Cornelio Tacito è lo storico del principato, dalla morte di Augusto alla morte di Domiziano: quasi un secolo di storia, dal 14 al 96 d.C. Di lui, delle vicende della sua vita, oltre ai dati della sua carriera politica, sappiamo solo ciò che si ricava dai suoi scritti stessi, particolarmente dalla Vita di Agricola, suo suocero. Delle sue opere di storia del principato, le Historiae e gli Annales; è interessante notare che Tacito incominciò a narrare le vicende a lui più vicine (nelle Historiae, dall’anno dei quattro imperatori, 69 d.C., alla fine di Domiziano), poi passò a quelle più lontane (Annales, dalla morte di Augusto alla fine di Nerone): sappiamo anche che aveva in mente di risalire più indietro con la sua ricostruzione storica, verso la fine della repubblica. E’ lecito domandarsi: perché questo cammino a ritroso?
Man mano che approfondiva lo studio, il problema politico nella storia di Roma che gli appariva di importanza maggiore, anzi di importanza decisiva, era quello della fine della repubblica: perché il passaggio dalla repubblica al principato, dal governo del popolo al governo di uno solo? Ma a questa domanda la vita non gli concesse di rispondere e perciò le sue opere storiche ci appaiono fortemente problematiche.
Nel complesso dei suoi scritti Tacito riflette, nonostante gli asseriti suoi entusiasmi per la felicità dei nuovi tempi, la stanchezza di una classe politica, che si è dissanguata in un conflitto più che secolare, e che non vuole più saperne di pagare ancora con il suo sangue, che non vuole più lottare. Di qui la sua sfiducia anche verso la divinità e la sensazione, che spesso prova, della inevitabile decadenza di Roma: ed essa stende un’ombra di lutto sullo sfondo di tutta la narrazione e dà alla triste, monotona rassegna di atti di crudeltà, di servilismo, di abbiezione, a cui si contrappongono rari gesti di eroismo, l’impronta dell’ineluttabilità. La mancanza di un sicuro punto di appoggio con l’accettazione di una visione positiva della vita, l’esasperata pittura del dominio del male nella realtà umana, rendono ragione anche della sua scrittura nervosa, tutta lampi e chiaroscuri, della concisione lapidaria, della pregnanza spesso oscura delle sue pagine.
Oggi intendiamo fermare la nostra attenzione su alcuni aspetti del modo di concepire e fare storia propri di Tacito: e precisamente sulla sua indagine storiografica non in quanto condotta sui grandi eventi della storia dell’Impero, ma in quanto intesa come strumento e occasione per allargare il campo delle conoscenze, per superare i limiti di ciò che era noto, sia in senso concreto – esplorare che cosa c’è al di là dei confini del mondo allora conosciuto – sia in senso psicologico: penetrare dentro i cuori degli uomini, per svelarne il mistero.
Avviando la ricerca in queste due direzioni, siamo certamente tenta ti anche noi di ridare vita al tacitismo. Al tempo della Controriforma, quando Machiavelli era messo all’Indice, ci furono molti intelletti nei secoli XVI e XVII di maggiore o minor valore che si servirono dell’inter pretazione delle idee di Tacito, approfittando della loro frequente oscurità e ambiguità, per contrabbandare le idee del Segretario fiorentino, evitando così le condanne della Chiesa. Ne nacque un Tacito deformato, sostenitore di una precettistica politico – moralistica piegata in direzioni diverse (al limite, se ne fece un maestro di dispotismo). Tra i molti rappresentanti del Tacitismo di quei due secoli ricordiamo quello che ne fu forse il più autorevole: Traiano Bocalini, autore dei Ragguagli di Parnaso, ampiamente e appassionatamente studiati dal torinese studioso del pensiero politico Luigi Firpo.
L’ultimo rappresentante del tacitismo può essere considerato, in Italia, a mio avviso, il latinista dei tempi nostri Concetto Marchesi, professore nell’Università di Padova, che, comunista per idee e per appartenenza di partito, nella monografia dedicata a Tacito, pubblicata nel 1924 – l’anno dell’assassinio di Matteotti si serve delle analisi dello storico del Principato per combattere il partito unico sopraffattore della libertà.
Ma veniamo a Tacito e alla sua volontà di andare oltre i limiti del conosciuto.
Lo storico di Roma capitale del mondo civile, dei prìncipi e dì chi vive intorno ai prìncipi, l’interprete del mondo chiuso dell’aristocrazia senatoriale è straordinariamente attratto dal senso di un duplice mistero: il mistero che vive nel profondo del cuore dell’uomo e il mistero da cui l’uomo è circondato. Dal mistero dell’universo al mistero dell’uomo: tra questi due poli, tra queste due realtà oscure si muove Tacito. Nelle sue mani la storiografia si trasforma: egli la rinnova facendone uno strumento per la conoscenza dell’uomo, fuori degli schemi tradizionalmente acquisiti. Tacito vuole andare a fondo nella conoscenza, rompendo le barriere erette dalla tradizione prevalente nella civiltà antica: a lui importa spostare in avanti, e oltre, i confini del noto e dell’esprimibile; perciò e la natura e l’uomo con il loro mistero rappresentano il vero centro dei suoi interessi: a ben considerare, il problema dello Stato, delle forme di governo, dei rapporti fra le classi non sono preminenti, per lui; o, per dire meglio, diventano preminenti solo quando gli servono per rispondere alla domanda che sola gli appare urgente, per diradare l’oscurità che avvolge il cuore dell’uomo.
Anzitutto ciò che è al di là dell’orbe romano, del mondo civile, del mondo della razionalità: beninteso, la coincidenza, postulata dallo stoicismo, dei limiti del dominio della ragione con i limiti del mondo romano non è negata: negata è invece l’identificazione del mondo dell’Impero, cioè della razionalità, con il mondo dove regna la felicità. Si insinua in Tacito il dubbio che proprio nel territorio della barbarie e della inciviltà, che anche geograficamente si colloca oltre i confini dell’Impero romano, si realizzi per l’uomo la felicità.
Leggiamo insieme il finale della Germania, la monografia nella quale prende in esame le popolazioni germaniche e il grave pericolo militare che esse rappresentano per l’integrità dell’Impero romano. Ma c’è anzitutto in Tacito una spontanea e quasi romantica inclinazione per tutto ciò che le terre e i popoli germanici offrivano di nativo e di originario, di semplice e di puro, di incolto e di selvaggio; c’è in fondo una specie di ammirazione per quelle genti, in larga parte ignote e per ciò stesso affascinanti, che si spingono fino agli estremi limiti del mondo, là dove il sole non tramonta mai; ma ascoltiamo Tacito:
“Al di là dei Suioni (popolazione del sud della Scandinavia) c’è un altro mare, pigro e quasi senza movimento, che cinge e chiude l’orbe terrestre; ciò risulta dal fatto che l’estrema luce dei sole ormai cadente dura sino all’alba successiva ed ha tanta forza da vincere il chiarore delle stelle. Inoltre si crede che colà si senta anche il rumore che fa il sole quando all’alba emerge dalle onde del mare e che si distinguano bene le forme dei cavalli del suo cocchio ed i raggi che ne aureolano il capo. Fino là – e questo si sa con certezza – arriva il mondo.”
Ci sono poi anche all’estremo nord dell’Europa i Fenni:
“Di essi straordinaria è la barbarie, estrema la povertà: non hanno armi, né cavalli né penati: si nutrono di erba, si vestono di pelli, dormono sulla nuda terra: unica loro speranza. Le frecce, che appuntiscono con ossi mancando loro il ferro. La caccia offre nutrimento egualmente agli uomini e alle donne; queste seguono gli uomini dappertutto ed esigono parte della preda. I bambini non hanno altra difesa dalle fiere e dalle intemperie che capanne di rami intrecciati: a queste fanno capo i giovani, in esse hanno riparo i vecchi. Eppure giudicano questa vita più felice che non penare nei lavori dei campi, faticare a costruir case, confrontare i beni propri e altrui con speranza e timore: non hanno preoccupazioni nei riguardi degli dei, e così hanno conseguito la meta più difficile a raggiungersi, perché non hanno neppure più bisogno di esprimere desideri. Tutto il resto poi è favoloso: io, non avendo modo di verificare tutto ciò, non voglio prendere posizione.”
Questi barbari, secondo Tacito, sono liberi dagli affanni, dalle curae non conoscono né paura né speranza: i termini con cui Tacito designa la loro felicità sono propri del mondo classico e in particolare romano; in fondo, anche l’ideale che in essi Tacito vede attuato ha una forte impronta filosofica; lo storico mette a confronto il mondo nel quale egli vive con una concezione della vita che non dobbiamo esitare a definire romantica, per cui i popoli barbari in certo modo sono superiori ai popoli civili. Per esempio, a proposito delle popolazioni germaniche Tacito, confrontando i Germani con i Romani, consapevole della corruzione dominante a Roma, dice:
“perché fra i Germani nessuno prende in ridere i vizi, nessuno dice che corrompere e lasciarsi corrompere sia vivere alla moda.”
Anche nell’Agricola – la monografia scritta da Tacito in onore del suocero di nome appunto Agricola che compì egrege imprese belliche nella Britannia e ne governò le popolazioni con saggezza ‑ la descrizione della grande isola offre occasione allo storico di accennare alla possibilità di travalicare i limiti del mondo conosciuto. Ascoltiamo qualche tratto delle sue descrizioni:
“Voglio trattare della posizione geografica e dei popoli della Britannia, perché allora gli eserciti romani al comando di Agricola per la prima volta essa fu pienamente soggiogata. (…) La Britannia, la più grande delle isole note ai Romani, si stende in superficie e per la posizione che occupa ad oriente verso la Germania, ad Occidente verso la Spagna, a sud, poi, dalla Gallia si vede ad occhio nudo; le sue regioni settentrionali, non avendo di fronte alcuna terra, sono battute da un mare immenso e aperto Chi procede oltre la Britannia si trova davanti ad una distesa di terre a perdita d’occhio, immensa ed irregolare, che finiscono assottigliandosi come in un cuneo. Questa costa del mare, che è l’ultimo di tutti i mari, allora per la prima volta agli ordini di Agricola una flotta romana circumnavigò, fornendo così la prova che la Britannia è un’isola e nello stesso tempo scoprì e domò le isole Orcadi.
Fu intravista anche Tule, ma soltanto intravista perché l’ordine era di non procedere oltre, e già era vicino l’inverno. D’altra parte dicono che questo mare, inerte e pesante per i rematori, non venga sollevato neanche dai venti.
Tacito, storico, si ferma davanti a Tule, divenuta nell’immaginario europeo l’immagine dell’ultima terra. Il bisogno di andare al di là dei confini noti, la curiosità di esplorare ciò che è nell’inesplorato prende spazio anche nei romanzi dell’epoca. Antonio Diogene, romanziere contemporaneo di Tacito, descrive anche Le cose incredibili che sono al di là di Tule. Nel quadro del romanzo di avventure, di amore e di viaggi, di magia e di necromanzia, era inserita anche la descrizione delle terre e dei mari al di là di Tule.
Quest’accostamento del grande storico con l’oscuro romanziere, Antonio Diogene ci assicura che in realtà il bisogno di superare i confini del conosciuto, di sottrarsi alla sazietà fonte di angoscia nella vita di ogni giorno e di sempre erano largamente diffusi nella società romana della fine del secolo d.C. Ma ciò che più ci lascia interdetti, davanti a quest’aspetto della sua personalità, è il rapporto costante ch’egli stabilisce fra stato di vita primitiva e felicità da un lato e civiltà e corruzione (cioè male morale) dall’altro, come appare sia nella Germania sia nell’Agricola, ove tra l’altro si leggono queste considerazioni, attribuite da Tacito al capo dei Caledoni, popolazione dell’estremo nord della Scozia, ostile ai Romani;
“Nelle precedenti battaglie, la Britannia aveva sempre una speranza di soccorso nelle nostre braccia, perché noi anche gli occhi nostri avevamo sottratti al contatto contaminante dei padroni. Noi, posti sull’ultimo baluardo del mondo e della libertà, siamo stati difesi fino ad oggi dal nostro stesso isolamento e dall’oscurità del nostro nome. Ma ora il confine estremo della Britannia è dischiuso, non ci sono altre genti di là da noi, nulla esiste se non flutti e scogli.”
Questo tema dell’ignoto che sta al di là dei confini delle terre incivilite o comunque conosciute, attira Tacito anche nell’ultima sua opera, gli Annales, ove è ricavato con ricchezza di particolari la campagna in Germania del giovane principe Germanico, che vorrebbe conquistare quelle terre e annetterle all’Impero, nel 16 d.C. Il comandante romano tutto può chiedere ai suoi soldati: prima dello scontro decisivo, di notte, nel campo romano, Germanico, travestito per rendersi irriconoscibile, passa di tenda in tenda e da ciascun legionario sente fare le sue lodi. Ascoltiamo Tacito:
“Al cominciare della notte, uscito dalla sua tenda, per passaggi occulti e non conosciuti dalle sentinelle, percorre con un solo compagno, coperte le spalle con una pelle di fiera, le vie del campo, si ferma davanti alle tende ed ha la soddisfazione di sentir parlare bene di sé qui portavano alle stelle la sua nobiltà del sangue, la sua bellezza altrove la pazienza e la squisitezza del tratto.”
Il tono romantico del passo, l’accentuazione del patetico, l’idealizzazione del buon generale, giovane trentenne, che guida i suoi legionari in terre ignote, i segreti dei cuori che vengono golosamente carpiti nelle tenebre della notte, tutto cospira e tenere avvinta l’attenzione commossa del lettore: e forse ebbe presente questo passo William Shakespeare, quando nell’Enrico V introduce (atto IV, sc.I) il re, anche lui giovane, anche lui solo con il suo esercito in terra straniera ed ostile, anche lui durante la notte che precede lo scontro decisivo, che senz’essere conosciuto discorre con i suoi soldati, per scandagliarne i cuori: e certo la realizzazione cinematografiche della tragedia shakespeariana diede Laurence Oliver nella scena notturuna del re che in incognito passa di tenda in tenda dei suoi soldati ricalca fedelmente il passo di Tacito.
“Germanico arma la flotta – ben mille navi! – per violare il mare del Nord e scoprirne i segreti. Dapprima la navigazione precede tranquilla, ma ben presto si scatena la violenza della natura ed ha la meglio sull’intelligenza e sul coraggio dell’uomo. Da questa sfida, che la civiltà lancia alla natura ignota, la civiltà esce irrimediabilmente, totalmente disfatta. Fu un grave disastro; le perdite umane enormi. Soltanto la trireme di Germanico toccò terra nel paese dei Cauci; e tutti quei giorni e quelle notti Germanico passò sugli scogli e sull’estrema riva del mare gridando che lui era il responsabile di tanta rovina: e fecero fatica i suoi amici a trattenerlo dal cercare la morte in quel medesimo mare.”
Pochi si salvarono:
“E avevano cose mirabolanti da narrare: violenza di turbini e uccelli non mai veduti, mostri marini, esseri che non si capiva se fossero uomini o belve: cose viste davvero o credute per paura?”
Questo bisogno di trovare un rifugio e pace in un mondo fuori del nostro mondo è sentito anche da Plutarco, l’autore delle Vite e dei Moralia, contemporaneo di Tacito nel dialogo Del volto della luna, più esattamente: Intorno al volto che appare nel cerchio della luna, c’è chi viaggia – personaggio senza nome – verso l’isola omerica di Ogigia, dove Odisseo fu prigioniere di Calipso, come narra Omero nell’Odissea: essa si trova a cinque giorni di navigazione in direzione di occidente. Da quelle parti in un’isola c’è Crono (Saturno) rinchiuso da Zeus che lo ha vinto e spaventato in una caverna, lì esiliato e sempre dormiente. Mette conto ricordare che l’operetta plutarchea fu presa molto sul serio dall’astronomo Keplero. In questa “fantasia” sul “volto” della luna Plutarco affronta il problema di che cosa ci sia per l’uomo dopo la morte (anch’egli, come si vede, vuol andare oltre i limiti del conosciuto). Un autorevole studioso di Plutarco, il nostro Dario del Corno ha scritto:
Anche in questo caso il ragionamento non poteva approdare che a una congettura sull’arcano; e ne derivò una gamma di soluzioni che andavano dall’annullamento totale alla sopravvivenza dell’uomo. Ma se in Plutarco c’è un fondo di serietà nelle sue riflessioni astronomiche e religiose, basterà lasciare trascorrere pochi decenni ed ecco presentarsi a noi Luciano, sofista e conferenziere brillante, autore di una sessantina di operette in una di esse intitolata Icaromenippo (protagonista è il filosofo cinico Menippo, che apprende a volare corre Icaro, ma prendendo precauzioni per non cadere come Icaro figlio di Dedalo a capofitto in in mare e annegare).
Vediamo il filosofo cinico Menippo volare, con due ali, una di aquila e una di avvoltoio, fino alla dimora celeste di Zeus e degli altri dei, non senza fare una tappa sulla luna (con tutta semplicità ad un certo punto dice: “mi sedetti su la luna per riposarmi”). Da Zeus Luciano apprende che i suoi avversari, i filosofi, sono tutti cialtroni e ingannatori, uomini falsi e spregevoli. Nella sua polemica coni i filosofi a Luciano questo poteva sostenere, appoggiandosi addirittura all’autorità del sommo Giove.
Ma Luciano fa ancora un passo più in là, nel gioco del fantastico: scrive la Storia vera dove racconta di viaggi sulla luna e fra le stelle, del soggiorno nel ventre di una balena, delle avventure vissute nell’isola dei Beati e in quella dei Sogni e descrive oggetti mai visti da nessuno e esseri mostruosi. Ma, dichiara candidamente,
“Ammettendo io stesso di non dire nulla di vero (…) scrivo di cose che non ho visto, che non mi sono capitate, che non ho saputo da altri e che inoltre, non esistono affatto. Perciò i lettori non devono crederci assolutamente.”
Siamo ormai in pieno romanzo; è il tempo di Apuleio e del suo romanzo Le Metamorfosi o Asino d’oro. Ma il genere del romanzo è un altro capitolo della civiltà letteraria antica, del quale oggi non ci occupiamo. Vediamo ora i tentativi di superare i limiti del conosciuto compiuti nella direzione, non più geografica, ma della natura del cuore umano: nelle opere storiche di Tacito ne cercheremo qualche traccia, in forma di campionatura. Tacito scrive tutte le sue opere storiche dopo l’uccisione di Domiziano (96 d. C.), sotto gli imperatori Nerva e Traiano (e Adriano), durante un tempo felice come si verifica di rado nella storia dell’umanità, nel quale (a suo dire) era lecito pensare quello che si voleva e dire quello che si pensava.
Prima di allora a Roma sotto il principato non era stato così: e chi si era ostinato a dire (a scrivere) quello che pensava era andato incontro a condanne severissime, spesso alla morte: e gli scritti con apposite sentenze venivano condannati alle fiamme. Possiamo dire che la storia del principato del I secolo è scandita dalle condanne al rogo di molte opere dell’ingegno, e alla morte dei loro autori conosciamo sentenze di condanna del 12 d.C., ancora sotto Augusto, del 24 e del 34 sotto Tiberio, del 93, sotto Domiziano.
Per sottrarsi ai pericoli delle persecuzioni da parte dei principi, gli intellettuali romani, non esistendo nello Stato alcun organo che controllasse l’esercizio del potere , dovevano, secondo Tacito, cercare di introspicere ma non senza rischi – le intenzioni segrete, i progetti non dichiarati, i piani celati di chi deteneva il potere: al di là della realtà che appariva ufficialmente ce n’era un’altra, segreta, da cui dipendevano la vita e la morte dei sudditi.
Queste condanne alle fiamme dei libri condannati dal principe suscitarono sdegno e riprovazione, già tra i contemporanei: prima di tutto presso il padre del filosofo Seneca; e soprattutto, poi, presso Tacito, che però scriveva dopo la morte del tiranno Domiziano, e quindi con minore efficacia perché ormai era diffusa la libertà di parola.
Il significato di queste condanne di libri al rogo è stato colto m olto efficacemente dall’intellettuale nostro contemporaneo Leo Löwenthal nel saggio I roghi dei libri, edito nel 1983, a cinquant’anni di distanza dalla condanna in Germania al rogo dei libri ordinata da Hitler, appena salito al potere, il 10 maggio 1933. Furono dati alle fiamme i libri nei quali si poteva riconoscere una lettura critica della storia, una testimonianza dell’individuo, il segno di una cultura che rifiutava il partito unico, il totalitarismo, la dittatura: quel rogo significava, nelle intenzioni di Hitler, l’estinzione della storia, della memoria, dell’individuo.
Alcune riflessioni del Löwenthal, che per altro mostra di conoscere molto bene Tacito, servono ad inquadrare e a chiarire anche i roghi dei libri ordinati dagli imperatori romani, negatori della libertà di pensiero e di parola. Ascoltiamo qualche considerazione del Löwenthal:
“…il fatto è che nessuna dittatura tollera un’invidualità.(…) Chi si è impadronito del potere assoluto vuole annientare tutto ciò che interpreta la storia in termini religiosi o razionali, in breve, ciò che rappresenta l’ancoraggio storico di passato, presente e futuro. Chi osasse dibattere in privato i libri proibiti veniva addirittura condannato a morte. Lo stesso avveniva nella fase assolutistica dell’impero romano. (…) Il moderno sistema del terrore mi sembrava (al tempo di Hitler) dimostrare la perfetta riuscita dell’atomizzazione dell’individuo messa in atto dal totale terrore consiste anzitutto nell’integrare completamente la popolazione in collettivi che paralizzano qualsiasi comunicazione tra gli esseri umani. Adesso (cioè nel 1983) aggiungerei che in questo processo psicologico di massa un meccanismo importante deve essere stato il rogo dei libri. In una situazione di terrore il singolo è sempre solo e non è mai solo. S’intorpidisce e diventa insensibile non soltanto nei rapporti con gli altri, ma anche in relazione con se stesso. La paura gli toglie la capacità di reazioni emotive e conoscitive spontanee. Lo stesso atto del pensiero si traduce in stupidità: è pericoloso per la sopravvivenza. Sarebbe da stupidi non essere stupidi e perciò l’intera popolazione colta da istupidimento generale.”
Per capire la storia del principato e l’atmosfera nella quale allora si viveva, secondo Tacito occorre anche tenere conto che dei dieci imperatori, di cui egli nelle sue opere storiche narrò le vicende, da Tiberio a Domiziano, due soltanto morirono di morte naturale, tutti gli altri finirono di morte violenta.
Di qui si vede quanti rischi corresse anche la vita dei singoli imperatori: da questi rischi essi si cautelavano con l’uso spietato della condanna a morte per i veri o presunti avversari. Per esempio, Tiberio, il successore di Augusto, nei 23 anni del suo impero fece celebrare più di cento processi per crimini di lesa maestà. Nei riguardi degli amici di Seiano, suo ministro e principale collaboratore caduto in disgrazia, Tiberio ordinò, di uccidere tutti quelli che erano tuttora in prigione, accusati di complicità con Seiano. Fu un massacro immenso; vittime di ogni sesso e di ogni età, illustri e oscure, giacquero sparse o ammucchiate. Nè si concedeva ai parenti o agli amici il permesso di avvicinarsi, di piangere su di esse, neppure di fermarsi a guardarle; soldati sguinzagliati in giro spiavano ogni segno di dolore.
L’imperatore Claudio mandò a morte 35 senatori e 221 cavalieri: Seneca, suo avversario spietato nell’Apokolokyntosis, la Trasformazione in zucca di Claudio, libello storico scritto dopo la morte di lui, tratta ampiamente delle condanne a morte volute da Claudio; nella satira senecana davanti al concilio degli dei – chiamati padri coscritti è introdotto Augusto a tenere la requisitoria contro Claudio. Per farsene un’idea, basterà ascoltarne un piccolo tratto:
“Costui (cioè Claudio) che a voi, Padri Coscritti, sembra incapace di far male a una mosca, ammazzava gli uomini con altrettanta facilità che un cane alza la zampa.”
Nella vita quotidiana, nei rapporti con i sudditi, gli imperatori facevano ricorso per difendersi dai loro reali o supposti nemici e tenere celate le loro intenzioni, alla dissimulatio: fingere di non vedere, di non sapere di non udire, di non capire, di non ricordare, lasciar correre senza intervenire in situazioni difficili: ma non già dimenticare, bensì registrare nella memoria tutti i comportamenti sospetti dei sudditi, in attesa dell’occasione propizia per infierire contro di loro.
Già nel ‘600 questo modo di ricevere degli imperatori aveva attirato l’attenzione di un uomo politico pugliese, Torquato Accetto, che aveva composto un curioso trattatello, intitolato Della dissimulazione onesta, nel quale cercava arditamente di valorizzare anche sul piano morale la dissimulazione come strumento di governo. Era per lui una sorta di autodifesa. Individuava nell’imperatore Tiberio il primo campione della dissimulazione tramutata in arte di governo. Scrive, l’Accetto certo pensando alle sue difficoltà presso i duchi di Andria (di cui era segretario):
“Di contro alla dissimulatio dei principi si poneva l’introspicere sudditi: il tentativo di scoprire i segreti della mente del principe, studiandone le espressioni del volto, indagandone anche i silenzi.”
L’esempio più efficace del rapporto, secondo Tacito, tra l’introspicere(dei senatori) e la dissimulatio(del principe) lo incontriamo nelle pagine iniziali degli Annales, nelle quali, tracciando il bilancio del lungo principato di Augusto, ricostruisce anche stati d’animo e avvenimenti immediatamente sussequenti alla morte di Augusto. Come fosse difficile la situazione politica a Roma dopo il trapasso di Augusto si avverte immediatamente dal fatto che trascorse circa un mese dalla morte di Augusto prima della proclamazione di Tiberio a suo successore: dal 19 agosto al 17 settembre.
Morto Augusto, chi si atteneva alla realtà ufficiale e non osava introspicere, cercare ci vedere al di là delle apparenze, elencava gli onori ricevuti da Augusto nel corso della lunga vita. E poi giustificava la sua partecipazione alle guerre civili:
“…vocazione verso la memoria del padre e imperiosa necessità di Stato, in cui non v’era legge che valesse, l’avevano spinto a guerre civili: le quali non si possono preparare, né condurre con mezzi onesti.”
E poi veniva approvato e giustificato il suo riordinamento dello Stato:
“..egli aveva dato forma allo Stato né con il regno, né con la dittatura, ma con il solo nome di principe; (…) legioni, province, flotte, tutto era organicamente ordinato; giustizia verso i cittadini, moderazione verso gli alleati; Roma stessa splendidamente abbellita; rarissimo il ricorso alla violenza e solo a vantaggio della sicurezza comune.”
Ma chi tra i senatori sapeva e osava introspicere nella condotta di Augusto, vi scopriva invece finzioni, crimini, abusi di ogni genere; molte erano state le vittime dell’apparente ricerca del bene dello Stato da parte di Augusto. La pace stessa che era venuta dopo Azio era una pax cruenta, una pace che grondava sangue. Anche la sua vita privata era stata riprovevole per vari aspetti. Non solo, ma Augusto, essendo stato costretto in mancanza di altri eredi, ad additare Tiberio come suo successore, ne aveva visto, introspicendo dentro di lui, i vizi. La critica ostile a Tiberio giudicava così questi vizi:
“Né Tiberio era stato scelto da Augusto come suo successore per affetto o per il bene dello Stato: Augusto aveva cercato gloria per sé attraverso il più odioso dei confronti, perché aveva visto bene, dentro di lui, Tiberio, al di sotto delle apparenze, la superbia e la crudeltà.”
Nei dibattiti in senato dopo la morte di Augusto miranti all’individuazione del nuovo principe, esemplare fu, come modello di dissimulatio, il comportamento di Tiberio, che si astiene il più possibile dal parlare e quando decide di parlare usa normalmente, al dire di Tacito, parole “ambigue e oscure”, quando proprio è costretto a parlare, come nel momento decisivo dell’accettazione della successione di Augusto, si sforza di esprimersi in modo da celare profondamente il suo vero pensiero. Questa è la dissimulatio, a cui Tiberio faceva abitualmente ricorso anche per indurre gli interlocutori a svelare il loro vero pensiero. Tacito ci informa che tra quelle che credeva essere le sue virtù, nessuna Tiberio apprezzava quanto la dissimulazione (a. 4.71.3).
Ancora negli ultimi momenti della sua vita quando ormai le forze lo avevano abbandonato, nondum dissimulatio deserebat (a. 6.50.1):
“la capacità di dissimulare non l’aveva ancora abbandonato (…). Controllando attentamente i propri discorsi e l’espressione dei proprio viso, fingendo affabilità, cercava di nascondere la sua decadenza fisica, malgrado tutto evidente.”
Davanti ad un imperatore così abile nella dissimulatio, quale linea di comportamento si poteva adottare se non quella del tacere, per evitare di correre rischi mortali? Infatti anche il ricorso all’introspicere i pensieri di Tiberio era pericoloso: un cavaliere romano, Marco Terenzio, che era stato amico di Seiano, tratto in tribunale dopo la caduta del suo protettore, si difende con dignità e, tra l’altro, dice che, nell’agire politico, conviene astenersi dall’introspicere pensieri del principe:
“indagare i pensieri dei principe, i suoi disegni segreti è cosa illecita e pericolosa (a. 6.8.4).”
Allora, resta soltanto, come estrema difesa, il silenzio. Ma il silenzio può avere molti significati. Un tiranno non può ammettere che i suoi sudditi con lui e davanti a lui tacciano. C’è un dialogo efficacissimo, al riguardo, nella tragedeia Oedipus di Senecta; Creonte, in colloquio con il re Edipo, suo cognato, non vorrebbe rivelargli il suo pensiero, ma il re lo costringe a parlare. Ascoltiamo alcune battute del dialogo. Il primo a parlare è Creonte:
“Sia consentito tacere. Si può chiedere ad un re una libertà più insignificante?”
Ma il re, implacabile, ribatte:
“Spesso la libertà che non fa ricorso alla parola nuoce al re e al regno più della parola.”
E Creonte ribatte:
“Dove non è lecito tacere, che cosa ad uno è lecito?”
Ma il re, ancora implacabile:
“E’ un ribelle chi, essendogli stato ordinato di parlare, tace.”
Dunque il suddito non può tacere: deve dire ciò che il signore gli ordina di dire, deve parlare e in modo conforme alla volontà del signore. Invece se il suddito tace, il suo silenzio si configura come un atteggiamento di disobbedienza, di dissociazione, di ribellione, almeno potenziale; ecco perché il tiranno, per la sua sicurezza, deve controllare anche ciò che viene taciuto, controllare le parole non dette, il pensiero non espresso, la muta libertà dei suoi sudditi.
Un caso clamoroso di silenzio, segno evidente e provocatorio di ribellione al potere imperiale fu quello di Trasea Peto. Quando Nerone in senato nel ’59, si difese, dopo aver fatto uccidere la madre, dalle accuse di matricidio sostenendo che aveva dovuto difendersi dagli attacchi insidiosi della madre smaniosa di potere, mentre tutti i senatori applaudivano fragorosamente il principe così spudoratamente mentitore, Trasea Peto, che sedeva in senato, si alzò e uscì dal senato senza pronunciare parola. Dice Tacito, lapidariamente:
exiit tum senatu (a 14.12.1):
il suo silenzio era il silenzio di uno che condannava tutto l’agire del principe. Questo silenzio gli costò la vita, naturalmente.
Ma a questo punto viene naturale domandarsi: e Tacito non tacque forse quando a Roma mancava la libertà di parola? E tuttavia la sua vita non corse pericoli: come mai? Tacito non corse pericolo di vita sotto Domiziano perché come magistrato collaborò fedelmente con i principi regnanti. Lo dichiara egli stesso, a1l’inizio delle Historiae, sia pure con un po’ di imbarazzo:
“Non potrei negare che la mia carriera politica abbia avuto inizio ad opera di Vespasiano, si sia svolta con Tito e abbia progredito ancora sotto Domiziano.”
Tra i modi di comportarsi a fronte di Tiberio, tutti ugualmente pericolosi, singolare fu quello scelto dal giovane Gaio, figlio del principe Germanico e quindi nipote di Tiberio, divenuto poi imperatore alla morte di Tiberio egli è noto con il nome di Caligola. Gaio aveva accompagnato quattordicenne il nonno Tiberio nel ritiro di Capri. Sentiamo come Tacito ne traccia il ritratto:
“Sotto apparenze di moderazione, egli nascondeva un animo efferato; né la condanna della madre, né la rovina dei fratelli gli strappò un lamento. Giorno per giorno, secondo la maschera che Tiberio portava, egli modellava su di essa il proprio aspetto, adoperava parole quasi identiche alle sue.”
Questo così giovane principe aveva dunque imparato per tempo a dissimAare, ma anche a simulare. Ben a ragione André Camus nel 1938 lo assunse nel dramma, che da Caligola si intitola, a simbolo dell’assurdo della condizione umana che tenta di conquistare l’impossibile (la luna, nel dramma) dopo aver distrutto la serie dei valori su cui la vita si regge.
Tiberio salito al potere a 55 anni, dodici anni dopo si ritirò a vivere nell’isola di Capri (né mise più piede a Roma): così, lontano dalla capitale riusciva più agevole a lui il ricorso alla dissimulatio e più difficile ai sudditi esercitare l’introspezione nei suoi riguardi. E tuttavia il duello combattuto con il senato a base di molti silenzi e di ben controllate parole da una parte e dall’altra crea, alla fine, per Tiberio e per i Romani, una situazione insostenibile, nella quale neppure Tiberio sa più che uso fare della parola e del silenzio. Di questa situazione di forte tensione, di quasi blocco della comunicazione, nella quale il silenzio imposto ai sudditi si ritorce sul principe, offre preziosa testimonianza l’inizio di una lettera di Tiberio da lui inviata nei suoi ultimi anni di vita al senato:
“quid scribam vobis, patres conscripti, aut quo modo scribam, aut quid omnino non scribam hoc tempore, dii me deaeque peius perdant quam cotidie perire sentio, si scio (Suet., Tib., 67.1) – Che cosa vi devo scrivere, o senatori? O in che modo devo scrivere? O che cosa assolutamente non devo scrivere in questo momento? Gli dei e le dee mi mandino alla malora peggio di quanto ogni giorno mi sento morire, se lo so!”
Però, neppure in vista della morte – come abbiamo ricordato – mise da parte la dissimulazione; era il suo tratto distintivo e ad esso non era disposto a rinunciare.
Tiberio aveva scelto di vivere solo, non dando confidenza a nessuno, non aprendosi con nessuno: e morì solo. Tra le rievocazioni letterarie della solitudine dì Tiberio negli anni di Capri, giudico molto efficace quella tracciata da Alberto Moravia, romanziere e saggista, autore, tra l’altro, degli Indifferenti e de La noia, che hanno segnato un punto fermo nella storia del romanzo italiano. Il Moravia così parla della solitudine di Tiberio nel racconto Il silenzio di Tiberio, incluso nel volume L’epidemia. Racconti surrealistici e satirici, 1957: ne citiamo qualche tratto:
(…) Meglio dunque volgere le spalle al passato e guardare al suo futuro di uomo vecchio, futuro breve se pensava alla morte incombente, vasto, eterno se dava ascolto a certe sue intime suggestioni. Nelle giornate più calde della stagione estiva, quando sotto la vampa immobile del sole il terriccio si sgretolava come creta mettendo a nudo le coste rocciose, e per le screpolature ardenti guizzavano i ramarri furtivi, e le piante aggrondate non davano più ombra, e le cicale stesse cessavano il loro canto e i termini dei mare e del cielo erano avvolti in un bianco vapore simile a quello che si leva da una caldaia piena di acqua bollente, Tiberio, ravvolte le membra brune e inseccolite nella toga biancbissima, sedeva all’ombra della pergola, sulla terrazza della sua villa e guardava il mare.
Mondo perfetto e assorto nella propria armonia che dava il senso di un prodigio sospeso e in procinto di accadere (…).
E in verità quale luogo migliore di Capri avrebbe potuto suggerire il presentimento del prodigio?
Chiudiamo così il nostro incontro, con Tiberio che in solitudine contempla il mare Tirreno.
Abbiamo ricostruito qualche tratto della vita e dei pensieri di quella società, inquieta e insoddisfatta; forse inquieta e scontenta perché godeva di troppo benessere? O forse perché priva di garanzie e di sicurezza davanti agli arbitrii del potere? C’è un carme anonimo dell’età di Nerone che delinea bene questa condizione di turbamento largamente diffusa. E’ un frammento di dialogo fra due pastori. Il primo chiede al secondo:
perché così silenzioso?
Il secondo risponde:
I pensieri turbano le mie gioie, i pensieri mi tengono dietro a tavola e ancor più al momento del brindisi: una greve ansietà si compiace di pesare sui miei momenti di serenità.
Riprende il primo:
Non capisco bene.
E il secondo:
E a me non va di dire tutto.
Anche qui, come si vede, si trattava di introspìcere: e anche noi per capirne di più dovremmo cercare di introspicere: ma la discrezione e il senso della misura a questo punto ci esortano a mettere fine a questa conversazione.
1 Testo rivisto dall’Autore della conferenza tenuta a Brescia il 4.11.2001 su invito della Cooperativa Cattolico-democratica di Cultura.