Quando parliamo della giustizia mi vengono in mente alcuni autori, interlocutori, che abbiamo attraversato nel nostro percorso di studi e di riflessione. Per dirla con Amartya Sen, che non solo è un premio Nobel per l’economia, ma ci ha anche offerto una teoria della giustizia molto interessante che viene detta Capability approach, si dice che il rilevamento dell’ingiustizia può essere il punto di avvio di una discussione critica e si chiede: è davvero necessario andare al di là del nostro sentimento di giustizia e ingiustizia? come mai elaborare anche delle teorie della giustizia? accontentiamoci di sentirlo questo sentimento di giustizia di fronte ad alcuni eventi, ma per capire il mondo, afferma Sen, non è mai sufficiente limitarsi a registrare le nostre percezioni immediate, è importante registrarle, ma non è sufficiente. Per capire è sempre indispensabile riflettere, ciò che sentiamo e ciò che riteniamo vedere nella realtà va letto, cioè dobbiamo domandarci che cosa queste percezioni stanno ad indicare, come possiamo anche tenere conto di queste percezioni di giustizia e di ingiustizia verso la realtà che sperimentiamo, come possiamo tenerne conto senza restarne sopraffatti, è questa l’operazione che fanno le teorie della giustizia, i paradigmi di giustizia.
Troviamo queste riflessioni in forma diversa, nella sapienza antica e nella tragedia greca, così come le troviamo nel pensiero filosofico che abbiamo conosciuto nel nostro percorso, nei cosiddetti pre socratici, oppure nel pensiero di grandi autori come Platone, Aristotele, nel momento di nascita della filosofia occidentale. Nasce da qua il confronto con le teorie della giustizia, un confronto che possiamo impostare secondo due paradigmi fondamentali in cui possiamo raggruppare le diverse teorie della giustizia che sono state sviluppate, abbiamo un paradigma classico in cui possiamo far rientrare autori come Platone, Aristotele, Tommaso d’Aquino, una sorta di linea di riflessione che si caratterizza per questa peculiarità, l’impostazione cioè della questione della giustizia in modo strettamente connesso alla tematica del bene e della vita buona, il centro di riferimento, il punto di riferimento privilegiato, in autori come Platone e Aristotele, è la polis, il fine è quello di una vita buona, che in Aristotele viene anche detta vita felice. Dobbiamo fuoriuscire da quella idea di felicità secondo cui la felicità sarebbe una sorta di situazione di allegrezza, la vita felice, come ci ha insegnato Martha Nussbaum, è il mettere mano nella costruzione della vita virtuosa, in questo modo è possibile arrivare ad avere una vita felice, nel senso di fertile, una vita feconda, generativa. Una vita di questo genere è possibile secondo autori come Platone, come Aristotele, all’interno della polis, sulla base di quelle che sono leggi giuste e che sono misurate come giuste proprio per questa loro connessione con la capacità di condurre ad una vita buone e felice. Ci sono pagine molto interessanti riguardo la definizione del politico in Platone, in testi come Le leggi, Il politico, dove c’è questa individuazione delle leggi, come la via al fine, come ciò che più si avvicina alla capacità di adeguare l’idea del bene e poi c’è questa immagine del politico come colui che costruisce la giustizia nella città facendo un azione da tessitore, il politico è quello capace di prendere tutti i fili e con i migliori tiene insieme la tessitura di tutta la città, non è il pastore divino il politico, ha un’altra dimensione, è il pastore umano ed è un tessitore che tratta la materia prima che ha a disposizione ed è capace di costruire la tessitura di questa materia prima. Una materia prima che per questi autori, pensiamo ad un autore in continuità come Aristotele, viene letta come qualcosa a cui l’antropos è predisposto, in Aristotele si parla della parte socievole dell’essere umano, egli è portato a vivere insieme non perché questo gli è utile, ma perché vivendo assieme è possibile che compia la propria natura. Da questo punto di vista le forme di governo da Aristotele vengono giudicate in base a questa capacità di costruire il bene della moltitudine, dell’insieme di coloro che vivono nella città e che sono predisposti al vivere insieme. Fine a cui il governo si indirizza. Oggi sulla scorta di questi autori come Tommaso, noi parleremmo di costruzione del bene comune, riferimento esplicito a Maritain e al suo testo “La persona e il ben comune”, quando ci dice che il corpo politico nella costruzione della convivenza giusta, costruisce quello che è il bene comune, che per Maritain non è semplicemente il bene pubblico, dell’insieme che non tiene conto delle parti, è il bene condiviso nella dimensione relazionale, c’è questa ripresa e accentuazione della dimensione relazionale dell’umano per cui il bene del singolo, della persona, è un bene in cui non ci deve essere una alternativa, una contraddizione possibile tra il bene condiviso e quello del singolo soggetto. In questa prospettiva c’è questa connessione fra il giusto e il buono e questa connessione fra una certa lettura di quella che è la natura umana e come quindi parlare della dimensione della giustizia. Ha questo si fa riferimento, ad una concezione antropologica, sostenuta da una certa costruzione ontologica, che in Tommaso e in Maritain diventa ontologica e anche metafisica, ispirata anche ad un orizzonte di tipo teocentrico. Trovo molto interessante una continua attenzione alla dimensione della concretezza e alla dimensione della realtà, che non viene mai persa all’interno di queste concezioni che comunque sono concezioni che leggono l’umano all’interno di un orizzonte dell’essere. Anche in un autore come Tommaso d’Aquino, per esempio, non abbiamo, pur nella lettura della giustizia in connessione con questo orizzonte dell’essere, la pretesa di una derivazione di quello che è il criterio che riguarda la valutazione delle leggi positive in modo deduttivo da quella che può essere la dimensione metafisico-teologica. Come l’avrebbe detta Tommaso questa visione più ampia, che lui avrebbe chiamato poi la grazia, non sottrae alle cose la loro natura, ma dà un indirizzo di loro perfezionamento. In Tommaso sottolineo solo due cose per questa attenzione alla dimensione della concretezza, della realtà, lui ci dice qual è il criterio per valutare se le leggi sono delle leggi giuste, quelle giuste sono le leggi che trovano una loro corrispondenza in quella che è la legge naturale, la quale a propria volta è partecipazione all’ordine della realtà nel modo in cui la realtà stessa è stata pensata dal suo creatore, però non possiamo avere una visione diretta di questo ordine, così come era stato pensato nella mente di Dio, non ne abbiamo un’illuminazione evidente, allora dobbiamo pensare che il modo in cui ordiniamo l’esistenza dipende anche dal guardarci intorno ed accorgerci com’è che sta funzionando l’esistenza. Le leggi corrispondono, trovano un criterio, nella legge naturale, alcune più direttamente, come se dovessimo esplicitare delle particolarità, altre per via di determinazione, ad esempio noi possiamo anche dire che un colpevole vada punito, ma poi non possiamo fare altro che assumerci la nostra responsabilità e cercare di comprendere che cosa significhi la pena giusta, questo non sta scritto da nessuna parte. Riflessioni intrise di questa concretezza consegnano agli attori umani, che devono costruire la società giusta, questa consegna di responsabilità, lo troviamo anche nella riflessione di Tommaso sulla possibilità o meno di uccidere il tiranno. Questa è solo una delle linee che troviamo nell’ambito dell’elaborazione delle teorie della giustizia, questa idea per cui la società giusta è quella che rende possibile il perseguimento della vita buona o anche della vita felice, intesa come la vita compiuta, una vita feconda.
Questo è stato solo uno dei filoni di riflessione su come possiamo pensare quale sia la società giusta, perché soprattutto alla fine dell’equilibrio medievale di cui Tommaso è un grande campione, ha preso sempre più piede, nell’autonomizzarsi delle diverse dimensioni, delle diverse discipline, nel frantumarsi dell’ordine ontologico metafisico, ha preso sempre più piede una considerazione di dove troviamo i criteri di giustizia in una consegna a un altro paradigma che è quello diventato mainstream, che è il paradigma cosiddetto contrattualista. Il paradigma contrattualista ha un problema di legittimità, che non si poteva porre in questi termini prima della modernità, e cioè il problema di chiedersi qual è la legittimità dell’obbedienza alla legge, presupposto, non c’è una fondamentale, costitutiva, socialità o socievolezza, a cui riferirci, ma ci sono degli individui, che si chiedono ma perché mai dovrebbe essere giusto che io corrisponda, sia obbediente a delle leggi, in base a quali criteri? Se per poter convivere abbiamo bisogno di darci un ordine, qual è l’ordine giusto, non posso più fare appello ad un orizzonte di tipo ontologico metafisico condiviso, non posso fare appello ad una socievolezza costitutiva naturale degli esseri umani, l’appello viene fatto alla adesione volontaria ad un patto. Giuste sono quelle leggi alle quali spontaneamente si aderirebbe, l’idea del contratto è proprio questa: è giusto ciò a cui do la mia adesione, l’adesione della mia volontà in modo libero e il riferimento, il campione di questo paradigma è l’individuo inteso come una realtà libera, indipendente e razionale e i tentativi di costruire riflessioni sulla giustizia, lavorano su queste caratteristiche, attraverso un operazione di astrazione, perché di fatto, come poi alcuni autori in questo filone osservano e faccio riferimento a Martha Nussbaum in epoca contemporanea, la dimensione della indipendenza, ad esempio, è una dimensione su cui bisognerebbe riflettere molto. L’essere umano, agli inizi e alla fine della priora vita, è un essere che vive di dipendenza dagli altri esseri umani, le condizioni di possibilità della costruzione del sé non nella disponibilità del soggetto stesso. Quello che ci interessa qui è vedere che cosa comporta questo riferimento al paradigma del contratto. Riflessioni incontrate sotto i nomi di Hobbes, Locke, Rousseau, in età contemporanea sotto il nome di John Rawls, uno dei punti di riferimento della filosofia politica contemporanea. Qui non c’è più, e questo lo dice molto bene Rawls, il riferimento alla vita buona, al bene come prioritario, come qualcosa che diventa il criterio di misura di ciò che è giusto, perché una volta che ci si è accorti che è difficile, se non impossibile, convergere su una concezione del bene, insistere sul volere ottenere una convergenza sul giusto, cioè su ciò che rende possibile la convivenza, facendo riferimento a questo rende impossibile la convivenza stessa. Nel paradigma del contratto noi abbiamo la precedenza del giusto sul buono, la costruzione del giusto poi può anche rendere possibile per ciascuno il perseguimento della vita buona, ma non è questo il criterio. Il criterio è la costruzione di una società ordinata in cui, ad esempio in Hobbes non si debba più avere paura di morte violenta, in Locke si possano avere come garantiti i propri diritti naturali, in Rousseau si possa perseguire un’eguaglianza che altrimenti una volta fuoriusciti dalla condizione naturale è stata distrutta, in Rawls in cui sia possibile una società ordinata, in cui ciascuno possa avere una distribuzione di beni tale da garantire la stabilità della società ordinata stessa. In questo processo una figura centrale è Hobbes, a differenza degli altri autori, dove il centro di riferimento era la polis, il riferimento diventa l’individuo, è la prima volta che accade, un individuo in un mondo dove non c’è più un ordine da adeguare, ma c’è un ordine da costruire e dove il disordine è semplicemente un dato di fatto. Che cosa possiamo dire di questa riflessione? Ha portato dentro agli sforzi di costruzione di una società, di una collettività giusta, l’idea di una separazione tra la sfera pubblica e la sfera privata, questo nasce con Hobbes, perché egli dice che obbedire non è credere, questo individuo che non è di per sé portato e non trova il compimento della propria natura nel vivere con altri, ma semplicemente si ritrova con altri individui e si ritrova a poter essere danneggiato o beneficato dalle azioni di altri individui, fa un calcolo di interesse, non c’è un bene da trovare, e capisce che per non dover continuamente guardarsi le spalle gli conviene trovare una autorità che garantisca un ordine. Secondo Hobbes questa autorità deve essere una autorità che requisisce completamente l’uso della forza, non è che noi dobbiamo credere a questa autorità, semplicemente essa è indispensabile per non distruggerci a vicenda, ciascuno poi è lasciato libero, in tutto ciò che non riguarda il mantenimento dell’ordine che garantisce la sopravvivenza e la liberazione dalla paura, per lui è la paura la levatrice della costruzione della società, non il perseguimento del bene, ma la paura di morire per morte violente. L’individuo allora accetta un’autorità che requisisca l’uso della forza da parte di tutti e si mantiene per sé la propria sfera intimi e privata, può credere quello che vuole. L’unica cosa che questa autorità, che ha requisito per sé l’uso della forza, non può fare è dirmi di mettere in pericolo la mia esistenza, perché ciò contraddirebbe il motivo stesso per cui ho accettato. Hobbes non va inteso come autore totalitarista, non chiede che il cittadino creda nell’autorità, qualcuno addirittura dice che egli è il primo liberale, è il primo che si preoccupa dell’individualità e di una sfera nella quale l’individualità è sovrana e questo lo torvo molto interessante perché di solito negli autori di storia della filosofia politica l’autore a cui si fa rifermento per parlare di una giustizia liberale è Locke, perché egli parla di diritti naturali e del fatto che l’individuo troverebbe giusta la società che gli garantisce la tutela di questi diritti naturali, ma Hobbes ritiene che l’unico diritto che debba essere tutelato è la vita, mentre per Locke c’è anche la proprietà e la libertà. Questo filone arriva fino a noi nella figura di John Rawls elaborando una teoria della giustizia che riprende una forma di universalismo kantiano e mette in forma le teorie contrattualiste che lo hanno preceduto. Lui si chiede come si fa ad individuare i principi di giustizia per una società plurale, una società dove non si può fare riferimento al discorso sul bene, non si può pensare ad un ordine da conoscere a cui cercare di adeguare le norme, i comportamenti, la giustizia viene costruita, ma come facciamo? Si inventa un’elaborazione di quelle che abbiamo incontrato nella stria della filosofia come stato di natura, tutta formale, quando parliamo di stato di natura non si intende mai un momento nella storia, ma è sempre un esperimento mentale che fa riferimento a qualcosa di immaginato. Rawls fa questa operazione negli anni 70 parlando di una situazione originaria e dice quali sono le norme giuste, i principi giusti che devono regolare la società, intesa come impresa cooperativa, gli possiamo scoprire se ci mettiamo in una condizione in cui non sappiamo quali sono le caratteristiche che abbiamo e questo è quello che lui chiama il velo di ignoranza, se noi non sappiamo se siamo maschio o femmine, giovani o vecchi, malati o sani, ricchi o poveri, ci aggiunge un altro presupposto ovvero il fatto che secondo lui, ciò che sarebbe razionale scegliere è in base al criterio del maximin, cioè il massimo del minimo, sarebbe razionale scegliere quel principio di giustizia che mi mette nella condizione di avere il massimo se io fossi nelle condizioni peggiori possibili che io potrei immaginare in questa società e arriva così ad elaborare due principi di giustizia: il primo parla di un sistema di libertà e di un accesso alle cariche aperto a tutti e il secondo parla di un principio di differenza che tiene conto delle diseguaglianza economiche e si rende conto di quanto queste diseguaglianza economiche siano rilevanti, dice che le trasformazioni sociali sono giuste nel momento in cui vanno a favore del meno avvantaggiato, proporzionalmente può anche accadere che il già avvantaggiato se ne avvantaggi molto di più, ma in ogni caso c’è quest’occhio allo svantaggiato, perché una società deve essere anche stabile, la società giusta è quella che ha una certa stabilità, all’interno di questo contesto individua dei beni, è una concezione distributiva, dei beni primari che è ciò che è necessario avere per poter vivere una vita nelle società contemporanee. La realtà contemporanea vede quel paradigma da qui sono partita all’inizio che è il paradigma del Capability approach, sviluppato da Martha Nussbaum e da John Rawls, come un paradigma che in qualche modo si inserisce all’interno della tradizione liberale, ma vuole riprendere anche Aristotele. La Nussbaum dice che non basta la dimensione distributiva nella giustizia perché non basta che io abbia determinati beni, è necessario che sia in grado di trasformare questi beni in progetto di vita. Lo stato, l’autorità che amministra la giustizia, non deve dirmi che progetto di vita devo avere, ma deve fare in modo che la società sia organizzata in maniera tale che io possa acquisire le capacità senza le quali anche i beni di cui dispongo sono beni che non riescono a farmi perseguire il fine della vita compiuta, dimensione aristotelica che ritorna nel capability approach. Due autori interessanti che approfondiscono il capability approach sono Jonathan Wolff e Avner De-Shalit nel testo “Disadvantage” ci dicono che non basta che la società che vuole essere giusta garantisca le capacità perché ciascuno possa perseguire il progetto di vita che vuole, bisogna stare attenti anche alla dimensione della sicurezza rispetto al progetto di vita che si persegue, ovvero la sicurezza dei funzionamenti, perché fanno notare che se io per poter mantenere un certo progetto di vita sono costretto a correre dei rischi che gli altri non sono costretti a correre sono già in una situazione di svantaggio.
Due aspetti da mettere in luce sulla contemporaneità: 1. La questione delle nuove tecnologie. Una riflessione approfondita sul rapporto fra giustizia sociale e nuove tecnologie è importante perché sono un ambiente nel quale viviamo e quindi sono pervasive. 2. La questione del conflitto. Continuo ad assistere all’identificazione fra guerra e conflitto, è pericolosissimo, perché ci porta a pensare che la cosa buona sia l’assenza di conflitto, ma tale cosa è la richiesta di una omologazione ad un pensiero unico che è una forma che nelle società plurali, democratiche come le nostre o come quelle che noi vorremmo è qualcosa di profondamente sbagliato. La conflittualità è una abilità relazionale. Identificarlo con la guerra ci porta a pensare che il conflitto è male e quindi non impariamo a gestire il conflitto, ma lo rimuoviamo.
Nota: Trascrizione, non rivista dall’Autore, della conferenza tenuta a Brescia il 7.3.2022 su invito della Cooperativa Cattolico-democratica di Cultura.