Parlare di anima è parlare di uno dei temi fondamentali della storia della filosofia. È un tema che si inaugura con l’inizio della filosofia occidentale e continua tutt’ora ad interrogarci. Questa questione non smette di tormentarci.
Si possono tracciare degli elementi di continuità nella molteplicità, non c’è un discorso sull’anima, ci sono molti discorsi sull’anima. Un tema comune a questa molteplicità è la comprensione di sé, l’autoriflessione. Questo tema nasce in Grecia; nasce come consapevolezza che qualunque tesi si sostenga la si deve argomentare e giustificare, la filosofia nasce quando ci si rende conto che non basta la verità rivelata, ma la verità va argomentata, fondata. Il luogo della fondazione della verità è l’anima, idea che comincia ad emergere con i presocratici. In particolare, con Eraclito, detto l’oscuro, il quale dice una cosa molto importante: il logos è il luogo in cui si produce una conoscenza peculiare. Questo tema del logos (= discorso, ragione etc.) intercetta immediatamente la parola psyche, che nel greco più arcaico indica lo spirare dello spirito vitale, la psyche si mostra quando la si perde, quando il soggetto muore. Questo termine si carica però di un valore nuovo, il cui senso peculiare è analizzato per la prima volta da Socrate, il quale prende questo sapere tradizionale di natura religiosa e lo converte in un problema filosofico, ne fa il luogo in cui qualcuno chiede conto a sé di ciò che dice, di ciò che sa e di ciò che non sa. Si crea qui un cortocircuito in cui l’anima si carica di un significato che non aveva, l’anima diventa un concetto con cui la filosofia nascente riesce a dare una configurazione al proprio operare. L’anima è soggetto e oggetto di sé stessa, è colei che dice chi è, esamina quel particolare oggetto, che è il suo proprio interrogarsi, allo scopo di fondare questo stesso interrogare. In questo l’anima assume una valenza inaudita, con Socrate si dà per la prima volta questa idea nuova per cui di ogni sapere possiamo fornire dei criteri, ma di questo peculiare sapere dobbiamo dare dei criteri peculiari per il fatto stesso che diciamo anche il nostro dire, diamo ragione di ciò che diciamo.
Da Socrate in poi troviamo delle figure essenziali che si pongono la domanda sull’anima. Con Platone abbiamo un’elaborazione sistematica di quest’idea socratica di anima in almeno tre momenti fondamentali. Nel Fedone, dove dimostra l’immortalità dell’anima e lo fa con un argomento interessantissimo nella sua semplicità: l’anima è vitale e per questo non può perire, il corpo muore, ma l’anima no. Platone prende il discorso socratico dell’anima che indaga sé stessa e ne fa una elaborazione che ha delle ripercussioni che si estendono a tutta l’indagine sul reale e questo avviene nella Repubblica. Qui Platone elabora una teoria ardita dell’anima, la quale è articolata in tre parti tra loro in conflitto. Platone è costretto a vedere nell’anima qualcosa di conflittuale, anche quando conosciamo il male e quindi potremmo evitarlo, a volte lo compiamo, l’anima è internamente travagliata da un conflitto. Platone sostiene questa tesi straordinaria per cui dell’anima ci sono tre parti, figurativamente espresse nel Fedro con il carro guidato da un auriga e trainato da due cavalli alati. Fuor di metafora possiamo dire che l’anima è composta da una parte che ragiona e che sa cos’è il bene, ma che ha bisogno, per agire, di due altre componenti che non sanno, ma fanno e queste due parti sono i due cavalli: da una parte il cavallo bianco, che è l’anima volitiva e dall’altra il cavallo nero, che è l’anima desiderante e trascina il carro verso il basso. Qui c’è un conflitto intrapsichico che dà luogo ad una grandiosa teoria dell’anima in senso politico perché nello stato ideale chi possiede un’anima in cui prevale la parte razionale dovrebbe essere posto a governare. Questo è un argomento interessante perché a volte Platone è stato accusato di essere un pensatore conservatore e oligarchico, in realtà lo si può vedere come un rivoluzionario perché afferma che chi è dotato di un’anima razionale dovrebbe governare, qualunque sia la sua origine. Platone vuole costruire una teoria complessa per la quale da una parte c’è una politicizzazione dell’anima e dall’altra c’è una psicologizzazione della politica. Adduce quindi ulteriori considerazioni alla teoria socratica.
Aristotele non vede di buon occhio la teoria platonica dell’anima. Teorico del giusto mezzo, identifica la virtù come evitamento degli eccessi, elabora anche lui una teoria dell’anima tripartita, ma diversa da quella platonica, la quale svaluta il corpo, tende a pensare che il corpo sia la tomba dell’anima, anche se nel Timeo abbiamo una ricomprensione platonica del corpo. Aristotele per evitare questi eccessi platonici elabora una teoria dell’anima in cui prevale la connessione con il corpo. Nel De anima (trattato di biologia) Aristotele si chiede retoricamente che cos’è l’anima dell’occhio e la risposta è la vista, l’anima è un’attività o una funzione, l’anima è la forma del corpo che ha la vita in potenza, l’anima è la condizione strutturale dei corpi che vivono, non tutti i corpi hanno un’anima perché non tutti i corpi vivono. Tutti i corpi che vivono sono animati. L’anima non è una prerogativa dell’essere umano.
Tripartizione dell’anima in Aristotele: anima vegetativa, che riguarda tutti i corpi viventi in quanto tali, prerogativa biologica, vegetare significa nutrirsi e mantenersi in vita; anima sensitiva, ovvero sentire (avere delle sensazioni) e muoversi (capacità di spostarsi) elemento di autodeterminazione, corpi che sono in grado di muovere sé stessi; anima razionale/intellettiva, da una parte passiva e dall’altra attiva, ma in Aristotele l’intelletto attivo è unico, non è individuato, e questa è una parte del pensiero aristotelico che ha creato non pochi dibattiti; probabilmente con l’intelletto attivo intende una parte divina che abita l’uomo. In Aristotele la questione dell’individuazione dell’anima è ambigua, mentre in Platone ognuno di noi ha la propria anima, la quale si reincarna dopo la morte, in Aristotele le cose non sono così chiare proprio perché questo intelletto attivo non è individuato. Aristotele naturalizza la concezione dell’anima in quanto ne fa il principio della vita biologica. Ciò crea problemi a quei filosofi medievali che volevano usare la filosofia di Aristotele per giustificare la fede con la ragione, in quanto si trovano di fronte al problema che Aristotele sostiene la mortalità dell’anima.
La filosofia greca vede in queste due grandi figure le sue espressioni maggiori, ma non le uniche. Dopo Aristotele la filosofia cambia di natura, le repubbliche greche perdono la loro autonomia e il discorso politico perde di efficacia a favore di una meditazione quotidiana e della cura dell’esistenza individuale (stoici, epicurei ecc.).
La filosofia antica trova un’ultima grande stagione con il neoplatonismo, dove Plotino riprende il concetto platonico di anima, soprattutto l’idea che l’anima è questo principio che permea l’esistenza e ne fa qualcosa di diverso dalla mera esistenza corporea. Plotino ha un modo di parlare dell’anima che è sorprendente. Noi siamo abituati a pensare all’anima come situata nel corpo: per Plotino è il corpo che è nell’anima, perché il corpo è soltanto una manifestazione più lontana del principio che governa la realtà, che è l’Uno, di cui l’anima è un’ipostasi, ovvero una manifestazione derivata. L’uno è la realtà in quanto tale, è traboccante di sé e si sviluppa in ipostasi, ovvero in progressive manifestazioni, tra cui c’è l’anima, che da una parte è volta verso l’uno ed è quindi unica, ma dall’altra è volta verso la materia e quindi è molteplice, per questo il corpo è nell’anima.
Plotino è uno dei grandi ispiratori di Agostino, il quale vuole contemperare il sapere razionale con la rivelazione cristiana e lo fa in questo modo grandioso per cui ne La città di Dio identifica il disegno divino come l’attuarsi di una storia che ha un inizio e una fine, introducendo l’idea di un tempo lineare. I greci essenzialmente conoscevano un tempo ciclico, un tempo che torna, Agostino introduce l’idea della storia divina e della sua efficacia sulla storia umana. Come fa a giustificare questa tesi? Il disegno divino, la storia, è comprensibile all’essere umano, che è dotato di un’anima, che è pensata in modo innovativo. L’anima umana è articolata temporalmente e quindi può essere il luogo della manifestazione della storia, in quanto ne conosce il senso. L’anima umana è tripartita in base al tempo, è il luogo in cui si conoscono le dimensioni del tempo, l’anima sa di sé in quanto volta sempre sia al momento presente con la consapevolezza, ma anche al passato con la memoria e al futuro con l’attesa e questa attesa consente di conoscere il disegno divino perché l’uomo sa che la storia ha un senso, una direzione, un significato.
Agostino elabora una teoria che ha due effetti fondamentali: l’introduzione del concetto di tempo in connessione all’anima stessa, l’anima è un’autoconoscenza che si articola nel tempo (memoria, attenzione e attesa). Così intesa l’anima è il luogo in cui Dio si manifesta “Torna in te stesso, la verità non abita l’esterno, ma l’uomo interiore”, dice Agostino nella Confessioni. L’anima è il luogo in cui si dà Dio, Dio si dà nella consapevolezza, nell’io c’è Dio. Introduce così l’elemento dell’io ed apre un campo di indagine enorme. Dobbiamo ricordarci che certe parole non sono sempre esistite, il ruolo dell’io è qualcosa che è emerso progressivamente, in Agostino comincia ad avere un peso. Agostino non vuole fare dell’io un luogo di valore assoluto, questo è un compito che sarebbe stato intrapreso dopo, in una stagione diversa; ma, dicendo che Dio si manifesta nell’io, Agostino apre ad una riflessione sull’io. Per un greco riflettere sul proprio io era cosa ignobile. Il messaggio cristiano è un messaggio di valorizzazione di chiunque, siamo tutti figli di Dio, e così questa idea dell’io si carica di una valenza diversa perché l’io, qualunque io, ha un senso, un valore. Questo io comincia ad avere un senso, una storia, al di là delle diverse vicende vissute da ognuno. L’universale è nel singolare, c’è una connessione tra l’universalità e la singolarità.
Un altro autore fondamentale è Cartesio, il quale riscopre il ruolo dell’io, il problema di connettere la riflessione con qualcuno che dice io. Vuole rifondare il sapere dopo che esso è stato esposto ad una serie di crisi e problematiche: lo scetticismo del Cinquecento col timore che il sapere non sia più fondabile e l’avvento della scienza meccanicistica, che sembra mettere in crisi l’idea di un cosmo governato da un sapere. Pascal, contemporaneo di Cartesio, dice che i cieli, i quali sono stati liberati dalla nuova scienza, lo spaventano perché hanno perso qualunque valore, siamo persi in un mondo senza più né centro né periferia. Cartesio vuole ritornare alla metafisica, ad un’idea generale di realtà che abbia di nuovo un senso. Nelle Meditazioni metafisiche Cartesio vuole provare l’esistenza dell’anima, vuole mostrare che l’anima è conoscibile, di contro ai materialisti che negavano l’esistenza dell’anima, come Hobbes.
Cogito ergo sum, o meglio cogito sum, ossia penso equivale a sono, il pensare è esso stesso essere, perché soprattutto quando cerco di negare la mia esistenza la riaffermo, nel dire che io nego di esistere, devo esistere per negare ciò che dico. Cartesio rovescia l’argomento tradizionale che parte dal mondo per dimostrare l’anima. In Cartesio si ribalta l’argomentazione, l’anima è ciò che è più evidente a sé stessa, il corpo non è altrettanto evidente, ritorna l’elemento della riflessività, ciò che caratterizza l’anima in quanto tale. Qualunque cosa sia considerata può essere dubitabile, salvo una, ovvero l’io stesso perché nella sua negazione se ne riafferma la verità. Si deve concludere che la realtà è fatta di due sostanze: la realtà data dall’anima, dall’io penso, dal cogito, ovvero la res cogitans e la res extensa, data dalla materia, la quale è pura estensione, pura meccanica inerte. In Cartesio si apre quella stagione in cui abbiamo il problema di comprendere come mai in un modo materiale si dia qualcosa come l’anima, la soggettività, il pensiero. Quando la neurofisiologia contemporanea si chiede dove sia la coscienza non fa altro che ripetere il gesto cartesiano. Cartesio ha diviso rigorosamente anima e corpo perché aveva individuato nell’io, nel pensiero, il principio di fondazione del sapere, ma ciò comporta un prezzo molto caro, ovvero la separazione dell’anima dal corpo. Cartesio individua nella ghiandola pineale l’incorporazione dell’anima, e con ciò è considerato uno dei primi ad avere ipotizzato una localizzazione fisica del pensiero, tema su cui le neuroscienze contemporanee dibattano sempre di più. Le neuroscienze contemporanee sono ancora cartesiane quando dicono ad esempio che c’è un’area del cervello che serve ad intendere il linguaggio. È legittimo chiedersi se questa localizzazione sia dell’anima o di una funzione corporea che serve all’anima. A partire da Cartesio nasce il problema di riunire ciò che è stato separato: prima di morire lo stesso Cartesio scrive le Passioni dell’anima in cui egli già cerca delle soluzioni al problema da lui creato;, in quest’opera sostiene che l’anima non è semplicemente il puro pensiero, ma è una commistione, l’anima prova delle passioni, l’anima è un luogo misto per il fatto che è attiva, pensa, ma è anche passiva, riceve. In questa sua ambiguità l’anima forse è il luogo dell’unione dell’io e del corpo. Su questa idea si innesta la riflessione di Leibniz che riprende tutta una serie di concezioni rinnovandole a suo modo, introducendo l’idea di energia, poiché è il primo che valorizza l’idea di potenza come capacità di fare, cioè di energia. Cartesio dà luogo ad un dibattito che arriva fino a noi, cioè la questione dell’unione dell’anima e del corpo, pur nella separazione concettuale di questi due ambiti. John Locke, un empirista, subito si innesta su questa tematica ed elabora un’idea che ha a sua volta un grande futuro, l’anima come coscienza. Cartesio non parla quasi mai di coscienza, mentre in Locke questo tema emerge sempre di più. Se il problema cartesiano è che ci sono due sostanze talmente diverse l’una dall’altra da non poter essere conciliate, allora la soluzione di Lock consiste nel fare a meno del concetto di sostanza. La sostanza è inconoscibile, ciò che conosciamo veramente sono le nostre stesse idee, la vita della mente; questo è conoscibile, prendiamo atto che la mente conosce sé in quanto è qualcosa che accade. La coscienza è un flusso che si conosce attraverso la memoria, la quale è identità nella differenza; noi siamo continuamente diversi, il tempo passa, la nostra identità non è qualcosa di immutabile, ma è soggetta a mutamento. La memoria consente di recuperare il passato nel suo mutare, la coscienza è questa capacità di riconnettersi a sé stessi attraverso il recupero di sé, di ricordare chi siamo, ci dà un’identità. Locke così, nel fare a meno dell’idea di sostanza, trasforma l’anima in coscienza, con l’empirismo il tema dell’anima perde di peso, se ne parla sempre di meno, ci si rende conto che non è così necessaria, la coscienza diventa autocoscienza.
Locke inaugura uno stile di pensiero che è il preludio del pensiero kantiano, ovvero l’idea che nel dire qualunque cosa che vogliamo sostenere dobbiamo darne il criterio di conoscibilità. Il sapere è innanzitutto sapere sul sapere stesso. Kant nella Critica della ragion pura sostiene la tesi per cui l’anima non è più un tema oggetto di conoscenza perché la conoscenza è soltanto fenomenica. Possiamo conoscere solo ciò di cui sappiamo dire come si conosce, allora non possiamo produrre una conoscenza dell’anima, non possiamo produrre un modo per giustificare tale conoscenza: l’anima, quanto meno quella della metafisica classica, non viene negata, ma diventa inconoscibile. Con Kant in sede conoscitiva si arriva a questo esito problematico, ma egli riapre il discorso nella Critica della ragion pratica, dove dice che noi abbiamo un’essenza noumenica legata alla libertà, noi siamo liberi anche se non possiamo dimostrarlo, possiamo sapere che siamo liberi perché la ragione ci insegna che la libertà consente la volontà e la libera scelta è il modo in cui la libertà si manifesta, e con ciò Kant può dire che l’anima può essere postulata anche se non dimostrata conoscitivamente. Nella Critica del giudizio addirittura pone un argomento euristico, che può persuadere, ma non giustificarsi, ovvero che l’anima può essere recuperata nella conoscenza della natura sia a livello soggettivo che oggettivo, a livello soggettivo perché noi conosciamo il bello, ma soprattutto conosciamo il sublime, ovvero il fatto che siamo posti davanti a fenomeni naturali che ci sovrastano, ma li comprendiamo e quindi sovrastiamo ciò che ci sovrasta. Quindi il sublime è questo sentimento che ci consente di avere la consapevolezza di qualcosa che è nella natura e al di là di essa. A livello oggettivo perché la natura non è soltanto pura estensione, ma è soprattutto vita, riprendendo temi che sono già nella filosofia antica. Se la vita può essere trovata, in quanto si nota che nel vivente si dà qualcosa che si chiama scopo (telos), se già la natura mostra di avere qualcosa che non è meccanico, ma mostra una sua tendenza, allora questo può essere visto nell’uomo stesso. Da qui si inaugura una nuova stagione in cui la vita diventa il vero principio (secondo una riflessione di stampo aristotelico). Il tema della vita permette di evitare il dualismo cartesiano. Il dibattito greco sull’anima, la vita e la coscienza rimane così aperto.
Nota: Trascrizione, rivista dall’Autore, della conversazione tenuta a Brescia il 17.2.2023 su invito della Cooperativa Cattolico-democratica di Cultura.