Il prof. Salvatore Veca intervistato da Ilario Bertoletti
FILIPPO PERRINI. Quali sono i motivi di questa sintonia tra la Cooperativa e il professor Veca, che è già stato invitato, con questa, ben sette volte, cosa rarissima in trentacinque anni d’incontri? Penso che uno riguardi proprio l’approccio alla filosofia. Nell’idea fondante della CCDC che si trova nell’home page del sito c’è la frase di Socrate “una vita senza l’esame del pro e del contro non è degna per l’uomo di essere vissuta”, che sta ad indicare la necessità di porsi domande, interrogativi come il primo dovere della ragione, la capacità di congiungere obbedienza alle leggi e obiezione di coscienza, l’interrogazione sul destino dell’uomo. A questo riguardo, mi piace riportare un brano tratto dal libro Dell’idea di incompletezza che presentiamo oggi: “Una vita senza l’esame non è degna di essere vissuta, come sostiene Socrate nell’Apologia di Platone, e cosa vuol dire alla fin fine l’esame socratico? Vuol dire impegnarsi nell’esercizio del domandare, del cercare connessioni, del rintracciare senso e significato nella trama altrimenti sconnessa della nostra vicenda e nell’avventura delle nostre vite finite”. Questo è il primo motivo di sintonia. In secondo luogo, il pensiero del professor Veca è un pensiero pluralista, aperto alle possibilità, alle alternative, come ha ben scritto oggi Ilario Bertoletti nell’articolo pubblicato oggi sul Giornale di Brescia, che non esclude la dimensione spirituale. L’incompletezza, che è costitutiva del pensiero umano, ci induce a esplorare lo spazio delle alternative e delle possibilità. Tutto l’opposto del pensiero monistico e del pensiero assoluto, che esclude ogni altro tipo di conoscenza al di fuori di quella espressa dai propri canoni, condannandola all’irrilevanza. Le pagine di Veca sul politicismo assoluto, sullo storicismo, sullo scientismo, sono particolarmente penetranti in questo senso. Infine, nella ragione sociale della nostra Cooperativa, c’è l’aggettivo “democratica”. Noi siamo nati in un periodo difficile per la democrazia, con la convinzione che il sistema democratico, pur con tutti i suoi limiti, sia il sistema migliore per regolare la convivenza civile. Salvatore Veca ha impegnato una parte considerevole della sua ricerca sui temi della democrazia, dell’eguaglianza e della giustizia, considerandoli questioni centrati nella riflessione filosofica. Noi siamo grati al professore per questa attenzione a questioni centrali per la persona umana e la convivenza, che il filosofo deve prendere in considerazione con il taglio che gli è proprio. Queste sono le ragioni profonde, oltre al tratto umano squisito, per cui accogliamo ancora a Brescia Salvatore Veca come un maestro e come un amico.
ILARIO BERTOLETTI. Come diceva Filippo Perrini, ci troviamo di fronte a un libro di filosofia vera e propria. Il professor Veca nel panorama intellettuale italiano e non solo italiano si caratterizza per una triplice attività scientifico-intellettuale. Una più propriamente da filosofo della politica: è grazie a lui che le teorie della giustizia di John Rawls a partire dalla fine degli anni Settanta sono entrate nel dibattito pubblico italiano e non solo italiano ed è grazie a lui che, di fatto, buona parte del linguaggio politico italiano, non solo della sinistra, è mutato all’interno di temi come quelli della equa distribuzione, della giustizia come equità. Ma accanto a questo il professor Veca – ricordo allievo di Enzo Paci – ha sempre fatto in questi anni una sua riflessione più propriamente teoretica che fa da sfondo come condizione di possibilità alla sua attività di filosofo della politica. Penso ad esempio a un libro importante come Dell’incertezza. Accanto a queste due attività di filosofo della politica e filosofo teoretico, Veca negli anni sui quotidiani, specie negli anni passati, ma in altri libri, tipo quelli pubblicati da Rizzoli o anche da Frassinelli, ha fatto attività di divulgazione. Però torniamo a questo libro: L’idea di incompletezza. Una cosa che di primo acchito sconcerta è la definizione di filosofia proposta da Veca in questo libro, che io trovo molto suggestiva: la filosofia è coltivazione della memoria ed esplorazione delle connessioni, il filosofo è colui che rintraccia un promemoria comune al mondo e analizza possibili connessioni. Bene, con l’idea di incompletezza in questo libro il professor Veca parte da grande figure intellettuali, un logico come Gödel e un filosofo della politica e un filosofo morale come Isaiah Berlin, e da lì inizia a fare la sua riflessione molto particolare sull’idea di incompletezza. È un libro di filosofia quindi, qua ci si addentra in un deserto di ghiaccio dell’astrazione ma appunto per questo parla più che mai della vita. Partirei quindi nel dialogo con il professor Veca da questa domanda: perché è giunto ora, dopo Dell’incertezza, a riflettere sul concetto di ‘incompletezza’ come centrale della sua filosofia ma non solo della sua filosofia ma, a ben guardare, nella filosofia contemporanea.
SALVATORE VECA. Grazie, grazie di cuore per l’invito, il settimo, è straordinario. Ho svolto tre tipi di ricerca nell’ambito della filosofia politica, morale e sociale, di cui uno di carattere più propriamente teoretico, nel senso che è una esplorazione più ampia rispetto all’ambito della vera e propria filosofia sulle tematiche politiche, istituzionali e giuridiche. Il tentativo di fare divulgazione io lo trovo una sorta di dovere intellettuale, per consentire a chi non è interno alla cerchia degli addetti ai lavori di avere in qualche modo la possibilità per imparare e riflettere, di avere accesso a qualcosa da cui altrimenti resterebbe fuori. In questo caso devo dire con molta onestà che questo libro L’idea di incompletezza è un libro di filosofia molto astratto. La filosofia se è ben fatta è inevitabilmente astratta: chiunque si occupi di questioni relative alla verità piuttosto che alla identità o alla giustizia, è chiaro che ha bisogno di elaborare un quadro concettuale. In genere tende a costruire una teoria di qualcosa, e per farlo – come nell’ambito dell’impresa scientifica – devi muoverti a livelli astratti. Per riuscire ad acchiappare qualcosa, una preda filosofica importante come la verità oppure la risposta alla domanda su che cosa è giusto fare, su che cosa è veramente importante per le nostre vite, si deve tentare di raggiungere un livello di altissima generalità e astrazione in cui tendi a unificare più di un dominio, a generare una matrice di intelligibilità che permetta di acchiappare più pesci possibili. Si costruiscono delle reti, una teoria scientifica è una teoria che, naturalmente fino a prova contraria, cerca di gettare reti sul mondo, sperando che i pesci non scappino: quando ne scappano troppi bisogna cambiare teoria perché non funziona. Questo è quello che io chiamo in questo libro il mestiere di chi esplora connessioni. Qualcuno potrebbe dire: io che faccio algebra o fisica teorica, più o meno faccio la stessa roba. Quello che è specifico della riflessione degli ultimi anni della ricerca filosofica, per come la intendo, è il fatto che tu non puoi sfuggire alla storia del repertorio filosofico, della tradizione filosofica che hai alle spalle. E questo è il coltivare memoria. Faccio un esempio banalissimo per chiunque si occupi di chimica: fino a Lavoisier c’era questa idea che perché degli elementi dessero luogo a combustione, bisognava che ci fosse una sostanza che chiamavano “flogisto”, che generava la combustione. Dopo Lavoisier questa teoria viene buttata nel cestino della carta straccia, come è giusto che sia. Allora, giriamo la cosa, immaginiamo che io cerchi di occuparmi del problema del principio della contraddizione, del problema dell’amore. La soluzione di Platone a proposito dell’Eros nel Simposio piuttosto della soluzione di Aristotele nel famoso incipit del quarto libro della Metafisica, è rilevante solo storicamente, come il flogisto per il chimico, o è rilevante, nel senso che è importante, che conta per chi fa filosofia? Leibniz ci interessa o meno filosoficamente? Penso proprio di sì, e questo a me sembra caratterizzare l’indagine filosofica, mentre i teorici del flogisto interessano solo chi fa storia delle idee.
Perché l’idea di incompletezza? Ho dedicato una delle mie ricerche che mi è costata più fatica, più tempo, all’idea dell’incertezza in un libro che è ormai del 1997. In questo libro sono presenti tre meditazioni che sono basate alla fin fine su un’idea molto semplice, che è questa: l’incertezza chiede a noi teoria, teoria alla grande o teoria terra terra? Più precisamente, non è tanto l’esservi l’incertezza che domanda una risposta in teoria, quanto il variare, l’oscillare del confine fra quanto è stipato nel capitale di certezza che ciascuno di noi ha e quanto, invece, è esposto alle possibilità, all’incertezza, alla probabilità. Non vuol dire nulla affermare che siamo società incerte. Il problema semmai è quello del rapporto di quanto sta da una parte e quanto sta dall’altra. Quando un bel pò di capitale accumulato di certezza viene eroso, viene scompaginato, viene svalutato dal vento dell’incertezza, allora noi ci dobbiamo rimettere in moto e dobbiamo cercare semplicemente di capire, di vedere come rimettere in ordine le cose. Noi siamo essenzialmente animali umani, i quali sono creature di abitudini e quando questo capitale di abitudini viene messo sotto pressione dal mondo dell’incessante trasformazione è allora che noi abbiamo bisogno di rimettere in ordine il mondo che cambia, in cui noi cambiamo. Pensate a tutte le questioni bioetiche, lì il capitale di certezze che noi abbiamo viene sfidato da possibilità prima inedite. Bene, per noi che siamo creatori di abitudini cosa vuol dire fare un bambino, cosa vuol dire scegliere come farlo nascere? Scegliere come nascere, come far nascere, è una cosa che è possibile solo alla luce di innovazioni tecnologiche e teoriche che scompaginano però il quadro abituale delle nostre certezze e ci pongono il problema, per esempio, se tutto ciò che possiamo fare causalmente, con tutti gli effetti che possiamo avere, sia giusto o no, se le responsabilità causali che abbiamo non generino forse nuovi oneri nelle responsabilità morali.
Allora, questo tema dell’incertezza, della partizione instabile fra certo e incerto, io l’ho esaminato, l’ho immerso in tre grande campi. Nel campo, nello spazio di ciò che vi è, lo spazio in cui il nostro interesse è a dire come stanno le cose nel mondo, noi inclusi, lo spazio in cui gioca un ruolo cruciale la nozione di verità, di validità. L’altro ambito che ho cercato di esplorare è quello di ciò che per noi vale religiosamente, eticamente, culturalmente, ciò che conta per noi, che è diverso da come stanno le cose. Questo secondo ambito riguarda quindi lo spazio di ciò che vale, lo spazio dei valori in una molteplicità di sensi, etici, politici, giuridici, delle istituzioni, delle pratiche sociali, eccetera. Infine, l’ultimo spazio, l’ultimo ambito in cui esplorare l’idea d’incertezza era quello che riguarda le risposte che siamo in grado di dare non su che cosa siamo noi, questo ce lo dice il primo tipo di ricerca, ma su chi siamo noi, questioni di identità. Nel libro Sull’incertezza il problema è: quella incertezza genera la domanda di teoria. Il problema che affronto qui, invece, è come il collegamento di quello, cioè qual è la natura delle nostre risposte all’incertezza, cioè qual è la natura delle nostre teorie nell’ambito del valore, quando ci misuriamo con il problema della giustificazione, dell’apologia, della difesa dei valori che riteniamo di dover difendere e per delle ragioni. Quando ci mettiamo alla prova con l’interpretazione di qualcosa, testi, opere, evento, fatti, quando infine ci mettiamo alla prova con metodi di dimostrazione entro sistema formali. Allora, le teorie che si apprestano, che si dispongono, che si discutono entro questi campi sono tutte caratterizzate in modo differente dall’avere una certa proprietà d’incompletezza: la prima lectio è sull’incompletezza quanto al valore, al dominio dei valori, lo spazio di ciò che vale per noi; la seconda è sull’incompletezza quanto ai nostri metodi di giustificazione dei valori; la terza sull’incompletezza quanto ai nostri tentativi ermeneutici, cioè d’interpretazione di una gran varietà di cose; la quarta sull’incompletezza – in omaggio a Kurt Goedel – dei sistema formali, quando i sistema formali avanzano la pretesa di, in qualche modo, render conto, fondare o spiegare, contenere i diversi campi del sapere.
ILARIO BERTOLETTI. Il professor Veca ha fatto l’architettonica del libro e appunto seguiamo passo passo l’analisi di questa architettonica. La cosa interessante è che in questo libro il primo dominio in cui si incappa in questioni di incompletezza è l’ambito dei valori, che dovrebbero essere ciò che è di più certo nella vita di ciascuno di noi, i valori che movimentano le decisione nell’abitare il mondo. La cosa interessante è che per fare questa riflessione Veca parte da delle riflessioni di Isaiah Berlin (di cui il professor Veca ha curato per la Morcelliana il saggio per eccellenza di Berlin Sulla Ricerca dell’Ideale), e afferma che quando si ha a che fare con valori non solo di diritto è impossibile aver a che fare con una gerarchia ordinata di valori ma che il valore in quanto tale vale. É è un paradosso, proprio perché si frammenta il valore invita alla transazione, alla tolleranza e all’accoglienza. Chiederei allora al professor Veca se brevemente ci delinea qual è il profilo di questa teoria dei valori intrinsecamente pluralisti, dei valori intrinsecamente frammentari che allontanano dal rischio del fanatismo del valore assoluto.
SALVATORE VECA. Nella prima lezione in realtà ci sono due tesi. La premessa è che uno accetti l’essere i valori ciò che per noi conta e che noi riteniamo debba contare per chiunque. Quindi quando dico ‘valori’, intendo valori etici o politici, che siano dettati da credenze religiose o meno, che riguardano i modi in cui noi siamo tenuti a trattarci gli uni con gli altri, quale che sia il nostro ruolo, che valgono per me come per chiunque altro, per il fatto che dovrebbero valere per chiunque. C’è un grandissimo economista, Kenneth Arrow, premio Nobel per l’economia, che ha inventato la teoria assiomatica della scelta, il famoso paradosso della scelta democratica. Arrow dice che in fondo i gusti stanno a una polarità e i valori stanno a un’altra polarità e possiamo slittare tra gusti e valori, perché se cominciamo a fare una discussione intorno al vostro film preferito e se prendete sul serio l’idea di darmi la ragione per cui preferite quel film, vedrete che ci sono molte più cose che non il semplice fatto che a me piaccia Mahler piuttosto che Michael Jakson, per esempio. Ora, se uno accetta la tesi sul pluralismo dei valori vuol dire semplicemente che le cose buone, importanti della vita sono più d’una, sono plurali. Non è una tesi relativistica, questo fa parte della natura di ciò che per noi vale. Però, se uno accetta questo, si rende conto di due cose. Primo che se è vero che ciò che per noi vale è frammentato, cioè ci sono più cose buone della vita e seguirne una implica un costo dell’altra, cioè nessuna scelta è gratis. Vuol dire che sarà raccomandabile muoversi in quel modo piuttosto che in un altro con la consapevolezza che perdi qualcosa. Questo è il punto. Tutti noi amiamo essere più liberi possibile, essere sicuri. Quindi, in realtà, qualsiasi soluzione sarà una soluzione di equilibrio relativamente stabile o instabile fra quanto ci dettano valori diversi e che possono fra loro confliggere. Tutti amiamo l’efficienza, quale che sia la definizione che ne diamo e non siamo insensibili a una qualche forma di equità, quale che sia l’interpretazione che ne diamo. Se spingiamo troppo su una parte, perdiamo qualcosa dall’altra. Allora, proiettatelo sul nostro mondo, noi e altri. Il tema del ‘noi’ è centrale in questo libro, chi siamo noi, questo è il problema. Vi renderete conto che se le cose stanno così, allora non c’è e non può darsi una forma di vita collettiva, un assetto delle istituzioni fondamentali, anche il più degno di onore da parte nostra che non implichi una qualche perdita in valore. Detto così è molto astratto ma vuol dire semplicemente questo, che esiste un dominio di valori, quel grappolo di valori fondamentali della convivenza, che noi difendiamo e onoriamo, che spesso vengono violati e offesi, ma in cui noi e altri ci riconosciamo e identifichiamo, mentre altri si riconoscono e si identificano in altri valori. Allora, se non accettiamo il pluralismo c’è guerra, se accettiamo il pluralismo dei valori ci rendiamo conto che vi sono dei valori che non sono giustificabili come risorse di cui disponiamo entro il nostro dominio, e tuttavia non sono per questo meno valori, sono valori per altri. Facciamo un esempio semplicissimo. Tutti parlano del problema islamico ma pensate al modello confuciano, che peraltro ha una rilevanza e avrà una rilevanza molto ampia nella vita dei nostri nipoti. Ora, il modello confuciano è basato sulle corde della deferenza, la deferenza della donna verso il maschio, la deferenza dei figli verso i genitori, la deferenza del suddito verso l’imperatore. La deferenza stabilizza l’armonia e l’armonia e la coesione della società sono i beni supremi. Questa idea delle corde della deferenza è tipico di società gerarchiche, questa è la grande tradizione confuciana, quella che ha resistito nonostante i centottanta, centonovanta anni di tentativi di modernizzazione, chiusi da poco (e adesso gli istituti Confucio proliferano per il mondo). Ora, è chiaro che noi non possiamo accettare, dall’interno del nostro dominio di valori, un modello che si basa su valori per cui la gerarchia è il valore prioritario, ma vogliamo dire per questo che l’ideale dell’armonia e della coesione, dello stare insieme in equilibrio – vecchio termine del maestro Confucio – non è un valore? Allora, vuol dire che i valori che noi onoriamo implicano una qualche perdita, che non c’è forma di vita che non sia insatura rispetto al valore, e questo è fonte di tragedia ma anche di bellezza, perché vuol dire che nel confronto tra modelli e modi alternativi, differenti, di pensare noi stessi e gli altri, vi è spazio per negoziati, per ascoltare. C’è una vecchia massima di saggezza confuciana che dice: noi dobbiamo essere le ali a noi stessi e perciò attenti agli altri, cioè a nessuno si può chiedere di revocare la propria lealtà, ma proprio per il fatto di essere leali, essere fedeli a quanto ci detta ciò che ci identifica, proprio per questo possiamo essere attenti e, se volete, aperti. Allora, in questo modo si pone molto l’accento su ciò che ci distingue, cioè l’umanità, la virtù della deferenza verso la gerarchia, la virtù del principio della libertà delle persone e della nozione di ‘persona’, quale che sia il significato per questa elusiva e preziosa nozione. Se andiamo a vedere ciò che ci differenzia, possiamo ritenere le differenze in qualche modo più un valore di quanto non sia una specie di monolite. Allora, la seconda tesi della prima lezione è quella che dice: d’accordo, guardiamo alle differenze, al vasto mondo delle differenze, ai mutevoli confini del noi, dei vari noi, sulla scorta dell’incompletezza di ciascuno dei valori, ma non dimentichiamo il semplice promemoria umano della comune umanità, e in questo caso quello che diventa importante non è tanto quello che ci differenzia ma quello che ci accomuna. Noi dobbiamo poter pensare che valori anche alternativi e diversi dai nostri sono valori per qualcuno, e intanto quello che potremmo riconoscere è che essere umani, quale che sia il posto dove è accaduto di essere gettati nel mondo, di nascere, è un elemento che connette, che crea i ponti o può crearli. E di qui un’indagine del libro, dove in ciascuno dei capitoli c’è un tentativo di applicazione di questa idea. La prima applicazione la faccio sul Libro della Sapienza, sull’idea dell’eguaglianza umana. L’altro tipo di uguaglianza umana viene inseguito in due grandi passi di Shakspeare dal Macbeth e dal Re Lear.
ILARIO BERTOLETTI. Non possiamo non essere portatori di valori, ma i nostri valori non sono gli unici né gli ultimi ma siamo costretti a traslarli. Il primo capitolo potrebbe essere così sintetizzato: elogio e necessità del compromesso. Il secondo capitolo, la seconda lezione, è dedicato al problema di come giustificare le nostre credenze etiche, che significa qual è il confine che Veca chiama dell’identità non dell’io ma del “noi”, del nostro gruppo, e qui Veca fa un bellissimo riferimento a Matteo Ricci, questo grande gesuita che va in Cina e che costruisce un modello teorico in cui incorpora gli elementi essenziali del pensiero cinese, o meglio ancora confuciano, all’interno del suo cristianesimo. Qui chiederei al professor Veca in che senso giustificare per avere a che fare con i limiti di ciò che noi chiamiamo il nostro “noi”? La necessità di essere accoglienti anche di altri valori, di altre memorie, proprio nel momento in cui traccio il limite del nostro “noi”.
SALVATORE VECA. La vicenda del grande gesuita di Macerata, di Matteo Ricci, mi ha sempre affascinato. È stato ripubblicato da Adelphi da un anno un libro bellissimo, che è Il palazzo della memoria, che io avevo fatto pubblicare molti anni fa da Il Saggiatore. Prima di affrontare Matteo Ricci, volevo solo fare una piccolissima premessa. Se la prima lezione sostiene la tesi centrale dell’incompletezza di qualsivoglia dominio di valori, nella seconda lezione il problema diventa: come possiamo comportarci noi, come è possibile giustificare? La nozione di giustificazione è quella che è tipica proprio della ricerca condotta dalla filosofia politica, della teoria conoscitiva dove si tratta di dare ragione di qualcosa, e se devo dare ragione, devo difendere qualcosa, ciò vuol dire che qualcuno vuole l’accordo. Se voi pensate alla grande tradizione apologetica, essa è una tradizione di difesa di qualcosa che viene criticato da altri. Quindi, dobbiamo assumere che vi sia conflitto, disaccordo, e la nozione di giustificazione mira a generare le ragioni della condivisione e dell’accordo stessi. Questo è quello che si è chiamato per tanto tempo il problema del fondare i valori, i diritti; per esempio quale fondamento per i diritti umani? (è dalla Dichiarazione dei diritti umani che ci si pone questo problema). Allora, la grande questione consiste in questo, che se noi siamo disposti a riconoscere che i valori che noi onoriamo o quelli che potremmo onorare, o quelli che altri onorano, hanno una storia, cioè non sono sempre stati quei medesimi valori, se allora è contingente il fatto che a noi sia accaduto di essere eredi di certi fatti che si sono convertiti in valori, come possiamo giustificarli? Come si dice in gergo, come si fa a tenere assieme il riconoscimento della contingenza, della storia, e la normatività, le ragioni a favore di qualcosa? È questo il tema tecnico che ha generato nella ricerca filosofica, nel paesaggio intellettuale contemporaneo, molte tesi scettiche, le tesi dell’ironia liberale di Richard Rorty, per esempio: su cosa possiamo basare la preferibilità del comunicare ad altri dei valori su cui noi ci appoggiamo? Sul fatto che è andata bene così, non abbiamo altro da dire, afferma, non ragionare, guarda, racconta delle belle canzoni, per altri saranno invece canzoni tristi. Vuol dire che se riconosciamo la contingenza, non ha senso mettersi al lavoro per giustificare certi valori. Io sono convinto invece che Rorty sbagli, ma su questo è in atto una lunga discussione con Vera Ruydens, che mi sembra essere uno dei maggiori filosofi contemporanei, sfortunatamente scomparso qualche anno fa e che era anche una persona di grande fascino individuale e intellettuale. Ma veniamo allora a Matteo Ricci (ne Il palazzo della memoria di Spencer trovate tutta l’ampia trattazione). Quando Matteo Ricci viene mandato in Cina, fa questo famoso, lunghissimo viaggio, poi rimane lì (alla fine muore in questo Paese), si misura con il tipico problema di cui parlavamo prima, e che è sottostante alla tesi circa la giustificazione contingente. Cioè, deve misurarsi, avendo mire di conversione, con culture sideralmente remote dalla sua, perché si deve confrontare soprattutto con la cultura confuciana, in subordine con il taoismo e con il buddismo, che sono però minoritari, mentre il suo vero interlocutore, gli “altri” per lui (ecco i confini del “noi”), l’altro “noi”, è confuciano: cioè sono i mandarini, gli esperti nell’elaborazione dei discorsi sui fini, sulle condotte, ecc. La prima cosa che egli fa è quella di scrivere un libro (nel frattempo si studia il cinese mandarino); c’è una bellissima prefazione del suo amico Xi-tai che in sostanza dice: questo è il libro di uno che voleva essere nostro amico e che per divenire nostro amico ha fatto un viaggio molto lungo. E questo libro si chiama Dell’amicizia. E come lo compone? Prende passi del nostro canone classico, dei testi greci, soprattutto testi latini, che vengono poi connessi con l’eredità cristiana. E poi assembla, fa un lavoro di negoziato inserzionistico con passi che derivano dalle scuole confuciane, e ne risulta questa specie di esito in cui egli riesce a far sì che non si sentano estranei coloro che fanno parte di quell’altro “noi” e per altro possono vedere come quel loro modo di pensare, in questo caso la virtù dell’amicizia, non sia poi così radicalmente alternativo rispetto a quello del “noi” da cui viene Matteo Ricci. Ma Matteo Ricci era anche uno straordinario mnemotecnica. La mnemotecnica ha una grandissima tradizione tra il Quattrocento (anche prima) e il Seicento (pensate a Lullo, all’arte della memoria). Allora, cosa fa? Lui disegna e progetta il palazzo della memoria, il cui atrio dovrebbe essere aperto egualmente ai gesuiti, al “noi” dei gesuiti, a coloro che professano la fede cristiana cattolica, e dev’essere però ospitale, cioè non estraneo nei confronti degli “altri”, diciamo i confuciani. Allora, che cosa fa? Nell’atrio pone quattro icone alle quali ne affianca altre quattro; una icona deriva dall’iconologia e iconografia cristiane, quindi c’è il Signore che cammina sulle acque (non viene mai nominato Gesù Cristo) e soccorre coloro che sono sfiduciati; poi ci mette a fianco una icona che deriva dalla tradizione confuciana, e così via, sempre con la stessa logica, fino all’ultima in cui c’è una donna con un bambino; questa è Maria, e dall’altra parte ci sono delle grandi immagini di frutta. Qui c’è una cosa superba e molto ironica, perché il progetto dell’icona della donna con il bambino, realizzato dallo scalpellino, che avrebbe dovuto recare la scritta Ave Maria gratia plena, per errore dello scalpellino recita invece Ave Maria gratia lena, cioè salta la “p”. Allora, dato che Plena vuol dire piena, l’espressione significa piena di grazia, mentre Lena denota una donna che seduce e attrae. Allora, Spencer dice: può darsi che Matteo Ricci non si sia accorto dell’errore puramente materiale dello scalpellino, o forse, meglio, se ne è accorto e abbia detto di lasciare le cose così. Cosa che io trovo geniale. Occorre dire che, naturalmente, la Chiesa richiamò l’ordine dei Gesuiti e poi inviò i Domenicani. Però Ricci restò lì con molti amici e, credo, fino a pochissimo tempo fa, se non ancora adesso, la statua di Matteo Ricci è nel palazzo imperiale, nel palazzo del Partito Comunista Cinese. Pensate l’impegno di Matteo Ricci nel ridurre le distanza tra una cultura e l’altra, nel negoziare, nel cercare un accordo onorevole per entrambe le parti. Questo è il punto, ricordate la battuta di Confucio: non ti chiedo di rinunciare alle tue credenze, come non chiederesti tu a me di rinunciare alle mie, ma possiamo trovare un terreno comune, alla fine i confini di questi “noi” si fanno porosi; è soltanto in questo modo, sia pure così difficile, quello del cambiamento dei confini del “noi”, che si possono generare alternative degne di lode. Allora, concludo, la risposta è che tutta questa fase in cui prendiamo sul serio noi e gli altri, il fatto di ridurre l’area del disaccordo o variare la distanza tra culture, questa è già etica. É una tesi cui tengo molto: il semplice fatto di mettersi alla prova è già etica, cioè non è che etica sia solo il risultato di una applicazione delle procedure, bensì è di per sé un valore il prendere sul serio se stessi e gli altri, quel non rinunciare all’idea che sia possibile arrivare a un accordo onorevole, perché se poi le cose andranno bene, faranno sì che dicendo “noi” cattureremo anche un pò degli altri e gli altri, dicendo “noi”, cattureranno anche un po’ di noi stessi. Questa è una formulazione che piace molto a Carlo Maria Martini: “la difficile arte di imparare a convivere con la diversità”, e Matteo Ricci era molto bravo in questo.
ILARIO BERTOLETTI. Anche in considerazione dell’ora, farei due ultime domande al professor Veca, due domande che si intrecciano tra loro. La terza lezione è dedicata a cosa significa interpretare il mondo in cui si tratta di vivere, interpretare un testo, e qui la sfida è doppia, da un lato contro Nietzsche, il quale, secondo una certa vulgata, affermerebbe che tutto è interpretazione, e dall’altro lato lo scettico che mette in dubbio ogni nostra pretesa di affermare qualcosa riguardo al mondo. La cosa interessante di Veca è che qui introduce una sottile e secondo me molto affascinante distinzione tra oggetti “saturi” e oggetti “insaturi”, due metafore che stanno a dire che ogni nostra conoscenza, interpretazione, sia essa del mondo, di un testo, di un dialogo con altri, ha sempre a che fare con due cose, con qualcosa che devo dare per presupposto, che è oggetto insaturo ma proprio a partire da questi limiti (è questo il secondo elemento) io mi apro a interpretare un mondo incompleto. Io chiederei al professor Veca che ci illustri brevemente questa sua teoria dell’interpretazione della tensione dialettica tra ciò che è certo e ciò che è incerto, incompleto. Dato che l’interpretare comporta sempre questa tensione essenziale, non è che alla fin fine il suo pensiero ruota attorno a che cosa significa possibile per noi, ai quali è assegnata una vita finita? Che cosa significa possibile dal punto di vista propriamente umano?
SALVATORE VECA. Prendete la celebre battuta, non pubblicata di Nietszche: “non ci sono fatti, ci sono solo interpretazioni”. Ebbene, questo cosa vuol dire? Vuol dire che qualsiasi cosa tu definisca un fatto, non sarà altro che una interpretazione, non sarà altro che una fra le possibili interpretazioni alternative, ciascuna delle quali vale quanto l’altra. Questo è il prospettivismo nietzschiano preso sul serio. Nietzsche è assolutamente straordinario, ed è terribilmente elusivo e contraddittorio, scrive forse il più bel tedesco ma è aforistico. Non ci sono fatti ma solo interpretazioni è stato in fondo alla base del pensiero decostruzionista, post-moderno, argomenti di cui si è anche discusso questa estate sul nuovo realismo e sul pensiero debole. Allora, quello che io faccio è questo, prendo questa proposizione e la connetto a uno dei modi con cui si replica alla obiezione scettica che dice: su quale base affidabile tu mi dici che le cose stanno così? Ti potresti ingannare. Lo scetticismo è fondamentale, se non ci fosse bisognerebbe inventarlo, ma è assolutamente importante trovare una replica. Ci sono due tipi di replica, la replica kantiana, diretta, quella che vuole tagliare le gambe alla obiezione scettica, e c’è la cosiddetta replica indiretta. Quello che io voglio fare applicando il modello di replica indiretta allo scetticismo, è arrivare a riconoscere che qualsiasi fatto può essere una interpretazione, ma non è possibile che tutti i fatti lo siano congiuntamente. Per esempio, per poter mettere in dubbio qualcosa dobbiamo immunizzare rispetto al dubbio qualcos’altro. Conosciamo benissimo l’immagine di Wittgenstein sulla certezza in cui egli dice: quando siamo nella ricerca è come se certe proposizioni fossero messe fuori dalle rotaie, e altre proposizioni scorressero nelle rotaie. Cioè per poter fare indagine, per poter dubitare di qualcosa, occorre che qualcos’altro venga sottratto al dubbio, altrimenti non avrebbe senso neanche dubitare (se tutto è acqua, perché mi chiedi un asciugamano?). Dunque, la tesi diventa questa: non c’è credenza che non possa essere messa in dubbio, ma non tutte le credenze lo possono essere congiuntamente. Vedete bene che ciò è isomorfico, è simmetrico. Cosa ne risulta? Perché l’alternativa alla tesi nietzschiana “non fatti, solo interpretazioni”, è “solo fatti e niente interpretazioni” in cui consiste il positivismo, lo scientismo. Uno dei più importanti tentativi odierni nel nostro paesaggio intellettuale sono i cosiddetti programmi di naturalizzazione. Quante volte si prende un termine, per esempio economia, e ci si mette prima neuro: neuroeconomia, neurotica; le neuroscienze cognitive sono oggi la punta dell’iceberg di un potente programma mirante alla naturalizzazione. Il termine ideale di un programma di naturalizzazione è quello che finisce per dire: fatti e non interpretazioni, e favorisce l’atteggiamento riduzionistico. Non voglio però cedere tutto il campo, voglio raccogliere il meglio dell’obiezione di Nietzsche. Nel mio libro ho introdotto la nozione di oggetto saturo e insaturo. Possiamo dire che ci sono oggetti saturi rispetto a qualsiasi interpretazione alternativa, quando viene stabilmente condivisa una singola interpretazione che in genere viene chiamata spiegazione. Lo vedete dal punto di vista del cambiamento dell’impresa scientifica: la fisica delle particelle ai tempi pionieristici aveva una descrizione dell’interpretazione dell’atomo che era molto diversa da quella oggi dei fisici del Gran Sasso sui neutrini. Il fatto che un oggetto sia saturo non vuol dire che lo sarà per sempre, perché lo è fino a prova contraria. Pensate alla tensione fra i due grandi paradigmi in fisica teorica, ancora oggi fra tentativi di unificazione delle forze fondamentali: il paradigma della relatività generale e il paradigma quantistico. È naturale che tutti gli sforzi che i fisici stanno facendo per una teoria del tutto, mirino a saturare perché noi facendo teorie cerchiamo di acchiappare più pesci che possiamo. Ma la consapevolezza del fatto che ciò che è saturo non lo è per sempre, è l’idea del limite, dell’umiltà di esseri finiti, goffi, anche se siamo riusciti a fare un mucchio di cose nel bene e nel male.
Questo è un libro sulla possibilità, il vero punto in cui si pone il problema di che cosa sia l’alone delle possibilità è singolarmente presentato in una delle parti più tecniche del libro, quella che spiega in maniera non tecnica (non sono un logico matematico) i celebri teoremi di limitazioni di Gödel. Negli anni Trenta Gödel dimostrò che qualsiasi sistema formale del tipo di Russel, Whitehead, Peano, ecc., assiomatico, che pretendesse di contenere l’aritmetica o buona parte dell’aritmetica, cioè il grande programma formalistico, era destinato a contenere proposizioni o enunciati indecidibili formalmente. Il che vuol dire che il sistema non era completo rispetto agli output della costruzione matematica e, in secondo luogo, che nessun sistema formale può disporre di una dimostrazione della propria coerenza. Quindi se si toglie completezza e coerenza a un sistema formale che è meramente formale, cioè sintattico, restano dei segni che non significano nient’altro che il loro rapporto tra di loro. Questo risultato a cui Gödel perviene con una strategia intellettuale di una potenza impressionante è straordinario, perché ha spazzato via la più grande ricerca della filosofia della matematica e dei fondamenti della matematica, e ha aperto possibilità prima impensabili. Gödel e Turing consentono di concepire come possibile ciò che prima era inconcepibile, e questo è il paradosso dell’innovazione: il possibile per noi è l’ospite inaspettato. Nel caso delle nostre vite, essendo animali di abitudini, abituati a convivere con il pilota automatico innestato, a un certo punto c’è qualcosa che non torna, (può essere una persona, un incontro, un ricordo, una sciagura, un appagamento), qualcosa che scompagina il nostro quadro: non potevamo immaginare che quelle possibilità fossero lì, luminose, perché c’era una certa inaccessibiltà. Questo è il punto che io esamino solo nella conclusione dell’ultima lezione ed è quello che ha a che vedere con la prospettiva non di chi fa teoria su queste cose, cioè dell’osservatore, ma di chi cerca di renderci conto di che cosa si prova, che effetto fa, essere tipi come noi siamo. È questa la grande ipotesi che io ho citato da un filosofo dal quale ho imparato molto, soprattutto l’amore per la filosofia, che era Enzo Paci, e questa era la grande impresa della fenomenologia di Husserl più di un secolo fa, cioè è l’idea di uno sguardo che parte dal punto di vista soggettivo e personale, e non oggettivo e impersonale, per rendere conto di cosa si prova a vivere le vite che noi viviamo. Ora vi introduco la prospettiva dell’osservatore e la prospettiva del partecipante e procedo a un esame riflessivo e socratico (onorando il primo punto della Cooperativa) di questioni di vite, in particolare del caso in cui noi stessi proviamo la nostra incompletezza, essendo esseri che aspettano qualcosa, cioè che hanno desideri relativi ai propri stati futuri nel tempo. Ci sono due modi in cui noi possiamo rendere conto del nostro avere desideri di futuro: uno è quello in cui noi desideriamo avere cose, quali che siano, perché sappiamo che ci saremo, cioè dobbiamo riempire il senso delle nostre vite future perche ci saremo e questi sono desideri ipotetici, condizionati dal fatto che noi assumiamo che ci saremo, e d’altra parte noi desideriamo delle cose perché sappiamo che ci saremo, noi desideriamo raggiungere certi scopi e abbiamo bisogno di futuro per questo: questi sono desideri categorici e non condizionati. Provate a riflettere sulle vostre vite e provate riflettere sul paesaggio sociale in cui siamo, in cui sappiamo che nascono sempre meno bambini e l’aspettativa di vita è sempre più lunga, e quindi avremo sempre più persone anziane. Allora, pensate al rapporto tra l’avere una voglia di cose, quali che siano, perché ci saremo, e aver voglia di esserci per fare queste cose, quali che siano. Questa è una riflessione che vi affido. Grazie.
NOTA: testo non rivisto dagli Autori. La conversazione si è tenuta a Brescia l’8.11.2011 su iniziativa della Cooperativa Cattolico-democratica di Cultura.