolo e nella sete di pulizia morale, le vostre decisioni sarebbero assai più coraggiose. Fate che la speranza vinca in noi la nostalgia.
Giornale di Brescia, 21 maggio 1989.