«L’illuminismo è l’uscita dell’uomo dallo stato di minorità che egli deve imputare a se stesso. Minorità è l’incapacità di valersi del proprio intelletto senza la guida di un altro. Imputabile a se stesso è questa minorità, se la causa di essa non dipende da difetto di intelligenza, ma dalla mancanza di decisione e del coraggio di far uso del proprio intelletto senza essere guidati da un altro. Sapere aude! Abbi il coraggio di servirti della tua propria intelligenza! È questo il motto dell’illuminismo» (I. Kant)
I CARATTERI DELL’ILLUMINISMO
Il secolo dell’illuminismo è il XVIII. Il suo motto è Sapere aude! «L’illuminismo – ha scritto Immanel Kant (Risposta alla domanda: che cos’è l’Illuminismo) – è l’uscita dell’uomo dallo stato di minorità che egli deve imputare a se stesso. Minorità è l’incapacità di valersi del proprio intelletto senza la guida di un altro. Imputabile a se stesso è questa minorità, se la causa di essa non dipende da difetto di intelligenza, ma dalla mancanza di decisione e del coraggio di far uso del proprio intelletto senza essere guidati da un altro. Sapere aude! Abbi il coraggio di servirti della tua propria intelligenza!».
L’illuminismo è un movimento culturale di polemica e di critica, vasto nella sua estensione, profondo nell’indagine di problemi particolari, superficiale nell’esame filosofico di problemi di fondo.
Malgrado l’ideale programmatico di assoluta chiarezza razionalistica, è contraddittorio e oscillante nei suoi propositi e nelle sue manifestazioni: intransigentemente critico e insieme ciecamente dogmatico; conscio dei limiti dell’uomo eppur proteso ad esaltarlo in una specie di escatologismo laico; rivaluta fortemente i poteri della ragione e pure prelude alla esaltazione romantica della passione (Helvetius, Diderot, Gioia, Rousseau); coltiva a un tempo il mito dell’uomo primitivo e il mito del progresso (Rousseau, Condorcet); è sensista in gnoseologia e universalista esasperato in diritto, politica e religione (l’ideale cosmopolita è sentito come eliminazione di differenza).
I maestri dell’illuminismo sono: Cartesio, Locke, Newton, Hume. Di Cartesio si ritenne: il dubbio metodico, la certezza del cogito, l’atteggiamento critico contro ogni tradizione, l’interpretazione meccanicistica del mondo, la persuasione che la ragione è una e la stessa presso tutti gli uomini e in tutte le epoche. Si fraintese invece il metodo intuitivo-deduttivo e si ripudiò la metafisica. Dell’empirismo inglese l’illuminismo trasse la violenta caratterizzazione antimetafisica; si rifiuta (presente?) recisamente l’analisi razionalistica ai problemi metafisici: metafisica e trascendenza non sono problemi filosofici, ma superstizioni.
La sintesi delle soluzioni a cui perviene l’illuminismo può essere così espressa: deista, l’illuminismo fece posto a larghe correnti di ateismo; venerò la scienza: l’illuminismo è dominato dallo spirito di Newton (per il quale compito della scienza non è la spiegazione, ma la descrizione della natura, la sistemazione matematica dei dati di esperienza); professò l’agnosticismo metafisico e l’oggettivismo dei diritti naturali, fondamento della critica all’assolutismo politico; congiunse, a suo modo, empirismo radicale (lo spirito come tabula rasa, metodo induttivo, critica dell’innatismo) e razionalismo (Ernst Cassirer: la ragione non è più la «ragione delle idee eterne», ma un’energia capace di scomposizione e ricostruzione dell’oggetto da spiegare); in etica prevalgono i sistemi edonistici e utilitaristici; in gnoseologia: psicologismo; in pedagogia: ottimismo e naturalismo, la natura è fonte di verità, benessere, esperienza. La ragione rivela all’uomo la sua vera natura e perciò lo determina a ritornare a questa natura.
Il ritorno dell’uomo alla sua natura razionale, finalmente illuminata e scoperta, esige il ripudio di tutti i pregiudizi e le tradizioni che si sono frapposte, attraverso i secoli, tra l’uomo e se stesso. Le possibilità originarie dell’uomo non sono rivelate dalla tradizione, ma dall’analisi razionalistica. La ragione illuminista non riconosce altra guida che se stessa. Di qui la sua ostilità verso la tradizione.
L’antitradizionalismo illuminista è anche antistoricismo? Malgrado le ricorrenti dichiarazioni dei pensatori illuministi sull’inutilità della storia, il giudizio non è così drastico. Secondo Wilhelm Dilthey il Settecento ha creato un grande concetto storico, quello della solidarietà del genere umano. Per Ernst Cassirer l’esigenza razionalistica di un esame critico dei documenti storici preparò la via alla scoperta del mondo storico; sulla stessa linea Nicola Abbagnano: la critica della tradizione preparò la vera costruzione storiografica così come una nuova azione storica, il formarsi di una coscienza autenticamente storica.
L’illuminismo in Italia
L’illuminismo in Italia è caratterizzato dalla prevalente attenzione alle problematiche morali, politiche e giuridiche. Sui temi gnoseologici prevale un prudente eclettismo, che modera il sensismo francese. I due centri più importanti sono Milano e Napoli e il contributo più alto è costituito dal libro Dei delitti e delle pene di Cesare Beccaria, l’unico scritto dell’illuminismo italiano che ebbe risonanza europea.
Le figure più significative a Napoli sono Pietro Giannone (1676-1748), critico del clericalismo; l’abate Galiani (1728-1787), economista, critico del mercantilismo; Antonio Genovesi (1712-1769), schietto empirista, costruisce con la ragione una metetrica dei piaceri; Gaetano Filangeri (1752-1788), ottimista sull’efficacia educativa della legislazione e propugnatore dell’educazione pubblica; Mario Pagano (1748-1799), che riprende Vico in chiave naturalistica.
A Milano gli scrittori illuministi si riunirono intorno al periodico Il caffè che ebbe vita breve ed intensa (1764-1765). Il giornale era diretto dai fratelli Alessandro Verri (letterato e storico) e Pietro Verri (filosofo ed economista, autore del Discorso sull’indole del piacere e del dolore).
Collaboratore della rivista fu Cesare Beccaria (1738-1794), secondo il quale lo scopo della vita associata è «la massima felicità divisa nel maggior numero». La misura della pena è il danno recato alla società: la punizione dev’essere pubblica e regolata dalle leggi. È contro la pena di morte (un errore giudiziario diventa così irreparabile, è una «guerra della nazione contro il cittadino») e la tortura (il reo è tale dopo la sentenza; «il dolore diventa il crogiuolo della verità, quasi che il criterio di essa risieda nei muscoli e nelle fibre di un miserabile»).
Con Giovanni Domenico Romagnosi (1761-1835) la filosofia italiana si licenzia dal sensismo di Condillac. Il suo programma è superare sia il sensismo sia il divorzio tra sensitività e intelligenza. La filosofia ha caratteri e finalità politiche e sociali: promuove l’umano incivilimento. Il dovere morale dell’uomo è concepito sotto l’aspetto del «sommo bene» sociale. Malgrado i residui sensistici e utilitaristici, il pensiero di Romagnosi ha qualche spunto assai felice. Valida, ad esempio, è la distinzione tra il diritto, «che rafforza la colleganza», e la morale, «il cui compito è santificare l’umanità».
Melchiorre Gioia (1767-1828) difese l’utilità della statistica per fini sociali. Come il legno non è la scure che lo spacca, così il materiale sensibile non si può confondere con il pensiero che lo penetra e lo ordina. Identifica la morale con l’economia e il progresso sociale, ma sa bene che spesso manca l’invocata coincidenza tra interesse privato e bene pubblico. Infine va ricordato in questa breve carrellata padre Francesco Soave (1743-1816), che con i suoi manuali introdusse nelle suole italiane la filosofia di Locke e Condillac. Appiccica alla morale sensistica conclusioni scolastiche. «Filosofia di una tenuità compassionevole, e dannosissima, malgrado le pure intenzioni» (Antonio Rosmini).
L’illuminismo in Germania
I punti di forza dell’illuminismo tedesco sono dati dal metodo di analisi razionale, cauto e insieme deciso, che avanza dimostrando la possibilità intrinseca dei concetti di cui si avvale, il loro fondamento, e dall’atteggiamento deistico.
Christian Wolff (1679-1754) ebbe una straordinaria influenza sulla cultura tedesca del tempo. Il programma della sua filosofia consiste nel raggiungimento della felicità attraverso la conoscenza chiara e distinta. Ritiene valido l’argomento cosmologico, accetta quello ontologico, rifiuta quello teleologico. Distingue tra psicologia razionale e psicologia sperimentale o scienza naturale. L’imperativo morale è: «Fa quello che contribuisce alla perfezione tua e del prossimo»: ciò che è conforme a natura, e quindi anche il piacere. Nel mondo non vi è una finalità intrinseca, ma un ordine meccanicistico: il mondo è uguale ad un orologio. Di Leibniz rimane la dottrina dell’armonia prestabilita ristretta al rapporto tra anima e corpo.
Altri pensatori del periodo sono Martin Knutzen (1713-1751), maestro di Kant; Christian August Crusius (1715-1775), critico dell’ottimismo leibniziano e del determinismo, e Johann Heinrich Lambert (1728-1777). Quest’ultimo vuole «anatomizzare» i concetti e costruire il regno a priori delle verità logiche necessarie. La verità assolutamente necessaria, Dio, è garanzia di ogni altra.
Il più notevole dei seguaci di Wolff fu Alexander Gottlieb Baumgarten (1714 -1762), che introdusse i termini «estetica» e «gnoseologia». L’estetica è la parte della gnoseologia che riguarda la conoscenza sensibile, mentre la logica concerne la conoscenza intellettuale. L’attività estetica è un analogo della ragione, il cui dominio ha per limite inferiore la conoscenza sensibile oscura e per limite superiore la conoscenza logica distinta. Di fronte all’obiezione che le facoltà inferiori non vanno eccitate ma vinte, Baumgarten risponde che si richiede il dominio, ma non la tirannide sulle facoltà inferiori. Secondo Nicola Abbagnano «i risultati fondamentali dell’estetica di Baumgarten sono sostanzialmente due: 1. Il riconoscimento del valore autonomo della poesia e in generale dell’attività estetica, cioè di un valore che non si riduce alla verità che è propria della conoscenza logica. 2. Il riconoscimento del valore di un atteggiamento o di una attività umana che era ritenuta inferiore e quindi la possibilità di una più compiuta valutazione dell’uomo nella sua totalità» (Nicola Abbagnano, Storia della filosofia, Utet, Torino 1953, 3a ed., p. 400).
L’illuminismo tedesco ebbe una particolare attenzione ai problemi religiosi. Secondo Hermann Samuel Reimarus (1694-1768) ogni rivelazione è falsa ed è vera solo la religione naturale: «Soltanto il libro della natura, che è creazione di Dio, è lo specchio nel quale tutti gli uomini… di tutti i luoghi e di tutti i tempi possono riconoscere se stessi».
Mosè Mendelssohn (1729-1786) condanna in blocco ogni chiesa e ritiene che l’ideale dell’unificazione religiosa, di cui parla il Locke, non possa avere validità giuridica. Il singolo uomo può perfezionarsi, ma non il genere umano.
Personalità eclettica, difende l’immortalità dell’anima e il panteismo spinoziano. Gotthold Ephraim Lessing (1729-1781) parte dal wolfismo per arrivare allo spinozismo. La ricerca perenne della verità è preferibile al possesso, come è stato espresso in famoso scritto Eine Duplik del 1778: «Se Dio tenesse nella sua destra tutta la verità e nella sua sinistra il solo tendere verso la verità con la condizione di errare eternamente smarrito e mi dicesse: Scegli -, io mi precipiterei con umiltà alla sua sinistra e direi: Padre, ho scelto; la pura verità è soltanto per te». Il problema di Lessing sarà ripreso da Søren Kierkegaard: si può realizzare nel tempo un destino eterno? Possono eventi storici particolari fondare verità religiose eterne e universali? La rivelazione positiva prepara e preannuncia la rivelazione della ragione a se stessa. La rivelazione è educazione dell’umanità, apprendimento di ciò che la ragione umana non è ancora in grado di intendere. Da questo punto di vista, la rilevazione stessa si storicizza, accompagnando l’intero corso della storia.
L’illuminismo in Francia
Tutti i temi speculativi dell’illuminismo francese sono desunti dall’illuminismo inglese, tranne quello della storia. In questo ambito vi è il contributo più originale: la contrapposizione tra storia e tradizione.
Pierre Bayle (1647-1706) è stato detto con esagerazione il fondatore dell’acribia storica per aver espresso i doveri e i compiti dello storico. Lo storico che sopprime i fatti o il libellista che «taglia le gambe ai fatti» è come un venditore disonesto. Lo storico non è al servizio dei nazionalismi, non deve conoscere interessi di parte, deve «spogliarsi dello spirito di lusinga e dello spirito di maldicenza». I problemi metafisici (male, provvidenza, grazia e libertà) sono insolubili: è preferibile non sofisticare con la ragione e rifugiarsi nella fede (Gottfried Wilhelm Leibniz: Pierre Bayle vuol far tacere la ragione dopo averla fatta parlare molto).
Montesquieu (1689-1757) è il principale pensatore politico dell’illuminismo. Avversario dell’assolutismo, le sue opere (tra cui ricordiamo le Lettere persiane e Lo spirito delle leggi) sono caratterizzate da una serenità di critica. Tre sono le tipologie delle forme di governo (repubblica, monarchia e dispotismo) che si ispirano a principi etici differenti (virtù, onore e timore). Poiché il dispotismo è sicuramente il male peggiore, Montesquieu individua il rimedio per tenerlo lontano nella divisione dei poteri, per cui il potere legislativo, esecutivo e giudiziario sono in capo a diversi organismi (nella costituzione inglese a cui il Montesquieu si riferisce sono il parlamento, il monarca e la magistratura indipendente).
Per Condorcet (1743-1794) non c’è un limite al perfezionamento delle facoltà umane; «la perfettibilità dell’uomo è indefinita» e giungerà un tempo in cui anche la morte sarà soltanto «l’effetto o di accidenti straordinari o della distruzione sempre più lenta delle forze vitali». «La marcia dello spirito umano» condurrà l’uomo alla massima felicità possibile, attraverso il superamento delle diseguaglianze ingiuste. L’ordine storico fissa lo schema di un progresso ininterrotto.
Voltaire (1694-1778) si definisce né pessimista né ottimista: se tutto non è bene, tutto è passabile. Non si infrange una bella statua fatta di diverse leghe per il motivo che non tutto è oro o argento. Il male è uno scandalo solo per chi si pone dal punto di vista dell’assoluto; ma questo non è il punto di vista umano. Maine de Biran nelle note volterriane su Blaise Pascal scrive: «Si direbbe che sono state scritte apposta per svelare tutto quanto vi è di piccolo, di misero, di puerile nella nostra filosofia moderna, e far risaltare la nobiltà e la grandezza di una filosofia opposta a quella delle sensazioni». Dio c’è ma è assente: è autore, non provvidenza del mondo. È interesse degli uomini condursi in modo da rendere possibile e felice la vita sociale: l’utilità sociale è la più alta norma etica. Dubbia è la realtà ontologica dell’anima, pure materia di fede è l’immortalità. L’uomo è libero, ma in limiti assai ristretti. Voltaire ebbe chiari i limiti dell’azione storica individuale; «Amo poco gli eroi, fanno troppo fracasso», scrive arditamente a Federico II dopo una vittoria militare. Contro Jacques Bénigne Bossuet, scrisse il Saggio sui costumi, in cui sottolinea come l’uomo sia l’artefice e il protagonista della storia, non la provvidenza. La certezza storica non è se mai che un’estrema probabilità. Voltaire oscilla tra la polibiana e ciceroniana historia magistra vitae e la scettica conclusione: «tutta la storia è pressappoco un succedersi di crimini». Quale sarà allora la storia utile? «Celle qui nous apprendrait nos devoirs et nos droits sans paraitre preténdre nous les enseigner (Quella in cui apprendiamo i nostri doveri e i nostri diritti senza pretendere di insegnarli)».
Fontanelle (1657-1757) prima di Voltaire critica la storia erudita: si devono rintracciare nello spirito le ragioni della storia. Lo spirito umano è meno capace di errore se sa fino a qual punto ne è capace. Rispetto al passato i moderni sono più esperti, se non più saggi, anche se il progresso morale non è adeguato a quello delle arti e delle scienze (così nel brioso dialogo tra Socrate e Montaigne). Gli antichi hanno pagato per noi il tributo dell’errore: «Chi sa quante sciocchezze diremmo, se non fossero state già dette», dice Fontanelle con fine ironia. Come David Hume, Fontanelle osserva che i secoli non creano differenze naturali tra gli uomini; le numerosissime differenze sono causate da «circostanze esteriori»: governi, affari, eccetera. Se la natura dell’uomo cambiasse radicalmente nel corso della storia umana, non avremmo più la storia dell’uomo, ma tante storie separate di specie diverse.
In conclusione, il mondo storico fu scoperto dal romanticismo, ma l’illuminismo aveva cominciato con il porre il problema, sia pure in modo sfocato e polemico. Si è misurata la storiografia illuministica su quella del secolo XIX senza paragonarla con le tendenze che la precedettero. L’errore dell’illuminismo non consiste nell’aver postulato una natura universale dell’uomo, bensì nell’astratta concezione di questa natura, che non consentiva di cogliere la complessità e il concreto dinamismo dei fatti storici, ma neppure il valore e il fine della storia. Spesso la concezione della storia e la prassi storiografica dell’illuminismo oscillano fra i poli opposti dell’ottimismo per l’avvenire e del pessimismo nei riguardi del passato: soggetto di tutti gli errori nel passato, l’umanità sarà capace di tutte le conquiste nel futuro.
In campo gnoseologico la più compiuta indagine è quella di Condillac (1715 -1780) che si rifà a Locke. Nel Trattato delle sensazioni immagina che una statua acquisti a poco a poco i diversi sensi, dall’olfatto fino alla vista e al tatto; ed esamina quale sia l’apporto che ciascuno dà alla vita psichica, e come dal loro accostamento e raffronto l’uomo possa istruirsi, su di sé e sul mondo che lo circonda. Scopo principale dell’opera «è fare vedere come tutte le nostre conoscenze e tutte le nostre facoltà derivino dai sensi, o, per parlare più esattamente, dalle sensazioni: infatti, in verità, i sensi ne sono soltanto la causa occasionale. Essi non sentono, solo l’anima sente attraverso gli organi, e dalle sensazioni che la modificano trae tutte le conoscenze e tutte le facoltà». Per Condillac, tuttavia, l’uomo non è il prodotto passivo delle sensazioni: esso ha in sé un principio di iniziativa, che si manifesta attraverso una forma di inquietudine, che lo spinge ad orientarsi verso questo o quell’oggetto.
Il massimo strumento di diffusione delle dottrine illuministiche fu l’Enciclopedia, realizzata tra il 1751 e il 1772 sotto la direzione di Denis Diderot (1713-1784). Quest’ultimo sottolinea il valore approssimativo degli schemi scientifici e l’inutilità per la scienza delle cause finali. Il mondo non è un Dio, ma una macchina che esige l’artefice.
Alle stesse conclusioni perviene anche Jean-Baptiste Le Rond D’Alembert (1717 -1783), collaboratore di Diderot nei primi anni dell’Enciclopedia. Per D’Alembert tutte le nostre conoscenze derivano dai sensi e il passaggio dalle sensazioni agli oggetti non è frutto di ragionamento, ma da «una specie di istinto più sicuro della stessa ragione».
Nell’ambito morale un certo interesse ricopre la figura di François de La Rochefoucauld (1613-1680) che nelle Massime (edite quattro volte dal 1666 al 1678) afferma l’assoluta incapacità dell’uomo a compiere un solo atto disinteressato. Le Massime, che vorrebbero essere l’anti-Seneca, esprimono in realtà un equilibrato naturalismo vicino all’ideale dell’honnête homme, signorilmente scettico: l’uomo nulla ha perduto, nulla deve riconquistare. Pure il senso della libertà responsabile è il presupposto tacito di ogni giudizio e di ogni riflessione. Di qui non poche contraddizioni. Un esempio ai nn. 86 e 87 si afferma: «La nostra diffidenza giustifica l’inganno altrui» e «Gli uomini non vivrebbero a lungo in società se non si ingannassero», mentre al n. 84 viene detto che «è più vergognoso diffidare dei propri amici che essere ingannati». L’indicazione del dover essere è presente, anche se non è consapevolmente giustificata. Notissima la formula epigrafica: «Le nostre virtù non sono il più delle volte che vizi mascherati».
Altre massime significative:
6 – La passione fa spesso un pazzo del più sagace uomo e rende spesso i più sciocchi sagaci.
8 – Le passioni sono i soli oratori che persuadono sempre.
10 – Vi è nel cuore umano una generazione perenne di passioni, di modo che il ruinare di una è quasi sempre l’affermazione di un’altra.
29 – Tutto il male che noi facciamo non ci attira tante persecuzioni quanto le nostre buone qualità.
31 – Se non avessimo dei difetti, non prenderemmo tanto piacere a scoprirne negli altri.
55 – L’odio per i favoriti non è altro che amore per il favore.
64 – Non fa la verità tanto bene nel mondo, quanto male vi fanno le sue apparenze.
102 – La mente è sempre lo zimbello del cuore.
114 – Non possiamo darci pace se siamo ingannati dai nemici e traditi dagli amici, e siamo invece contenti di essere ingannati e traditi da noi stessi.
133 – Le sole copie buone sono quelle che mettono in chiaro il ridicolo dei cattivi originali.
145 – Certe lodi avvelenate son fatte apposta per far vedere in coloro che lodiamo quei difetti che non oseremmo scoprire in altro modo.
159 – Non basta avere grandi qualità, bisogna anche conoscere l’economia.
171 – Le virtù si perdono nell’interesse come i fiumi nel mare.
196 – Dimentichiamo facilmente le nostre colpe quando non sono note che a noi.
218 – L’ipocrisia è un omaggio che il vizio rende alla virtù.
226 – La troppa fretta a sdebitarsi di un’obbligazione, è già una specie di ingratitudine.
227 – Le persone fortunate non si correggono mai: credono sempre di avere ragione, mentre è solo la fortuna che sostiene la loro cattiva condotta.
229 – Il bene che abbiamo ricevuto da qualcuno esige che rispettiamo il male ch’egli fa.
271 – La gioventù è la febbre della ragione.
284 – Certi cattivi sarebbero meno pericolosi se non avessero qualche bontà.
347 – Noi non troviamo molte persone di buon senso fuori di quelle che sono del nostro parere.
496 – Le liti non durerebbero a lungo se il torto fosse da una sola parte.
IL CONCETTO DI NATURA IN ROUSSEAU
«Il a mis son âme dans ses écrits»
Di Rousseau non ci si libera facilmente. Malgrado i limiti delle sue concezioni e il cammino straordinariamente fortunato di alcune di esse, nei più diversi campi – e in primo luogo in pedagogia, in politica e in religione – questo pensatore «plein du langage de la philosophie, sans etre véritablement philosophe1, «plus ardent qu’éclairé »2, non solo è entrato nel continuum della cultura europea, ma non ha cessato ancor oggi di esercitare con la sua presenza un’azione stimolante quanto mai efficace. Il suo «messaggio» non è inquadrabile in una concezione ben articolata da giudizi che si sorreggono a vicenda e siano definiti, né ad esso si ritorna solo per un interesse storico o per una dotta curiosità. Rousseau reca con sé un’inquietudine che per certi aspetti ha della magnanimità, agita problemi vivi, attuali e d’importanza universale, ha il dono di attirare a sé anche quando non convince. Il suo pensiero e le esperienze personali fondamentali della sua vita sono intimamente avvinte3 con una immediatezza che sorprende il lettore, s’impone alla sua attenzione, trovando quasi sempre adeguata espressione in uno stile che esce dalla linea severa del ragionamento, ma che riesce a dare vivo risalto a ciò di cui si parla4.
È stato detto assai bene che il ginevrino, più di qualsiasi scrittore del suo tempo, «a mis son âme dans ses écrits et cette âme, sans être grande, ne laisse point d’être, par quelque coté, belle et touchante, malgré les nombreux défauts qui sont presque des vices»5.
Ciò che si chiama «dottrina» del Rousseau è un pensiero vasto e tormentato, in cui l’allusione al dato esistenziale è appena velata, ed è questa la ragione per cui noi che viviamo in una temperie spirituale tanto diversa da quella di Rousseau possiamo riconoscere che la «prima impressione, che un lettore – che non sia tale per vanità e passatempo – riceve dagli scritti di J.J. Rousseau è quella di trovarsi dinanzi ad una rara penetrazione di spirito, a un nobile slancio di genio, a un’anima piena di sensibilità», anche se si deve subito aggiungere che «l’impressione che le tiene immediatamente dietro è quella dello sbalordimento cagionato dalle opinioni singolari e paradossali dell’autore». Questo giudizio, che pure ci pare vero oggi, è di Kant, di cui è interessante ricordare un’altra opportuna considerazione che il biografo Ludwig Ernst Borowski ci fa conoscere: «Devo leggere e rileggere Rousseau sino a che la bellezza dell’espressione non mi turbi più, poiché allora soltanto lo posso intendere con la ragione»6.
Rousseau è autore vivo, pur nelle sue contraddizioni, perché egli osò esprimere ciò che era nel suo cuore e con le sue parole manifestò il centro vitale delle aspirazioni profonde dell’epoca sua, e dette voce alla protesta e alle attese di quanti erano al margine della società, sotto il giogo del privilegio e della tirannia.
Figlio dell’illuminismo, a cui pagò un oneroso tributo di suggestioni corrosive nella soluzione di molti problemi (anti-metafisica, utilitarismo sebbene non disgiunto da un alto senso della dignità dell’uomo, fondamento teistico della sua teodicea, ecc.), dell’illuminismo confutò l’illusione intellettualistica7 e disprezzò l’angustia borghese8. M.me d’Epinay ci riporta come rivolta all’indirizzo degli illuministi un’affermazione del Rousseau che spiega l’energia profetica con cui egli, da una parte nelle prime opere rese problematico il valore di una scienza senza coscienza e, dall’altra, tentò nell’Emilio e nel Contratto sociale di darci il vangelo dell’uomo e del cittadino finalmente libero: «Detesto – disse una volta – questa rabbia di distruggere senza riedificare». Dalla polemica radicale dei due discorsi sorse l’indicazione di un compito positivo e rivoluzionario, per cui occorreva tramutare la propensione romantica della fuga nel primitivo, nell’impegno attivo di preparare il futuro, prefigurandolo nel suo dover essere. Le prospettive si chiarirono, la pars destruens divenne premessa alla pars costruens, ma Rousseau nella sua ricerca – malgrado oscillazioni significative e innegabili sviluppi – innalzò la sua anima ad un impulso ideale che riassunse nel motto «ritorno alla natura» e fu pertanto, come ha ben detto lo Spranger, «un filosofo dell’anelo»9 dell’anelo a un libero sviluppo, a una liberazione dell’uomo essenziale dalle troppe catene e dalle insopportabili sfigurazioni. Per un compito così innovatore e così alto Rousseau assunse un unico principio a presupposto e archetipo, una idea-immagine nebulosa e incircoscritta: il concetto di natura.
Il problema J. J. Rousseau
Può sembrare, ed è, un paradosso, eppure J. J. Rousseau, «le saint de la nature»10 e il pedagogista dell’educazione naturale, non è riuscito mai a dare unità logica alla sua concezione della natura, la cui irriducibile imprecisione ha fatto nascere «il problema J. J. Rousseau», una ridda di ipotesi interpretative che, a loro volta, introducono alle più diverse valutazioni del pensiero roussoiano. L’idea-immagine di «homme de la natura», negazione del «l’homme de l’homme», di quello costruito fittiziamente dalle «addizioni sociali» comanda la teorie etiche, politiche, religiose e pedagogiche del ginevrino; ma è proprio dal suo seno che si dipartono tutte le antinomie e le incertezze del pensiero roussoiano. Non sono mancati i tentativi di spiegare l’opera roussoiana da un punto di vista unitario, ma essi obbediscono tutti ad una superiore esigenza teoretica di coordinazione e di semplificazione, insensibilmente prestata dai critici a Rousseau, la cui opera manca di coerenza interna e di unità logica.
Rousseau è proteiforme e la sua genialità non conosce il controllo di una severa disciplina di pensiero. Il pensiero si svolge in coppie di antinomie ed è facile credere che la sua posizione fondamentale sia proprio la riconosciuta incompatibilità dei valori fra loro, per cui s’impone una scelta: natura o cultura, natura o società, moralità o senso estetico, educazione individuale o educazione sociale, religione naturale o cristianesimo, Jean Jacques uomo naturale e semplice e Rousseau filosofo e scrittore. Questa tesi, sostenuta dal Groethuysen11, è troppo aderente alle più appariscenti formulazioni dei paradossi per essere conclusione più vera di un pensiero così intimamente travagliato. Senza dubbio Rousseau lumeggia di ogni questione tesi e antitesi con un irrigidimento dei termini che spesso è artificioso, ma per limitare l’una con l’altra, additandoci con felici intuizioni una sintesi continuamente sfiorata e mai raggiunta. La sua maniera di ottenere la nota mediana è sovrapporre violentemente due toni schietti. Rousseau non sta fermo all’antitesi, «che appaga il retore, ma non soddisfa la sua coscienza»12.
In Rousseau ci sono alcune costanti che caratterizzano in modo inconfondibile il suo pensiero, ma la sinuosità degli sviluppi, la frequenza delle contraddizioni e dei conati per superarle ci portano a scorgere l’umanità psicologica della sua problematica, ma non l’unità logica e teoretica.
La natura come cosmo e lo stato di natura
La parola «natura» nasconde una molteplicità di significati. Rousseau esaltò la natura come scenario significativo, organico e amabile del mondo, ed insieme rapporto per cui l’insieme delle cose e il loro principio rinviano l’uno all’altro, donde l’elogio della vita in campagna come vita a contatto con la natura in contrapposizione a quell’estraneamento dalla natura che assume aspetti paurosamente disumani nei grandi agglomerati urbani. Il suo modo di sentire la natura e il paesaggio naturale come forza pacificatrice dello spirito e inesauribile fonte di ispirazione indurrà Kant, nonostante il suo formalismo, a riconoscere nella terza Critica all’organicità vitale della natura una netta prevalenza sulla considerazione della legalità matematica e a rivalutarla dal punto di vista estetico e finalistico. Rousseau qui, come altrove, prelude al senso romantico della natura, sebbene egli non abbia mai confuso l’insieme delle cose e il loro principio creativo. La natura delle cose ci è presente dappertutto, non così la «natura degli uomini». La natura celebrata nel Discours sur l’origine de l’inégalité vorrebbe significare essenza dell’umanità nello stato originario, ricostruita con dei «raisonnements hypothétiques et conditionnels (ragionamenti ipotetici e condizionali)». Bisogna spogliare la natura di Glauco dei detriti dei secoli per poterla finalmente vedere nella sua forma primigenia. «Semblable à la statue de Glaucus, que le temps, la mer et les orages avoient tellement défigurée qu’elle ressembloit moins à un dieu qu’à un bête féroce, l’âme humaine, altérée au sein de la société par mille causes sans cesse renaissantes, par l’acquisition d’une moltitude de conaissances et d’erreurs, par le choc continuel des passions, a pour ainsi dire changé d’apparence au point d’être presque méconnaissable (l’anima dell’uomo – come la statua di Glauco, che il tempo, il mare e le tempeste hanno sfigurato al punto da renderla simile più a una bestia feroce che a un dio, – cambia fino a essere quasi irriconoscibile, collocata com’è nel mezzo del tessuto sociale, alterata da mille fattori sempre rinascenti, scossa dal continuo flusso delle passioni e in ragione dell’acquisizione di molteplici conoscenze ed errori, che ne mutano la fisionomia)». È l’unico modo di cogliere «ce qu’il y a d’originaire et d’artificiel dans la nature actuelle de l’homme (ciò che c’è d’originario e di artificiale nella presente natura dell’uomo)», di discernere «ce qu’a fait la volonté divine d’avec ce que l’art humaine a pretendu faire (ciò che ha fatto la volontà divina di ciò che l’arte umana ha preteso fare)»; è l’unico modo di determinare la legge che anche attualmente «convient le mieux à sa constitution (conviene maggiormente alla sua indole)».
Il mito dell’immediatezza istintiva e della primitività edenica, mito assai diffuso ed elaborato nella cultura del tempo, esalta la fantasia di Rousseau, che però nella prefazione dello stesso Discours sur l’inégalité ha precisato i rigorosi limiti dell’ipotesi, a cui ha dato corpo con la sua abilità di scrittore: «Chi parla di stato di natura, parla di una condizione che non esiste più, che forse non è mai esistita e probabilmente non esisterà mai e della quale tuttavia bisogna farsi un concetto adeguato, per poter giudicare rettamente del nostro stato attuale».
Non basterebbe fare il giro del mondo, se fosse possibile, né interrogare tutte le testimonianze della preistoria; l’etnografia e l’etnologia non ci danno la vera conoscenza dell’uomo. Offrono spunti interessanti ma del tutto insufficienti. Esiste una sola via per distinguere l’homme naturel dall’homme artificiel ed è la scoperta di sé, la conoscenza di sé, portando ognuno in sé, nelle proprie profondità l’immagine originaria dell’umana natura. Montaigne aveva scritto: «ciascun uomo porta intera la forma della condizione umana». Rousseau di fronte al suo secolo rivendica come la ragione della propria grandezza sia la scoperta dell’uomo nella sua essenza costitutiva, quindi nel suo valore, in una ricerca che congiunge il senso della propria assoluta singolarità e l’universalità autentica dell’originaria condizione umana. «Donde mai l’autore di questa dottrina – è scritto in uno dei dialoghi di Rousseau juge de Jean Jacques – donde il pittore e l’apologeta della natura umana avrebbe potuto prendere il suo modello, se non l’avesse trovato nel suo cuore?».
Il problema diventa attanagliante e le soluzioni prospettate hanno un interesse teorico e pratico assai maggiore quando dal quadro ideale sognato si passa a indagare «la différence entre l’homme naturel vivant dans l’état de la nature et l’homme naturel vivant dans l’état de société (la differenza tra l’uomo naturale che vive nello stato di natura e l’uomo naturale che vive nello stato di società)». Emilio è e dovrà rimanere un primitivo nel senso che la sua natura va preservata e sviluppata con un’educazione che sia azione della natura sopra la natura, ma è un primitivo fatto per abitare nelle città, nel turbine sociale (dans le tourbillon social). Con l’Emilio un terzo aspetto, psicologico ed etico, del concetto di natura si innesta sulle accezioni precedenti assumendole in sé, conferisce ad esse una nuova dimensione. È il significato più profondo e più tipico del concetto di natura, quello che più direttamente coinvolge il fondamento teologico e la prospettiva etica e pedagogica della visione rousseauana del mondo e della vita.
La natura come sentimento fondamentale
La natura nell’Emilio è intesa in primo luogo come una realtà psicologica: «le système du coeur humaine (il sistema del cuore umano)», sistema in cui il sentimento è oggetto di studio, metodo di ricerca e criterio di giudizio.
La natura è l’insieme delle disposizioni primitive anteriori alle abitudini e alle alterazioni dell’opinione, è la costituzione intima e il temperamento indefinibile che unificano e distinguono gli uomini tra loro.
Per servirci di due termini assai espressivi, si potrebbe definire la natura rousseauana come «Ursprung» o «jaillissement», ossia come uno sgorgare originale e spontaneo di sentimenti primigeni e fondamentali, il cui significato si arricchisce e si precisa secondo le fasi evolutive della vita umana.
La sensibilità, le sensazioni, la coscienza, le disposizioni, la sensualità, i sentimenti piacevoli o spiacevoli di convenienza o di sconvenienza, e gli stessi giudizi che diamo sull’idea di felicità o di perfezione fornitaci dalla ragione sono espressioni e variazioni del sentimento.
Se Cartesio nei Principi aveva chiamato pensiero «tutto ciò che avviene entro i confini della coscienza: non solo l’intendere, il volere, l’immaginare, ma anche il sentire», Rousseau chiama sentimento tutto ciò che vive nell’uomo allo stato di natura, artificiosa ipotesi storica proiettata nel fondo stesso della coscienza, come sua fonte di ispirazione e norma di vita. Se al «cogito» sostituiamo il «je sens (io sento)» abbiamo il roussonismo come inversione del cartesianesimo, e l’immediatezza del sentimento elevato a criterio di verità: «exister pour nous, c’est sentir (per noi esistere equivale a sentire)» dirà il Vicario Savoiardo.
A questo punto è lecito chiedersi: la ragione e le idee della ragione che significato assumono allora nella concezione roussoiana?
Il problema, assai dibattuto tra gli interpreti, ci sembra complicato dal fatto che Rousseau usa con particolari e diversi significati la parola «raison», ma non è insolubile. Per Rousseau la ragione «n’est pur ainsi dire qu’un composé de toutes le autres facultés (non è altro, per così dire, che un composto di tutte le altre facoltà)», è il risultato del loro sviluppo naturale; la ragione «nous apprend à connaitre le bien et le mal (ci insegna a conoscere il bene e il male)» e fa tacere l’opinione. La ragione è l’aspetto intellettuale della «marche de la nature», ossia di quel complesso di sentimenti costitutivi dell’essere umano. Le misteriosi scaturigini del sentimento non sono giudicate ma giudicano una siffatta ragione. La ragione per Rousseau è vitale finché prova la verità dei sentimenti, in caso contrario è snaturata, sofisticata, generatrice di opinioni fallaci.
I guai cominciano quando il ragionamento si sottrae alla commossa incertezza del sentimento: «l’uomo pericoloso è soltanto colui che riflette»! «La vérité des sentiments tient beaucoup à la justesse des idées (la verità dei sentimenti tiene particolarmente alla giustezza delle idee)», ma è essa sola che la rende possibile.
Quando, invece, l’impressione ricevuta eccita prima la nostra attenzione e solo per riflessione pensiamo all’oggetto che la causa, allora si ha il sentimento vero e proprio che è anteriore e superiore all’idea. Così, mentre tutte le idee ci provengono dal di fuori, i sentimenti fondamentali «sont au dedans de nous (sono all’interno di noi)» e costituiscono una specie di intuizione superiore alla ragione, «l’attitude profonde et originale où s’engage l’être tout entier» (l’attitudine profonda e originale dove s’impegna l’essere tutto intiero). Qui, evidentemente, non si reagisce solo alla raison raisonnante degli illuministi, come sostengono numerosi interpreti; Rousseau consegue un risultato che va ben oltre il bersaglio illuministico: Rousseau annega la ragione umana nel gran mare del sentimento13. Il sentimento di Rousseau è «malato di un’ambivalenza, che ora appare ad esso intrinseca e connaturale, ora si scioglie in un’alterna prevalenza delle sue diverse componenti: ora espressione d’impulsi irrazionali, ora pregnante di una razionalità non riflessa, ma tuttavia sicuramente immanente. Questo duplice volto del sentimento o del coeur spiega anche le diverse interpretazioni razionalistiche e irrazionalistiche del pensiero di Rousseau»14.
Le conseguenze non si fanno attendere molto. Il sentimento – sostanza, radice, tonalità e norma di ogni contenuto psichico – si esprime, per esempio, e con spontaneità parimenti sacrale, sia attraverso la coscienza («sentimento innato di giustizia e di virtù» che sta all’anima come l’istinto al corpo, per cui «tutto ciò che io sento esser bene è bene, tutto ciò che io sento esser male è male») sia attraverso la sensualità. L’uomo sensuale è l’uomo della natura, perché nella semplicità dell’istinto cerca ciò che gli piace e fugge ciò che gli ripugna: e la natura sceglie i suoi strumenti e li regola sul bisogno sentito secondo la propria particolare situazione.
Quando vi è sintonia tra la verità dei sentimenti, ossia, tra i bisogni sentiti e la spontaneità della loro soddisfazione, l’homme sensuel è sinonimo di homme sensible, di hônnete homme, di homme sage. Era forse in applicazione di tali principi che Sofia, nei Solitaires, poteva contemporaneamente essere adultera e sentirsi pura, «vertueuse et bonne» e che Giulia, nella Nouvelle Héloise, congiungeva un sogno di voluttà e l’istruzione morale.
Il peccato sociale e l’ideale egotistico
La concezione della natura come jaillissement trova il suo presupposto nel mito della natura buona e il suo sbocco finale nell’ideale egoistico de «l’amour de soi (l’amore di sé)».
Nel terzo dialogo dell’opera Rousseau juge de Jean Jacques vien definito l’Emilio «un trattato della bontà originale dell’uomo, destinato a mostrare come il vizio e l’errore, estranei alla sua costituzione, vi si introducano dal di fuori e l’alterano insensibilmente».
L’uomo, quando esce dalle mani di Dio, è buono; diventa cattivo a contatto con gli altri uomini. «L’amour de soi», sentimento base, sempre buono in ogni suo movimento, nell’incontro del soggetto con gli altri uomini si deforma in «amour propre», il primo di tutti i peccati. Ma quando, allora, l’amore di sé è retto e buono? E si dà forse una situazione in cui la creatura umana possa vivere ed educarsi senza l’incontro con altri uomini? Il sociale non è forse primordiale nell’individuo quanto l’individuo stesso?
L’ottimismo roussiano, che si estende dal piano creativo dell’uomo al momento, per così dire, nativo di ogni uomo, precipita nel pessimismo storico e sociale con una violenza di contrasto tanto meno spiegabile quanto più sono negate le complicità ontologiche che le derivazioni sociali trovano nell’uomo.
Anche la dottrina cristiana del peccato originale implica una responsabilità collettiva in ragione dell’unità del genere umano nel suo capo, ma alla sorgente dello stato di colpabilità, come poi, in varia misura, in ogni colpa, c’è un atto di responsabilità personale.
Le partecipazioni sociali possono essere e di fatto sono preoccupanti occasioni di alienazione, ma non sono di per sé il male dell’uomo. Si potrà pensare che il difetto sia nell’insieme di quei rapporti e di quelle istituzioni che sospingono gli uomini all’oppressione reciproca; ma chi ci dice che quei rapporti e quelle istituzioni siano soltanto cause e non anche effetti di quella specie di opacità anti-spirituale, di quella cattiva volontà che resiste intimamente allo sforzo necessario per la comunicazione e per l’amore?
Con la dottrina del peccato sociale Rousseau mette il dito, per primo, sulle responsabilità del disordine costituito e legalizzato, sulla sua triste fecondità, ma in quanto esclusiva quella dottrina rischia di conciliare l’evasione della responsabilità personale e l’atteggiamento rivendicazionistico dell’individuo verso tutti «gli altri»: si comprende bene, perciò, la sua fortuna nell’influenzare aspetti particolari delle più diverse teorie sociologiche e molteplici luoghi comuni.
Ai dogmi della natura esclusivamente buona e del peccato esclusivamente sociale, Rousseau talvolta sembra però sottrarsi e con accenti altamente drammatici, che sconfinano in una specie di dualismo metafisico oltre che etico, evidentissimo nella Professione di fede. «Meditando sulla natura dell’uomo ho creduto scoprirvi due principi distinti, di cui uno elevava allo studio delle verità eterne, all’amore della giustizia e del bello morale, alle regioni del mondo intelligibile, la cui contemplazione forma le delizie del saggio, e di cui l’altro lo rimenava bassamente in se stesso, lo asserviva all’impero dei sensi, delle passioni che sono loro ministre, e contrariava con esse tutto ciò che gl’ispirava il sentimento del primo. Sentendomi trascinato, combattuto da questi due movimenti contrari, mi dicevo: no, l’uomo non è uno; io voglio e non voglio, mi sento insieme schiavo e libero; voglio il bene, lo amo e faccio il male; sono attivo quando ascolto la ragione, passivo quando le mie passioni mi trascinano; e il mio peggior tormento, quando soccombo, è di sentire che potevo resistere». Occorre vigilare: noi crediamo di seguire l’impulso della natura ed invece gli resistiamo; ascoltando ciò che dice ai nostri sensi, noi disprezziamo ciò che dice ai nostri cuori.
Sempre nella Professione di fede si giunge a distinguere tra la felicità dell’uomo naturale e quella dell’uomo morale: la prima consiste nel non soffrire, la seconda è un’altra cosa. Ma quale? Il Rousseau taglia corto, con disinvoltura: «non è certo quella la questione (ce n’est pas de celui-là qu’il est la question)». Nella Lettre à M. De Beaumont Rousseau, incalzato dalla polemica, fa marcia indietro su un punto di capitale importanza e riconosce che «l’unica passione che nasce con l’uomo, cioé l’amore di sé, è una passione indifferente in se stessa al bene e al male, che essa non diventa buona o cattiva che accidentalmente e secondo le circostanze in cui si sviluppa».
Queste ed altre affermazioni sono però ben presto ricacciate ai margini della reverie (fantasticheria) permanente di una bontà naturale senza scelta e senza sforzo. Mettendo in conto alla società la scissione interiore dell’uomo in ogni sua forma e in ogni suo momento, Rousseau si affretta a stabilirsi in un falso stato di grazia creato dalla bontà di tutto ciò che si sviluppa in noi secondo la forma nativa: connotazione questa quanto mai vaga ed astratta, humus fecondo per tutti i sofismi della passionalità raziocinante o della dialettica. Il sentimentalismo romantico deteriore dei St. Preux, delle Julies, delle Sophies trova in Rousseau, se non il primo, certo il più efficace apologeta e una delle più illustre vittime.
Non è giusto far pesare sull’etica di Rousseau le debolezze del suo carattere e della sua condotta, ma non si può non tener conto che due anni prima della morte, in un passo dei Dialoghi, Rousseau confessava che il suo carattere non era che l’assunzione indiscriminata del suo comportamento, non avendo egli seguito in ogni cosa altre regole che gli impulsi della sua naturalità. L’uomo naturale è buono senza essere virtuoso; seguendo le sue inclinazioni, fa ciò che farebbe se lottasse per dare ad esse una orientazione giusta.
Ma dove tutto è buono, nulla va rifiutato: l’io allora si guarda vivere, la sua vita diventa una specie di teatro di Narciso, un idoleggiamento di se stesso che è piuttosto una rassegnazione ai propri impulsi e l’amor del vero si tramuta nella più ingannevole «sincerità»: «tutto ciò che io sento esser bene è bene». A questo punto, come distinguere il sentimento di una spontaneità che sgorga come puro fatto dall’arbitrio della vitalità?
Notevoli accenni a un’etica della legge si trovano nelle opere politiche dal Discorso sull’Economia politica al Contratto Sociale, ma anche in questo campo molte delle verità intuite dal Rousseau vanno integrate in una superiore visione morale dello Stato, che sia coerente con una concezione democratica e liberale (tema, quest’ultimo, che merita un ampio sviluppo). D’altra parte non si può negare che anche quando protesta che la nobiltà della persona umana non consente che sia degradata a strumento altrui15, Rousseau è ben lungi dal ripudiare l’utilitarismo e «ha in mente i diritti più che i doveri dell’uomo»: tutto ciò va ricordato per evitare interpretazioni che siano vere e proprie correzioni e integrazioni delle posizioni fondamentali del Rousseau16.
Alla stessa conclusione, quasi a riprova, si perviene se ascoltiamo, nelle Confessions (ad esempio nel libro 1, 5) o nelle Reveries (la VI, in modo particolare) quello che Rousseau stesso dice del suo modo di intendere, o piuttosto di rifiutare, il dovere: «a togliere ogni dolcezza ad una buona opera, basta che diventi un dovere»; «sia che un comando mi sia imposto da un uomo o dal dovere ed anche dalla necessità, se il mio cuore tace, la mia volontà rimane sorda e non posso obbedire… quello che non posso fare con piacere mi è assolutamente impossibile compierlo».
La morale roussoiana è un moralismo deficiente, anche se decisamente superiore all’immoralismo di quegli «ardenti missionari dell’ateismo e dogmatici imperiosi» quali erano, a giudizio del ginevrino, gli enciclopedisti. In Rousseau c’è pure una spontaneità religiosa, una religiosità naturale che si difende con accenti di appassionata eloquenza dalle negazioni materialistiche, ma il Dio del vicario savoiardo non è che uno spettatore assente dalla vita del mondo e dalla storia. Sublime a Rousseau sembra il Vangelo mutilato e ridotto a testo di religione naturale, ma il Vangelo autentico è giudicato assurdo e dannoso: è un appello troppo alto per il suo uomo naturale.
Così al ginevrino e al suo «homme naturel» restarono sconosciuti il mistero della rinascita spirituale mediante la scelta e l’impegno personale e l’economia evangelica della donazione totale senza calcolo di compensazione.
NOTE
1 «Pieno di un linguaggio filosofico senza essere veramente un filosofo»: così l’arcivescovo di Parigi, Christophe De Beaumont, definì Rousseau. Cfr. Mandement de M.gr. l’Archeveque de Paris, in Ouvres Complètes II, Paris, Didot 1875, p. 747.
2 «Più ardente che chiaro»: con queste parole Rousseau ritrasse se stesso nella Lettre à M. De Beaumont, ibidem.
3 Il pensiero rousseauano si sviluppa nelle più tempestose condizioni di vita e rifletté sia le agitazioni sentimentali dell’autore – uno strano miscuglio di cose meravigliose e vili, di miseria e di grandezza – sia gli impulsi e le resistenze dell’ambiente: in tal senso fu intima la compenetrazione di pensiero e vita nel ginevrino. Il problema però ha bisogno di ulteriori chiarimenti: Rousseau non oltrepassò la sfera dell’anelito per entrare in quella della coerenza morale. Sotto questo aspetto, profonda è in lui la differenza tra dottrina e vita. «Egli stesso sentì questa contraddizione e ne sofferse. Ne patì tanto più in quanto non gli fu possibile sopprimere un tale destino umano nell’ordine tranquillo di una vita solitaria ed oscura: si trovava di fronte agli sguardi del mondo, al quale doveva dare conto di come interferissero in lui l’uomo e il profeta, l’azione e la dottrina» (Eduard Spranger, Jean Jacques Rousseau, Ed. Avio, Roma 1958, p. 13).
4 Rousseau ha difeso il suo stile con grande vigore dell’Avertissement premesso alle Lettres écrites de la Montagne: «Allorché una convinzione viva – scrive Rousseau – ci anima come potremmo avere un linguaggio gelato? Se Archimede, trasportato dalla nuova scoperta fatta allora, corse nudo per le strade di Siracusa, forse che quella verità era men vera perché lo colmava tale entusiasmo? No, chi ama la verità, non può trattenersi dall’adorarla, e chi può restar freddo di fronte ad essa, non l’ha mai conosciuta».
5 Paul Janet, Histoire de la Science Politique dans ses rapports avec la Morale, II, Paris 1924, p. 416: « Ha messo la propria anima nei suoi scritti e quest’anima, pur non essendo grande, non cessa di essere, per certi versi, bella e toccante, malgrado i numerosi difetti, per non dire vizi ».
6 Immanuel Kant, Werke, Ed. Hartenstein del 1867-1868, vol. VIII, p. 618 e Ludwig Ernst Borowski, Darstellung des Lebens und Charakters Immanuel Kant’s, 1804, p. 170, cit. in Victor Delbos, Rousseau et Kant, saggio pubblicato nel numero speciale della «Revue de Métaphysique et de Morale», maggio 1912, dedicato alla celebrazione del centenario della nascita di Rousseau.
7 Per Cassirer il pensiero del Rousseau è che «il sapere è senza pericolo, a patto che non s’innalzi senz’altro al di sopra della vita, staccandosi da essa, ma voglia servire l’ordine della vita stessa» (cfr. Il problema J.J. Rousseau, trad. it., La Nuova Italia, II ed, Firenze 1948, p. 35). Una critica serrata dell’enciclopedismo e dell’intellettualismo da un punto di vista pedagogico è stata messa in rilievo da Flores D’Arcais nel bel volume Il problema pedagogico nell’Emilio di G.G. Rousseau, La Scuola, II ed., Brescia 1954. «Quando – scrive il D’Arcais – il mondo della cultura si fa vario e complesso, quando l’uomo avverte il bisogno di una maggiore capacità reattiva, è chiaro che può facilmente rompersi l’equilibrio, e che l’uomo può venire travolto dalla molteplicità dei dati e delle notizie. Il fenomeno dell’enciclopedismo è in questo prevalere della molteplicità estrinseca, che non riesce ad essere dominata – unificata – dalla interiorità dello spirito. Contro questo pericolo – o questa realtà? – il Rousseau muove la sua critica e la sua polemica». «La critica del Rousseau si appunta, quindi, in definitiva, su di un motivo assolutamente valido: è critica ad un istruire che non sia un educare, alla scuola puramente informativa (o, come si preferisce dire, passiva). Se l’uomo si limita ad acquisire delle conoscenze, si carica di un bagaglio inutile, anzi, dannoso, perché di ostacolo ed impedimento al ritrovamento di se stesso. Si possono imparare tante nozioni, si può diventare lo specialista di questa o di quella disciplina, ma se manca l’unificazione del sapere nella umanità dell’uomo, cioé nella interiorità della coscienza, manca il valore della cultura perché solo l’unità spirituale dà alla cultura una effettiva esistenza e un significato» (pp.74, 76).
8 Nel primo dialogo dello scritto Rousseau juge de Jean Jacques, Rousseau dice testualmente: «Non ho mai accettato la filosofia dei felici di quest’epoca; essa non è fatta per me».
9 «Santo della natura» in E. Spranger, J. J. Rousseau, ed. cit., p.7.
10 È il tagliente giudizio che del ginevrino dà Jacques Maritain nel volumetto Trois réformateurs, II ed., Paris 1947, di cui esiste una traduzione italiana presso l’Editrice Morcelliana di Brescia (2001).
11 Bernard Groethuysen, J. J. Rousseau, Gallimard, Paris 1949.
12 N. Petruzzellis, Studi sul Rousseau, in «Rassegna di scienze filosofiche», nn. 1-2, 1953, p. 137. Nicola Petruzzellis ha dedicato a Rousseau una monografia rapida ed essenziale nella ricostruzione storica, profonda nella discussione teoretica: Il pensiero politico e pedagogico di J. J. Rousseau, Adriatica Editrice, Bari 1958 (II ed.).
13 «La mia regola, d’affidarmi al sentimento più che alla ragione, vien confermata dalla stessa ragione», dice Rousseau. Varisco commenta: «Ma se il valore della ragione fosse problematico, non meno problematico sarebbe il valore di una regola, che ci è confermata dalla ragione. Tutto ciò, inoltre, contraddice ad altre dottrine che dal medesimo Rousseau vengono stabilite come indiscutibili». (cfr. Bernardino Varisco, «Rousseau e Kant», nel volume Il pensiero di Rousseau, ed. La Nuova Italia, Firenze 1948, III ed., p. 245).
14 N. Petruzzellis, op. cit., p. 18.
15 Rousseau ha scritto con profonda verità: «L’homme est un être trop noble pour devoir servir simplemente d’instrument à d’autres (l’uomo è un essere troppo nobile per dover solo servire da strumento usato da altri)» (Nouvelle Heloise, p. V, lettre II).
16 Ricordiamo il noto giudizio del Cassirer, che ha esaltato la morale roussoiana non solo come «la forma più decisa della pura etica della legge che sia stata elaborata prima di Kant» (Ernst Cassirer, Il problema Gian Giacomo Rousseau, ed. cit., p. 84), e l’opinione di Sacheli per il quale la morale di Rousseau rispetto all’etica kantiana presenta addirittura «una maggiore pienezza umana speculativamente vissuta» (Calogero Angelo Sacheli, Rousseau, Ed. D’Anna, Messina 1942, pp. 224 – 225, in parte condivisa da Arturo De Regibus, Il problema morale in J. J. Rousseau e la validità dell’interpretazione kantiana, Giappichelli, Torino 1957, p. 77).
NOTA CONCLUSIVA: La raccolta di scritti di filosofia di Matteo Perrini nasce dall’esigenza di non disperdere il lavoro di una vita volto in primo luogo a chiarificare a se stesso le idee e le concezioni dei filosofi e, conseguentemente, a tradurle in un linguaggio accessibile ma rigoroso per i propri studenti. I materiali riportati nel volume provengono da diverse fonti, utilizzate per differenti finalità e scritte nell’arco di un cinquantennio, all’incirca tra il 1950 e il 2000. Si tratta di schede ad uso interno finalizzate alla sistematizzazione del pensiero di un autore, di appunti su quaderni per preparare lezioni scolastiche, di articoli pubblicati sul Giornale di Brescia o su riviste specializzate.