L’IA tra futuro e avvenire: etica della probabilità ed etica della possibilità

  1. Turing e Gödel: le “macchine bambine”

Alain Turing nel suo fondamentale lavoro del 1936, On Computable Numbers, with an Application to the Entscheidungsproblem, dove descriveva, per la prima volta, quella che sarebbe poi stata definita come la macchina che portava il suo nome, aveva scritto, a proposito della possibilità di paragonare la mente a un automa finito, che «la giustificazione consiste nel fatto che la memoria umana è necessariamente limitata». Kurt Gödel, a cui si deve il cosiddetto primo teorema di incompletezza, secondo il quale all’interno di ogni sistema formale coerente che sia in grado di esprimere l’aritmetica esistono proposizioni indecidibili, che il sistema non può dimostrare né vere né false, con la conseguenza che il sistema medesimo risulta, in modo essenziale, sintatticamente incompleto, non fu mai convinto di questa motivazione. A suo giudizio, ciò che Turing aveva trascurato è che la mente nel suo uso, non è statica, ma si modifica costantemente, per cui, benché a ogni stadio del suo sviluppo il numero dei suoi stati possibili discernibili sia finito, non c’è motivo per cui questo numero non possa divergere all’infinito nel corso di questo sviluppo. La sua idea era che noi potremmo effettivamente costruire una macchina pensante basata su un gruppo di assiomi di partenza, ma che durante l’interazione con l’ambiente, per via di elementi casuali, questa poteva diventare via via più complessa a tal punto da sfuggire alla nostra analisi e modificarsi strutturalmente in modo impredicibile. In altre parole, sembra che a Gödel fosse chiaro già allora che la capacità di produrre novità, intuizioni, strategie, acquisire comprensione ed apprendere, tipiche della mente umana, poco o nulla avessero a che fare con le proposizioni indecidibili dei sistemi formali.
Nella stessa direzione andò lo stesso Turing nel dopoguerra. Nel suo famoso articolo del 1950 Computing machinery and intelligence[2], partendo dalla constatazione che ogni uomo è stato un bambino, egli introduce l’idea delle child machines che si complessificano nell’interazione con l’ambiente e segnatamente con la cultura in cui la mente è immersa (“the human community as a whole”). Il lavoro sulla morfogenesi poi conferma non soltanto un interesse antico per la biologia ma suggerisce un’aspirazione a individuare modelli effettivi di crescita e differenziazione per le “macchine bambine”. Tutto questo indica il suo orientamento conclusivo a considerare la mente meno “meccanica” di quanto, ancora oggi, si continua a pensare e il suo interesse proprio per la convergenza, sempre più evidente, tra gli sviluppi della tecnologia e la biologia. Questa idea delle macchine bambine è importante e interessante intanto perché sposta la questione dell’addestramento delle macchina dall’insegnamento, in una progettazione top-down che cerca di “inculcare” in esse i contenuti fondamentali di una conoscenza già matura, a un processo di apprendimento bottom-up, anche se non si tratta di vero apprendimento; e poi perché introduce il tempo come componente imprescindibile dell’ideazione e della realizzazione delle macchine “intelligenti”. Il problema con il quale ci si deve necessariamente confrontare a questo proposito, posto che si sta delineando una relazione tutt’altro che occasionale tra tecnologia e biologia, è quello che ruota attorno a un nodo cruciale che non può essere eluso: di quale tempo si tratta concretamente?

  1. Le macchine bambine e le differenti concezioni del tempo

È ben noto che la concezione più comune e tradizionale del tempo è quella dell’orologio, legata alla figura mitologica del dio Chronos (in greco antico: Χρόνος), originariamente propria delle teogonie orfiche, che divora i suoi figli, simboleggiando il trascorrere inesorabile degli attimi di cui il tempo stesso si compone, il passare del tempo e la durata della vita. Essa induce a percepire lo scorrere del tempo in una sola direzione, dal passato al futuro, e secondo ritmi della vita e scanditi dal succedersi di un “prima” e di un “poi” tutto sommato omogenei.

La tradizione classica ci ha però lasciato in eredità altre concezioni del tempo. C’è, innanzi tutto, l’idea di tempo come Kαιρός, come esigenza e capacità di cogliere al volo le opportunità che si presentano sulla scena e che sfumano rapidamente, se non le si sa afferrare. Si tratta dunque di un concetto di tempo che presuppone l’abilità di trovare e mantenere la giusta distanza tra pensiero e azione, da una parte, e realtà, dall’altra, perché si possano verificare l’innovazione e la trasformazione. I termini implicati nella relazione devono a tal scopo risultare non troppo vicini, affinché il pensiero e l’azione non siano travolti dal corso degli eventi, dall’effettualità che giunge a maturazione e si compie, ma neppure troppo lontani, per evitare che essi finiscano col perdere il contatto con il “potenziale della situazione”, per non uscire dal campo delle possibilità che si offrono e rischiare così di non essere pronti ad afferrarle al volo. Posidippo definisce Kαιρός «pandamator», ossia colui che domina su tutto: è sulla punta dei piedi, ha doppie ali, tiene nella mano destra un rasoio, ha i capelli sulla faccia ed è calvo sulla nuca. Queste le caratteristiche che Posidippo individuava nella statua di Lisippo, che traduceva in termini iconografici efficaci l’idea del momento debito che deve essere colto non appena ci si presenti di fronte, pena la sua inafferrabilità, quella stessa inafferrabilità del momento propizio irrimediabilmente trascorso che, nell’iconografia lisippea, si traduce nel Kαιρός privo dell’appiglio della chioma. Nell’Etica Nicomachea (1096a 27) Kαιρός è la declinazione del bene del tempo proprio perché «l’agire deve allora riferirsi al Kαιρός, al momento opportuno, cioè deve afferrare il tempo debito quando esso viene a maturazione e decidere l’azione».

Parlare di “tempo opportuno e debito” significa, riferirsi allo sforzo e all’obiettivo di trarre vantaggio dalle circostanze, dalle occasioni: questa espressione sta cioè a indicare la pazienza di aspettare che la situazione evolva per cogliere al volo gli sviluppi favorevoli, la capacità di trovare tutte le opportunità che possono presentarsi nelle circostanze così come si sviluppano allo scopo di trarne vantaggio. Il termine «kαιρός» esprime quindi una nozione di tempo qualitativa, e non prevalentemente quantitativa come xρόνος, legata alla convinzione che per ogni cosa esista un momento di compiutezza e di pienezza. Esso indica il momento ottimale per ogni cosa, il punto culminante ma soprattutto lo spazio decisionale per un’azione che intende andare a buon fine e, dunque, raggiungere il proprio telos.

Ma c’è una possibile derivazione etimologica alternativa di questa idea di tempo che ne fa emergere, con maggiore efficacia, i tratti distintivi. Si tratta dell’idea di tempo come καîρος, un termine dell’arte della tessitura. Tessere, tempo e fato erano idee spesso collegate. Un’apertura nella trama del fato può significare un varco nel tempo, un momento eterno in cui il disegno si fa più compatto o si allenta: il tessitore spinge la spola e la navetta attraverso l’apertura nei fili dell’ordito al momento critico, il momento giusto, perché il varco nell’ordito ha solo un tempo limitato e il colpo va dato mentre il varco è aperto.

E c’è infine, sempre nel mondo antico, nella filosofia greca in particolare, un esplicito riferimento a un’altra tipologia di “intelligenza temporale”, basata su una concezione del tempo che non è fatta soltanto della capacità di scandire il divenire e di cogliere le occasioni, ma anche di un senso della permanenza e della continuità che risiede in un duplice ordine: quella esperienziale di ogni singolo individuo e quella che oggi definiamo filogenetica, che è alla base del sentire, al contempo, la peculiarità e l’intimità individuali e l’universalità. Questa concezione del tempo è incardinata sulla consapevolezza che la memoria personale è fortemente agganciata alla “memoria collettiva”, che è alla base della cultura, la ripropone, la conferma e la modella di continuo. Il nesso e l’interazione tra questa dimensione della memoria collettiva e l’esperienza complessiva di ogni singola persona, nel «qui» e «ora» in cui vive, sono contraddistinti e segnati dal tempo della permanenza, dall’Aἰών, che garantisce la continuità tra le diverse generazioni, quella che Arthur Lovejoy chiama «la grande catena dell’essere»[3] (Lovejoy, 1966). I contenuti archiviati nella mente individuale – eventi, fatti, concetti, capacità – sono proprio per questo qualcosa di più della rappresentazione di una singola e peculiare personalità: essi sono anche il punto cruciale della trasmissione della cultura. Il tempo come Aἰών è il soggetto attivo di questa trasmissione, la base sulla quale essa poggia e che rende ciascuno di noi la «cinghia di trasmissione» dell’eredità del passato e la sede dei progetti della storia del futuro.

Ma accanto a questo Aἰών eterno, immutabile, fuori del tempo ce n’è però un altro che s’invera nel mondo e ne permette la “durata”, la nascita, la crescita e poi la fine di ogni processo di manifestazione. Sul piano temporale ciò non può essere espresso se non come passato, presente e futuro, mentre sul piano simbolico diventa un Aἰών che si fa fanciullo, poi adulto e infine vecchio. Sono propriamente queste le raffigurazioni più conosciute del dio Aἰών, rappresentato come fanciullo non solo nei rituali, ma perfino nella prima concezione ellenica (Eraclito, poi Euripide).

Il simbolo di Aἰών che si esprime attraverso le tre età fondamentali che scandiscono i momenti di un ciclo cosmico si ritrova, significativamente, nel mosaico di Antiochia della Casa di Aἰών, databile alla metà del III secolo d.C. Questo mosaico si distingue per una sua particolarità; raffigura, infatti, una scena di simposio o comunque tricliniare dove sono presenti quattro figure di sesso maschile giacenti su delle klinai. La figura di sinistra, un uomo maturo ma non vecchio, con barba e baffi e capo recinto da una corona di foglie, che tiene nella mano destra la ruota dello Zodiaco riposa su un’altra kline di cui è evidente solo la testata si cui compare la scritta AION. Egli volge lo sguardo alla sua sinistra, in direzione di tre personaggi frontalmente distesi su una kline: accanto alle tre figure del letto frontale si leggono rispettivamente altre tre scritte MELLON (futuro), ENESTOS (presente) e infine PAROCHEMENOS (passato). Inoltre, tra la testata del letto di sinistra e la trapeza compare un’altra iscrizione che dovrebbe riferirsi alle tre figure maschili osservate frontalmente, CHRONOI (tempi). L’aspetto più curioso della raffigurazione musiva che naturalmente ne rende ancora più interessante l’interpretazione consiste nella comunanza simultanea di Aion e dei Chronoi; questa “simultaneità” non può non richiamare alla memoria – anche per questioni cronologiche – il titolo del trattato III 7 delle Enneadi, Sull’eternità e il tempo dove Plotino attribuisce all’Anima la temporalità della durata, essendo tale ipostasi più a contatto con il mondo sensibile, e al Nous l’eternità a-temporale: significativamente Plotino scrive (en., III 7 7-8) che per indagare il tempo si deve discendere (katabateon) dall’eternità. All’altezza cronologica di Plotino e verosimilmente anche del mosaico antiocheno il significato di aion si era ampiamente stabilizzato: infatti con quel termine si indicava, da un lato, l’eternità in opposizione agli aspetti durativi della temporalità, dall’altro, come forse è il caso del mosaico in questione, l’eternità che si declina nella durata del tempo, passato presente e futuro.

La presenza di queste forme miste e ibride autorizza e può accreditare un’ipotesi di un certo interesse, e cioè che esse costituiscano il riferimento necessario per inquadrare concettualmente quelle forme particolari di esperienza che, pur collocandosi in un tempo determinato e in una fase specifica del divenire, riescono a superare le barriere dell’immediato e del presente e a collocarsi in quella dimensione atemporale che è determinata proprio dalla capacità di porsi al di fuori dello scorrere incessante degli istanti, per sperimentare una sorta di sospensione del ritmo del tempo. È proprio questo che conferisce alle emozioni di questo genere quell’impronta di eternità in virtù della quale esse aprono una breccia nel tempo e durano, riuscendo a passare da una generazione all’altra.

Facciamo ovviamente riferimento a quel tipo di percezione che costituisce l’occasione, lo stimolo e una sorta di sperimentazione per elevarsi alla dimensione dell’arte, che è qualcosa di assimilabile a una “cesura nel tempo”, un’esperienza di “attenzione assorta e intransitiva”, la quale è una sorta di “fuori dal tempo nel tempo”, un soffio d’eternità nell’esperienza vissuta. Questo tipo di percezione presuppone la capacità di isolare un singolo istante (quello in cui si verifica un’esperienza significativa) e di “condensare” in esso passato, presente e futuro, sottraendolo al ritmo del tempo e introducendo così all’interno di quest’ultimo una rottura la quale, sembra in qualche modo arrestare quest’eterno flusso. Il riferimento a questa ricca e articolata analisi del tempo è più che mai importante e attuale, dato che, come si è detto inizialmente, è ancora vigente ed egemone una prospettiva culturale che procede secondo la logica del tempo immediato e breve e segue la dinamica stretta del prima e del poi (Xρόνος). Proprio questa è la concezione del tempo alla quale sembrano attualmente legati gli sviluppi dell’Intelligenza artificiale.

  1. Futuro e Avvenire

Molti dei dubbi, dei tormenti, delle angosce, dei disagi e delle problematiche esistenziali che caratterizzano la vita dell’uomo contemporaneo possono essere fatte risalire alla difficoltà di comporre in un quadro unitario e coerente l’articolata e molteplice concezione del tempo di cui abbiamo parlato. Da un lato la “liquidità”, le occasioni che si susseguono a un ritmo sempre più vorticoso e che spesso si presentano sotto forma di sfide che non sappiamo se e come cogliere, che si traducono in una concezione del tempo considerato come “avvenire”, carico di imprevedibilità, e perciò denso di rischi, ma anche di speranze e di opportunità. Dall’altro il desiderio di continuità, di stabilità, di permanenza, che spinge in direzione di un tempo in cui il domani si presenti, almeno per qualche aspetto, con il volto tranquillizzante del futuro concepito come risultato di una successione regolare e della proiezione spontanea del “prima” sul “poi”, di ciò che è già stato su ciò che sarà.

Il risultato di questa tensione è sempre più spesso la tendenza a subire la liquidità del mondo senza essere capaci di “concettualizzarla”, di comprenderne la portata e gli effetti e di trovare in essa un qualche appiglio e punto d’orientamento. In mezzo tra i due opposti delle vorticose variazioni e del bisogno di continuità, come unica possibile forma di mediazione e di equilibrio tra di essi, sta l’idea di tempo come kaîroV, che sottolinea come spetti all’azione dell’uomo, alla sua capacità costruttiva di “tessere” in modo proattivo ed efficace i diversi fili che compongono il suo stare nel mondo, affrontare le sfide del presente e del futuro prossimo in forme e modalità che siano all’altezza della posta in gioco. Mediazione ardua ed equilibrio tutt’altro che facile da raggiungere e soprattutto da mantenere, dato che il conflitto tra tradizione e innovazione, tra stabilità e cambiamento, tra essere e divenire, tra nostalgia del passato e speranza nel futuro è il tema di fondo sul quale da sempre si sono confrontati e scontrati filosofie, concezioni del mondo, visioni politiche, ideali e valori.

Sono illuminanti a proposito di questo scarto tra futuro e avvenire, i commenti di Arjun Appadurai e Neta Alexander in un pamphlet corrosivo[4] pubblicato pochi anni fa. Appadurai è un esponente di punta dei Cultural Studies: antropologo, statunitense per storia accademica e indiano tamil di nascita e formazione scolastica, si è da sempre occupato dell’immaginario sociale, delle visioni e della loro incidenza sul futuro. Alexander è una giovane ricercatrice, esperta di nuovi media, cinema e Rete, e lavora alla Colgate University di New York. Il loro libro analizza il fallimento, considerato come un giudizio di cui chi ha potere, competenze e capitale si serve per tenere in vita delle fantasie collettive e generare dei meccanismi di attesa finalizzati a gestire a vantaggio di pochi il futuro di tutti:

«In questo libro ci proponiamo di mostrare come certi protocolli di giudizio producano specifici regimi di fallimento. A interessarci sono soprattutto i modi in cui il capitalismo contemporaneo riesce a configurare sistemi finanziari e tecnologici ad hoc per dare luogo a un apparato interconnesso capace di produrre e naturalizzare il fallimento, e quindi suscitare l’ineludibile impressione che la buona riuscita sia sempre merito della tecnologia e delle sue virtù, mentre l’insuccesso è sempre imputabile al cittadino, all’investitore, all’utente, al consumatore»[5].

Gli autori si valgono di due casi di studio canonici, Wall Street e la Silicon Valley, Appadurai e Alexander, per esaminare le strategie utilizzate di volta in volta per montare la funzione narratologica, oltre che economica e culturale, del fallimento, che poggiano sempre sul bias cognitivo della memoria selettiva: si mettono da parte, destinandoli all’oblio, tutti i fallimenti tranne alcuni, e si esaltano, consegnandoli a una memoria da archiviare, conservare e tramandare, assegnandole un ruolo istruttivo, i successi anche se minimi e poco significativi, al fine generare e perpetuare un’atmosfera di “credenza” totale, una fede nell’ineluttabilità e insostituibilità dell’innovazione tecnologica. Viene così diffuso in modo capillare l’ethos imprenditoriale e scientista del fallimento come via per il successo, una narrazione che i due autori ritengono profondamente tossica, basata com’è su un’opacità della rappresentazione che occulta l’illusione artefatta che la scarsità verso cui siamo storicamente avviati sia un ingrediente indispensabile della ripresa. La via per sfatare questa distorsione della realtà di fatto non può che essere quella di ripensare radicalmente il concetto di fallimento, vedendolo «come una disfunzione che si produce di continuo»[6], e sostituendo al mito dell’innovazione un’etica della manutenzione e una cultura della cura che si oppongano radicalmente all’obsolescenza programmata (fallisci presto, fallisci spesso), che punta a rendere accettabile e a diffondere l’idea del fallimento definitivo e irreparabile dei prodotti “guasti” o semplicemente superati e “fuori moda e mercato” e della conseguente necessità di sostituirli di continuo con i nuovi modelli disponibili. Così la disfunzione quotidiana viene rimossa, ce ne dimentichiamo, e l’oblio è generato dalla nostra stessa natura di consumatori schiavi della leggenda del progresso come fulgida curva ascendente.

Quello che ci interessa maggiormente qui di questo approccio è l’analisi delle conseguenze dell’idea di futuro come qualcosa di prevedibile, in quanto risultato della continuità con le tendenze riscontrate nel passato e verificabili nel presente nel quadro generale di una concezione del mondo caratterizzata dal riferimento fideistico e dall’adesione passiva al principio della regolarità. Riguardo a questo aspetto Appadurai riprende e ripropone qui l’impianto argomentativo proposto in due sue opere precedenti[7].

Una volta accettato e fatto proprio questo presupposto di continuità e regolarità il futuro, proprio perché largamente prevedibile, può diventare merce, generare oggetti vendibili; come dimostra il caso dei famigerati derivati denominati appunto “futures”, alle origini della grande crisi finanziaria del 2008, merci fake, trattate come reali beni, come valori, rapidamente degenerati nel loro opposto negativo, “promises” prive di qualunque corrispondenza di mercato. Certo, si ammette che la previsione non può essere esenti da rischi, che però vengono in qualche modo minimizzati, se non addirittura esorcizzati, attraverso una teoria generale del pensiero come calcolo e dell’agire calcolativo, di cui si esalta la possibilità di affrontare senza timori il vasto campo dell’ignoto e dell’incerto, grazie alla produzione crescente di modelli statistici e probabilistici resi sempre più potenti e efficaci dalle risorse e capacità, praticamente illimitate, messe a disposizione dagli sviluppi dell’intelligenza artificiale.

L’ethos dominante diventa così il rischio, categoria tutta quantitativa, che proprio perché tale può essere “addomesticata” e “domata” dai formidabili strumenti quantitativi di cui si può ormai disporre e sui quali si può fare crescente affidamento. Si può così mettere in atto una vera e propria “macchina delle promesse” che trasforma i primi contratti a termine e le tutele assicurative contro gli imprevisti del commercio marittimo in “derivati”, i quali si presentano come scommesse su scommesse che consentono di monetizzare il rischio e venderlo e rivenderlo come una merce, allontanandosi progressivamente dai valori reali da cui ‘derivano’, appunto.

Per rendere possibile questa trasmutazione, il gotha della finanza mondiale mette in atto una vera e propria “strategia delle promesse infrante”. Come tutti i contratti, infatti, anche i derivati poggiano su promesse, ma – ed è questo il nodo cruciale e critico – si tratta di promesse altamente specifiche che funzionano come quelle evidenziate da John L. Austin, cioè come atti linguistici performativi, basati sulla distinzione fra il significato di un enunciato e la sua forza, il modo in cui viene usato e recepito, e sulla considerazione del proferimento di un enunciato come l’esecuzione di un atto, in grado di incidere sugli stati di cose nel mondo e di modificarli. Esempi di enunciati performativi sono:

  • Battezzo questa nave “Amerigo Vespucci”
  • Prometto che domani sarò puntuale

che appunto, in circostanze appropriate, non riferiscono né descrivono il fatto che il parlante battezza o promette, ma eseguono di fatto, rispettivamente, il battesimo e la promessa.

L’economia finanziaria assume e fa proprio il carattere performativo, e non semplicemente dichiarativo, del linguaggio e lo utilizza per elaborare un’ideologia dell’agire basato sul calcolo delle promesse riguardanti il futuro, articolate in una catena di tre fattispecie:

  • le promesse “austiniane” pure;
  • le promesse agonistiche – cioè simultanee e incompatibili, subordinate a condizioni future ignote a entrambi i contraenti;
  • le promesse dilazionate, che prorogano l’adempimento all’infinito.

Funzionano tutte come enunciati performativi e vengono formulate in condizione di incertezza. I derivati in particolare operano come promesse agonistiche, vale a dire che gli scommettitori allo scoperto non fissano il prezzo futuro in base a calcoli probabilistici, ma in regime di contingenza. Essendo, come detto le condizioni ignote ai contraenti il futuro diventa, in questo caso, quanto mai incerto, per cui le promesse, esposte al vento dell’imprevedibilità, cominciano a un certo punto a essere continuamente differite e disattese, e quindi destinate, prima o poi, allo schianto. Come si è puntualmente verificato con il crollo del castello di promesse caricate sui mutui subprime che ha causato il collasso finanziario di inizio millennio, nonostante lo sviluppo di modelli altamente tecnologizzati per la gestione del rischio. Cacciata dalla porta in nome del calcolo probabilistico, una quota di incertezza si è così ripresentata nell’economia finanziaria dalla finestra dei prodotti derivati.

  1. Probabilità versus possibilità e rischio versus incertezza

Questi esiti fanno emergere la genialità preveggente di Bruno de Finetti il quale, nel 1934, all’età di 28 anni, in un’opera visionaria rimasta purtroppo inedita per più di 70 anni, L’invenzione della verità[8], pubblicata solo nel 2006 da Raffaello Cortina, poneva le basi di una concezione soggettiva della probabilità alla quale è legata la sua fama.

Si tratta di uno splendido esempio di concezione costruttivista della scienza, un antidoto contro ogni cristallizzazione in “verità assolute” del territorio mobile della conoscenza. In esso l’autore sottolinea che la crescente dilatazione e integrazione della conoscenza, frutto dei progressi della ricerca, va gestita e per farlo non ci si può affidare alla sola previsione, cioè al semplice desiderio di «sapere come le cose andranno… come se andassero per conto loro!». Si tratta «di un problema di decisione, non di previsione».

Per dare seguito a questa premessa De Finetti si è impegnato con successo a identificare in modo profondo l’aspetto costitutivo dell’incertezza, modellando un rigoroso e originale approccio alla teoria delle probabilità, caratterizzato da una concezione soggettivistica basata sul presupposto che, nei casi di alta complessità, dobbiamo ricorrere a una scommessa razionale, a una scelta deliberata dell’osservatore. L’incertezza è la frontiera mobile della conoscenza: non abbiamo altra scelta, dato che la scissione tra l’evoluzione deterministica dei singoli sistemi che non interagiscono, che approda alla loro descrizione, e il passaggio all’azione che rende possibile l’osservazione e la misura, le quali provocano, come c’insegna la meccanica quantistica, una transizione discontinua dallo stato iniziale a uno degli stati finali possibili, ci obbliga a prendere atto di quanto sia infondata la “speranza” di chi ritiene che la probabilità di un evento futuro è tanto maggiore quanto maggiore è la frequenza osservata di eventi ‘analoghi’. Egli aggiunge però che, mentre «è impossibile [una giustificazione globale] di questa regola, è possibile una sua giustificazione locale», ricorrendo a una nuova ipotesi, «estremamente chiara e semplice» – l’ipotesi di scambiabilità, da lui individuata.

La critica implacabile di questo geniale matematico è rivolta, innanzi tutto, nei confronti della definizione della probabilità fornita da Laplace, la prima, perciò detta classica, secondo la quale: «la probabilità è il rapporto fra il numero di eventi favorevoli e il numero di eventi possibili, purché questi ultimi siano tutti egualmente possibili». Balza subito agli occhi il vizio logico di questa definizione, in quanto l’equiprobabilità, e cioè la probabilità medesima, viene utilizzata per definire sé stessa.

Ancora più netta e radicale è però la sua opposizione alla concezione frequentistica della probabilità, proposta agli inizi del ‘900 proprio in seguito alle critiche mosse alla concezione classica e sistematizzata e formalizzata da Richard Von Mises (1883-1953).

Questo approccio alla probabilità prende avvio dal fatto che l’esperienza dice che al crescere del numero delle prove fatte tutte nelle stesse condizioni, la frequenza relativa pur variando, tende a stabilizzarsi attorno ad un valore, cioè ordinariamente le fluttuazioni molto grandi sono sempre più rare, e tale valore attorno a cui le frequenze relative si stabilizzeranno corrisponde al valore della probabilità dell’evento.

Vanno fatte alcune osservazioni in proposito:

  1. La legge non è dimostrabile ma è puramente empirica.
  2. Il caso “non ha memoria” per cui se lanciando una moneta viene “testa” molte volte di seguito, ciò non ci autorizza a pensare che nel lancio successivo sia più probabile che esca “croce”. Ogni lancio è indipendente dagli altri già effettuati.
  3. La legge empirica del caso dà un significato pratico al concetto di probabilità. La probabilità è la frequenza relativa con cui un certo evento tende a presentarsi su un numero grande di prove.
  4. La legge empirica del caso legittima la definizione frequentista o statistica di probabilità.

Si definisce così probabilità di un evento in senso statistico la frequenza relativa che esso assume su un grande numero di prove eseguite tutte nelle medesime condizioni

Questa definizione si applica in quei casi in cui non è applicabile la definizione classica in quanto viene a mancare la condizione di equiprobabilità degli eventi elementari su cui essa si basa. Ad esempio se abbiamo delle buone ragioni per ritenere che un dado sia truccato, non essendo per esempio costruito con materiale omogeneo, non potremo ritenere equiprobabili l’uscita dei sei numeri per cui non potremo assegnare alla probabilità di uscita del numero 1 il valore 1/6. L’alternativa è quella di ripetere il lancio del dado un numero elevato di volte, calcolare la frequenza relativa dell’uscita di 1 ed assumere per definizione tale valore come probabilità dell’evento.

Un esempio dello stesso De Finetti consente di evidenziare al meglio la differenza tra le tre definizioni considerate e la ragione per la quale egli rifiuta queste due prime concezioni della probabilità. Immaginiamo una partita di calcio per la quale gli eventi possibili sono:

  • La vittoria della squadra di casa;
  • La vittoria della squadra ospite;
  • Il pareggio.

Secondo la teoria classica c’è una probabilità su 3 che avvenga la vittoria della squadra di casa. Secondo la teoria frequentista ci si deve dotare di un almanacco, controllare tutte le partite precedenti e calcolare la frequenza di un evento. Secondo la teoria soggettivistica, da lui proposta, ci si deve invece documentare sullo stato di forma dei calciatori, sul terreno di gioco, sul rapporto tra la squadra di casa e il suo pubblico, sulla competenza dei due allenatori e via dicendo fino a emettere un giudizio di probabilità che coincide con quanto si sarebbe disposti a scommettere sulle tre alternative considerate. In questo caso la probabilità esprime il grado di fiducia che un determinato soggetto ha sul verificarsi di un evento e quanto, di conseguenza, egli è disposto a scommettere su di esso.

Per accreditare e corroborare ulteriormente la sua concezione De Finetti ha mostrato come, dal punto di vista matematico, l’interpretazione frequentista non sia che un caso particolare di quella soggettivistica.

Chi ritenesse insoddisfacente l’incidenza riconosciuta in questo modo all’incertezza e all’imprevedibilità, a suo giudizio, dovrebbe riflettere sul fatto che essi sono due meccanismi fondamentali dal punto di vista evolutivo, in quanto esercitano una continua pressione, evolutiva appunto, sui meccanismi di apprendimento.

Il fatto è che risulta davvero arduo, oggi, non convenire con la centralità che L’invenzione della verità attribuiva al rischio e all’incertezza. Come scrive Simona Morini in uno stimolante volume dedicato a questo aspetto[9]: «Ho iniziato questo libro scrivendo che ‘il rischio è, tecnicamente, la probabilità che si verifichi un evento indesiderato. Quanto più grande è la probabilità, quanto più indesiderato è l’evento, maggiore è il rischio”. La formula in teoria continua a essere semplice, elegante e ineccepibile – aggiungerei indispensabile, per contrastare i bias e le paure irrazionali innescate dal rischio –, ma è chiaro che in alcuni casi […] non è sufficiente ad affrontare i nuovi problemi della ‘società del rischio’. I modelli di cui disponiamo sono pensati per situazioni che possono essere caratterizzate da un numero finito di parametri, cioè situazioni “locali” sulle quali disponiamo di informazioni. Un sistema “globale”, con un numero imprecisato di parametri e di informazioni, e quindi spesso imprevedibile, richiede strumenti di analisi differenti, nuovi modelli matematici e, con essi, nuovi strumenti culturali, politici e decisionali. Esattamente come Beck, anch’io “non riesco a comprendere come si possano usare sistemi di riferimento sviluppati nel XVIII e XIX secolo per capire la transizione al mondo cosmopolita post-tradizionale in cui viviamo oggi”. Anche se forse potremmo dirlo in modo un po’ diverso[10]».

De Finetti partiva pertanto dal presupposto che i nostri valori si fondino non su roccia, ma su sabbia, ma questa loro condizione veniva da lui legata non al carattere quantitativo e numerico del rischio, ma a quello qualitativo dell’incertezza. Si tratta di una differenza cruciale, in quanto nell’esprimere questa sua convinzione egli si basava sul venir meno di una piena possibilità e capacità di comprensione e previsione non per limiti e difetti soggettivi dell’osservatore, ma per ragioni oggettive, come quelle contemplate dalla meccanica quantistica con il principio di indeterminazione di Heisenberg.

De Finetti si era reso subito conto che all’interno di questa teoria si registrano si conseguenza, come già evidenziato, due differenti modalità di evoluzione del vettore di stato. Da un lato, le normali interazioni tra due sistemi atomici, o tra un sistema atomico e un oggetto macroscopico che non sia un apparato di misura, sono caratterizzate da un’evoluzione deterministica regolata dall’equazione di Schrödinger, che descrive naturalmente anche l’evoluzione dei singoli sistemi che non interagiscono, mentre dall’altra il processo di misura, che presuppone la presenza e l’azione di un osservatore, provoca invece una transizione discontinua dallo stato iniziale a uno degli stati finali possibili. La teoria quantistica senza osservazione non determina più i fenomeni stessi, ma la loro possibilità, la probabilità che succeda qualche cosa.

Nella meccanica quantistica, pertanto, per passare da una descrizione impartecipe a una misura attiva, effettuata da un osservatore con il suo apparato di strumenti necessari per compiere l’operazione, occorreva rimuovere la stazionarietà ed entrare nella dimensione tempo. Proprio da qui de Finetti trae la conclusione che la scienza non si può affidare alla sola previsione, come se le cose andassero per conto loro. Si tratta di un problema di decisione, non di previsione. Questo è il punto: per l’uomo la previsione non è un fine, ma un mezzo, uno strumento per assumere decisioni efficaci, per cui è necessario abbandonare l’idea unidimensionale di “previsione” per passare a quella ben più complessa di “strategia”, basata sul ruolo attivo dell’osservatore. Un processo di questo genere evidenzia come quella che possiamo definire la pratica di costruzione degli scenari futuri sia qualcosa di profondamente diverso dagli scenari in sé, dato che il suo obiettivo non è solo né prioritariamente l’analisi finalizzata alla previsione, ma piuttosto l’elaborazione del senso e della conoscenza che i soggetti partecipanti alla costruzione di questi scenari devono saper esprimere per mobilitarsi in modo coeso e coordinato a un’azione che sia in grado di rendere il più possibili efficaci le loro strategie e i loro progetti. I sistemi fisici, e a maggior ragione quelli socioeconomici, che hanno consapevolezza di sé stessi, non possono andare per conto loro. Gli uomini ne sono interpreti e agenti, per cui ogni politica che li riguardi è condannata inesorabilmente all’inefficacia se non si innesta sulla possibilità e capacità di dare nuova forma e nuovo senso alle forme della costruzione collettiva della cultura e della partecipazione.

Proprio partendo da queste premesse de Finetti non si è voluto limitare a evidenziare gli aspetti costruttivisti della buona scienza, ma si è impegnato con successo a identificare in modo profondo l’aspetto costitutivo dell’incertezza, modellando un rigoroso e originale approccio alla teoria delle probabilità, caratterizzato da una concezione soggettivistica basata sul presupposto che, nei casi di alta complessità, dobbiamo ricorrere, come si è detto, a una scommessa razionale, a una scelta deliberata dell’osservatore. L’incertezza è la frontiera mobile della conoscenza: non abbiamo altra scelta, dato che la scissione tra l’evoluzione deterministica dei singoli sistemi che non interagiscono, che approda alla loro descrizione, e il passaggio all’azione che rende possibile l’osservazione e la misura, le quali provocano, come detto, una transizione discontinua dallo stato iniziale a uno degli stati finali possibili, ci obbliga a prendere atto di quanto sia infondata la “speranza” di chi ritiene che la probabilità di un evento futuro sia tanto maggiore quanto maggiore è la frequenza osservata di eventi “analoghi”. Aggiunge però che, mentre «è impossibile [una giustificazione globale] di questa regola, è tuttavia possibile una sua giustificazione locale», ricorrendo a una nuova ipotesi, «“estremamente chiara e semplice» – l’ipotesi di scambiabilità. Questa condizione probabilistica, già nota dal 1924 quando Jules Haag la fece oggetto di una comunicazione al Congresso dei matematici di Toronto, fu indipendentemente introdotta da De Finetti per tradurre in termini matematicamente precisi l’idea di prove analoghe dello stesso fenomeno, idea che è presente, in modo più o meno esplicito, in tutte le concezioni frequentistiche della probabilità. Esprimere quest’idea in termini di scambiabilità equivale ad assumere che, in una successione di prove, l’informazione sostanzialmente rilevante sia rappresentata dal numero di successi e di insuccessi, senza riguardo all’individuazione delle prove che hanno prodotto successo e di quelle che hanno prodotto insuccesso.

La presenza irriducibile dell’incertezza e il riferimento a essa quale frontiera mobile della conoscenza non significano, ovviamente, che non si possa e non si debba decidere: è stato John Nash, con la sua teoria dei giochi a somma diversa da zero, a chiarire che anche se non abbiamo mai tutta l’informazione possibile che ci interessa su una situazione, siamo tuttavia in grado di prendere delle decisioni. Non dobbiamo però mai credere che le nostre “puntate” sul mondo siano le uniche possibili. È il nostro gioco, la nostra “scommessa”, direbbe appunto De Finetti, la cui visione soggettivistica della probabilità può essere descritta come gioco tra due agenti che operano in base alle loro informazioni. La teoria dei giochi di Nash è molto interessante, perché collega l’aspetto epistemologico (descrivere il mondo) con la strategia (agire nel mondo), coerentemente con gli sviluppi della meccanica quantistica.

  1. Etica della probabilità ed etica della possibilità

Se vogliamo affrontare adeguatamente le questioni poste in modo così lucido e premonitorio da De Finetti e applicarle agli sviluppi dell’Intelligenza artificiale è oggi necessario riferirsi a un’idea di tempo e della sua articolazione interna e gestione alternativa rispetto a quella lasciateci in eredità dal pensiero classico, che a differenza di questa sia basata sulla differenza tra due parole per dire “futuro” che ci sono sia in italiano, sia in francese ma non, ad esempio, in inglese: futuro e avvenire, futur e avenir. Futuro, come detto, rappresenta il domani come continuazione di ieri e di oggi, come piena realizzazione delle tendenze già in essere, mentre avvenir indica una rottura radicale, una discontinuità con il presente e il passato: avvenire è ciò che deve venire (à venir), che è imperscrutabile, espressione di un’incertezza radicale, non ascrivibile ai limiti e ai deficit di conoscenza dell’osservatore, ma a una situazione ontologica del tutto indipendente da lui, come quella descritta appunto dalla meccanica quantistica.

Se non si prende atto di questa fondamentale novità la nostra realtà, lasciata a sé stessa, senza gli opportuni correttivi necessari, rischia di precipitare verso l’ultimo orizzonte del futuro come continuazione del nostro presente, verso quello che il filosofo Jean-Pierre Dupuy chiama il “punto fisso” distopico, il punto zero del collasso ecologico, del caos economico e sociale globale. Pur se rinviato a tempo indeterminato, questo punto zero è l’“attrattore” virtuale verso cui tende la nostra realtà lasciata a sé stessa, non governata come si dovrebbe, attraverso l’intervento attivo di costruzione degli scenari opportuni. Il modo per combattere la catastrofe che si profila è attraverso atti che interrompano la nostra deriva verso questo “punto fisso”. Ecco cosa significa la sostituzione del termine “futuro” con il termine “avvenire”: vuol dire spezzare la presa e l’ipoteca che il catastrofico “futuro”, come prolungamento e continuazione delle tendenze in atto, come proiezione nel domani delle regolarità di ieri e di oggi, ha su di noi, sui nostri destini, e aprire quindi lo spazio al possibile, a qualcosa di nuovo, imprevisto e imprevedibile, “a venire”, appunto.

Se si vuole davvero cambiare, se si vuole evitare ciò che oggi appare ineluttabile è necessario riferirsi a una nuova nozione di tempo, il “tempo lungo di un progetto”, che spezzi il circuito chiuso e la continuità tra passato, presente e futuro. Per farlo occorre introdurre retrospettivamente nel nostro passato possibilità controfattuali («Se avessimo agito in questo modo alternativo, i problemi catastrofici di fronte ai quali ci troviamo ora non si sarebbero verificati!»), ripensare sulla base di questi possibili il nostro presente, la situazione su cui oggi possiamo ancora agire, e immaginare un domani diverso da quello che ci si prospetta e che si aspetta. Bisogna, insomma, tessere il tempo diversamente da come lo si sta facendo, combinando l’idea del tempo come Aἰών con la concezione di un presente aperto e incerto, che dipende dall’abilità del tessitore insita, come si è detto, nel concetto di KaîroV , che può per questo essere considerato più incisivo dell’analogo Kairόs, con diversa accentuazione.

Dalle riflessioni di Appadurai possiamo trarre un ultimo spunto di riflessione che può tradursi in uno stimolo potente alla costruzione di scenari differenti da quelli attualmente in essere. Nelle ultime pagine del suo volume Il futuro come fatto culturale egli afferma che lo scopo del libro è quello di indagare «i modi in cui gli ultimi decenni della globalizzazione sono intervenuti a complicare le mie iniziali considerazioni sulla vita sociale delle cose. Possiamo ora vedere come le forme della circolazione continuino a interagire con la circolazione delle forme, a produrre configurazioni culturali nuove e impreviste nelle quali la località assume caratteristiche sempre nuove e sorprendenti, e poiché il processo di globalizzazione continua a generare nuove e complesse crisi di circolazione dobbiamo […] essere mediatori, catalizzatori e promotori dell’etica della possibilità a fronte dell’etica della probabilità. [Un] impegno morale fondato sulla convinzione che una politica genuinamente democratica non può basarsi sulla valanga di numeri circa la popolazione, la povertà, il profitto e il saccheggio che minaccia di soffocare ogni ottimismo street-level circa la vita e il mondo. Occorre, piuttosto incrementare l’etica della possibilità, che può offrire una base più estesa per il miglioramento della qualità della vita sul pianeta e accogliere una pluralità di visioni della buona vita[11].

Allo stile di pensiero e di azione dell’ingegneria finanziaria, che scommette sui disastri attraverso i cat bond, le “obbligazioni catastrofe” egli contrappone così l’“etica della possibilità”, quei modi di pensare, sentire e agire che ampliano gli orizzonti della speranza, espandono il campo dell’immaginazione, generano maggiore equità, allargano gli spazi di una cittadinanza informata, creativa e critica. Anche questo può essere considerato un effetto, tutt’altro che secondario e insignificante, della distinzione tra futuro e avvenire. Un avvenire inteso non come possibile scenario prossimo venturo, bensì come espressione e frutto dell’immaginario sociale mediante il quale le collettività elaborano strategie di adattamento e di sopravvivenza in una realtà dominata dalle forze “impersonali” della finanza, delle strategie mediatiche, del bricolage ideologico e religioso. All’“etica della probabilità”, che «porta il rischio in spazi di emergenza e sofferenza»[12], va fatta subentrare quella della “possibilità”, la quale «può offrire una base più estesa per il miglioramento della qualità della vita sul pianeta e accogliere una pluralità di visioni della nuova vita»[13]. Essa ci dice che è vero che il futuro è, per così dire, presupposto nel passato, per cui le sue forme, i suoi contenuti sono radicati nelle faglie inesauste delle esperienze trascorse. Pur essendo qualcosa di reale in questo senso non dobbiamo però dimenticare che se lo intendiamo come avvenire, nell’accezione che è stata precisata, è anche qualcosa di non propriamente reale, nel senso che esiste solo nella forma del non ancora, dell’atteso, come uno spazio temporale in corso di erogazione: solo pronto ad arrivare, ma non ancora giunto, e quindi tutt’altro che definito e per questo aperto a quella speranza di sapore tragico, in quanto sentita e vissuta come ultimo appiglio, alla quale si riferiva Dostoevskij a proposito delle sorti del nostro pianeta.

La matrice e il significato delle sue riflessioni su questo tema vengono illustrati, in modo acuto e penetrante, da Tat’jana Aleksandrovna Kasatkina, curatrice, insieme a Elena Mazzola, di una bella edizione italiana di Zapiski iz podpol’ja[14]. Tra le tante considerazioni pregevoli proposte dalla Kasatkina nella sua lettura del testo ve n’è una, di particolare interesse per la questione che stiamo trattando, che richiama il titolo di una sua raccolta d’interventi: Dal paradiso all’inferno. I confini dell’umano in Dostoevskij[15]. La conclusione di Dostoevskij in questa sua opera è che il purgatorio, contrariamente all’idea che ne propone la dottrina cattolica, non è un luogo di purificazione o di pena temporanea, vale a dire la condizione di coloro che, morti nella grazia di Dio, non sono ancora perfettamente purificati e devono quindi completare questo processo al fine di ottenere la santità necessaria per essere ammessi alla visione di Dio. Esso non è qualcosa di definito e statico, bensì il frutto dinamico e instabile delle interazioni tra due mondi diversi, della tensione fra opposti, il bene e il male, per cui è destinato ad assumere configurazioni differenti a seconda che prevalga l’uno o l’altro. Il nostro pianeta, intermedio tra il paradiso e l’inferno, ne è la prova lampante: «qui il diavolo lotta con Dio e il campo di battaglia è il cuore dell’uomo», per cui può assumere sembianze paradisiache o infernali. Tutto dipende dalle scelte dell’uomo: un paradiso recintato e chiuso è un inferno, un inferno in cui divampi l’amore è un paradiso.

Al di là e oltre quella porzione del concetto di futuro che potremmo definire come parte o tasso di prevedibilità ve n’è quindi una aperta, non soggetta al calcolo, qualitativa e non quantitativa che è il regno della speranza, che si apre e acquista consistenza se teniamo adeguatamente conto del fatto che l’esito della sfida posta dall’intelligenza artificiale dipende da quanto l’uomo è disposto a delegare alle macchine, in termini di conoscenza, costruzione degli scenari futuri, per riferirci ancora una volta alla terminologia di De Finetti, capacità deliberative e presa di decisione. Nella consapevolezza, che non può essere in alcun modo elusa, che ogni estensione della delega all’altro (in questo caso alla macchina) comporta, ovviamente una equivalente restrizione della responsabilità dell’uomo. È bene non dimenticarlo mai e riflettere sulle conseguenze, epistemologiche ed etiche, di questo rapporto costitutivo essenziale tra incremento delle deleghe e decremento (fino al limite estremo del possibile azzeramento) delle nostre responsabilità nei confronti delle generazioni future e del destino del nostro stesso pianeta: e non è certo casuale che l’allerta per questo rischio sia al centro del nostro odierno incontro in questa città che ha dato i natali a Emanuele Severino e ne custodisce il ricordo e l’eredità.

[1] Trascrizione, rivista dall’Autore, della conferenza tenuta a Brescia l’11 ottobre 2024.

[2] ‘Mind’ 59, 1950, pp. 433–460.

[3] A.O. Lovejoy, The Great Chain of Being, A Study of the History of an Idea, Harvard University Press, Cambridge, Mass., 1936, tr. it. di L. Formigari, Feltrinelli, Milano 1966.

[4] A. Appadurai, N. Alexander, Failure, Polity Press, Cambridge 2020, tr. it. di F. Peri Fallimento, Raffaello Cortina Editore, Milano, 2020.

[5] Ivi, p. 2.

[6] Ivi, p. 6.

[7] Si tratta, rispettivamente, di The Future as Cultural Fact: Essays on the Global Condition. Verso, New York 2013, tr. it. Il futuro come fatto culturale. Saggi sulla condizione globale, Raffaello Cortina, Milano 2014; e Banking on Words: The Failure of Language in the Age of Derivative Finance, The University of Chicago Press., Chicago 2016, tr. it. Scommettere sulle parole. Il cedimento del linguaggio nell’epoca della finanza derivata, Raffaello Cortina, Milano 2016.

 

[8] B. De Finetti, (1934), L’invenzione della verità, Raffaello Cortina, Milano 2006. Si tratta della pubblicazione postuma di uno studio inedito del 1934, destinato originariamente alla Reale Accademia d’Italia, rimasto “un esemplare dattilografato”, che ha visto la luce nel 2006, in coincidenza con il centenario della nascita dell’autore, grazie all’impegno della figlia Fulvia.

[9] S. Morini, Il rischio. Da Pascal a Fukushima, Bollati Boringhieri, Torino 2014.

[10] Ivi, p. 110.

[11] A. Appadurai, Il futuro come fatto culturale, cit., p. 411.

[12] Ivi, p. 409.

[13] Ivi, p. 411.

[14] F. Dostoevskij, Zapiski iz podpol’ja (1864), tr. it. Scritti dal sottosuolo, a cura di T. A. Kasatkina, E. Mazzola, La Scuola, Brescia 2016.

[15] T. A. Kasatkina, Dal paradiso all’inferno. I confini dell’umano in Dostoevskij, a cura di E. Mazzola, Itaca, Castel Bolognese 2012.