Ringrazio molto il presidente e l’introduttore per le cortesi parole che hanno avuto nei miei confronti. Ma soprattutto credo di dover ringraziare la Cooperativa Cattolico-democratica di Cultura e Amnesty International per questa join venture, perché credo che la collaborazione che hanno realizzato questa sera sia una cosa importante per celebrare i cinquant’anni dalla nascita delle Nazioni Unite. E’ necessario individuare il ruolo proprio e la funzione esercitata dall’Organizzazione delle Nazioni Unite durante questo cinquantennio, in modo da rinverdire questa funzione e renderla costruttiva, nella speranza di un futuro migliore per noi e per le nostre generazioni. La tesi che io vorrei sviluppare questa sera sostiene che le Nazioni Unite, anche se non sono riuscite a costituire un governo mondiale né a creare un gendarme della comunità internazionale, hanno però contribuito in maniera rilevante alla formazione di una nuova cultura nella famiglia umana universale. Vengo ora alla dimostrazione del mio assunto e alla illustrazione della mia convinzione sul contributo dato in questi cinquanta anni di vita dalle Nazioni Unite. Eravamo partiti da una sorta di concerto delle nazioni, in cui il principio più sacro e più rilevante si riferiva al rispetto della sovranità di ciascuno stato da parte di tutti gli altri. La guerra era allora un istituto giuridico della comunità internazionale; non era solo uno strumento per la sanzione nel caso che le regole della convivenza fossero state violate, ma anche uno strumento legittimo per avanzare e soddisfare delle istanze politiche. I giuristi usavano una espressione molto tecnica e molto suadente: guerra come strumento per il ricambio del diritto internazionale. In un contesto siffatto, nel corso della seconda guerra mondiale, eravamo arrivati ad una situazione paradossale, considerandola oggi: quando i forni crematori tedeschi cominciarono a funzionare e i primi bisbiglii cominciarono a farsi sentire, facendo entrare nell’antico parlamento inglese notizie sui forni crematori tedeschi, ci fu una interpellanza. Un parlamentare chiese al ministro degli esteri cosa il governo inglese intendesse fare in relazione alle notizie che provenivano dalla Germania; il ministro degli esteri rispose che il governo di sua maestà non poteva intervenire, perché le questioni evocate rientravano nella sovranità interna dello stato tedesco, e la questione si chiuse. Situazione di partenza: la guerra come strumento di garanzia del rispetto del diritto internazionale; la guerra come strumento per il ricambio del diritto internazionale; la guerra usata per esplicitare ed esercitare rivendicazioni politiche, come quella che l’Italia all’epoca ha manifestato (“dobbiamo anche noi avere una terra al sole”). Altro dato di partenza nelle relazioni internazionali: ciascuno è signore nel regno suo e i diritti dell’uomo e della persona sono cosa che ciascuno stato regola come crede. La conferenza di S. Francisco ha segnato una determinazione molto precisa nella direzione del cambiamento. L’attuazione pratica della carta delle nazioni unite ci dimostra che l’organizzazione non è riuscita a realizzare alcune delle funzioni che alla carta erano state attribuite. Per esempio, perché non è stato istituito il comitato degli stati maggiori che avrebbe dovuto costituire il cervello nell’esercizio della funzione di polizia internazionale per il mantenimento della pace e della sicurezza? Perché non sono stati conclusi gli accordi tra le nazioni unite e gli stati per una messa a disposizione delle nazioni unite, di corpi, di truppe capaci di esplicare questa funzione di mantenimento della pace e della sicurezza mediante anche l’esercizio di poteri coercitivi? La carta delle nazioni unite non si limitava a prevedere questo; aveva tra i suoi fini anche quello di creare un clima di cooperazione nella comunità internazionale che andasse verso due direzioni molto precise: quella della cooperazione economica e commerciale, e quella della cooperazione sociale, della promozione, del rispetto e della salvaguardia dei diritti fondamentali della persona umana. E si trattava di obiettivi importanti, perché se il mantenimento della pace e della sicurezza poteva costituire la condizione di base per andare verso un mondo al servizio degli uomini e delle genti, non era neanche pensabile la realizzazione di una pace senza una cooperazione economico-sociale-commerciale e senza promuovere nei singoli paesi il rispetto dei diritti umani. Le guerre spesso sono nate dalla ricerca di nuovi mercati; bisognava eliminare il ricorso alle armi per la conquista di questi, mettendoli in comune. Da qui l’idea di associare all’Organizzazione delle Nazioni Unite, l’organizzazione per il commercio internazionale (ITO). Realizzandosi una apertura dei mercati ed una cooperazione pacifica nel commercio, si sarebbe prodotta maggiore ricchezza, ma anche maggiore capacità di acquisto per i lavoratori; nello stesso tempo, si sarebbe eliminata una delle cause del ricorso alla guerra. Era per altro necessario promuovere i diritti umani, perché la storia ha insegnato che ogni qualvolta in un paese si forma una situazione di conculcamento dei diritti umani si creano i presupposti per tensioni e per espansionismi che possono condurre alla guerra. E in queste due direzioni, il sistema delle nazioni unite ha operato, con forti condizionamenti che già sono stati evocati e che sono certamente durati con intensità maggiore o minore nel tempo sino alla caduta del muro di Berlino. Questo foro, luogo di incontro permanente e punto di riferimento non solo per i governi ma anche per le opinioni pubbliche dei singoli paesi e per organizzazioni non governative come per esempio Amnesty International, è stato importante ed ha portato lentamente a convergere verso una filosofia dei diritti umani, che ha realizzato, se pure a tratti progressivi e con molta lentezza all’inizio, una delle funzioni che le nazioni unite si ripromettevano di esercitare. E’ stato menzionato uno dei rari momenti, in epoca di guerra fredda, in cui l’organizzazione delle nazioni unite è riuscita ad esprimere una propria posizione e una propria politica per il governo della comunità mondiale. E’ stato anche fatto riferimento alla reazione che l’organizzazione delle nazioni unite ha posto in essere nei confronti della politica di apartheid praticata dal Sud Africa e dalla Rodhesia del sud. Come è stato possibile arrivare a quella convergenza? E in che senso in quella occasione l’Organizzazione delle nazioni unite è riuscita a esprimere e a realizzare concretamente una delle potenzialità che la carta aveva disegnato? Il sistema della carta delle nazioni unite è imperniato sulla messa al bando del ricorso alla forza; ai singoli stati è concesso soltanto il diritto di ricorso alla legittima difesa individuale e collettiva. Certamente avrete presente che nel periodo della guerra fredda sino alla caduta del muro di Berlino, nel mondo esistevano due organizzazioni contrapposte: la NATO e il Patto di Varsavia. Queste due organizzazioni si collocavano in questo spirito nella carta delle nazioni unite che prevedeva, e continua a prevedere, la possibilità per ciascuno stato di ricorrere alla forza, nell’ipotesi eccezionale di attacco armato, attraverso il ricorso alla legittima difesa individuale o collettiva. NATO e Patto di Varsavia costituivano, per l’appunto, la preorganizzazione dell’esercizio della legittima difesa collettiva. Ma al di là di queste previsioni che poco aggiungevano alla tradizione della comunità internazionale, la carta delle nazioni unite prevede un capitolo settimo in cui si attribuisce al consiglio di sicurezza il potere di accertare situazioni di violazione o minaccia della pace e di reagire dal centro della comunità internazionale a situazioni di questo tipo. Bisogna dire che l’intuizione dei padri fondatori delle nazioni unite, la scintilla felice che solitamente scocca quando si esce dalla disperazione e si va verso la speranza, aveva condotto ad attribuire all’organizzazione e al consiglio di sicurezza, non una pura funzione di gendarme della pace contro eventuali aggressori, ma una funzione più lata: vegliare in modo da far fronte non solo a situazioni di aggressione, ma anche a situazioni capaci di costituire una minaccia per la pace. Sotto questo profilo c’è stato spazio perché questa funzione di pulsione che l’ONU ha avuto in questi cinquanta anni, si esercitasse: essendo attribuita al consiglio di sicurezza la funzione di accertare situazioni capaci di costituire minaccia alla pace, è stato possibile stabilire una equazione, secondo la quale una pratica come quella dell’apartheid, o l’eventuale ripetersi di una pratica come quella compiuta in epoca nazista, costituiscono non solo una violazione dei diritti umani, ma anche una minaccia per la pace; fa quindi scattare in capo al consiglio di sicurezza la funzione di adottare sanzioni attraverso decisioni che vincolano tutti gli stati membri della comunità internazionale. Quando fu scritta la carta, le persone che per prime la commentarono, dissero che attraverso questo potere il consiglio di sicurezza aveva immense possibilità decisionali. Si è come dato spazio al sorgere di una grossa autorità superiore nella comunità internazionale, che non si è poi realizzata per la divisione determinatasi in seno al consiglio tra i membri permanenti. Questa previsione ha però consentito il realizzarsi sin da prima della caduta del muro di Berlino di convergenze e ha provocato timore nelle genti: se qualcuno, uno stato e un gruppo di individui si fosse macchiato di atrocità nei confronti dei propri simili, correva il rischio di poter essere punito molto di più di quanto non potesse essere prima. Come spesso accade nella storia, da un disegno in una carta costituzionale è uscito qualcosa di diverso da quanto era stato pensato; da una macchina concepita come funzionale alla preservazione della pace e della sicurezza contro gli aggressori è uscito, invece, uno strumento di pressione psicologica e di erezione di un nuovo timore di sanzione per chi potesse violare i diritti umani. E su questo effetto indiretto, si è venuto a realizzare quel primo tipo di sanzioni che sono state poste in essere nei confronti del Sud Africa e della Rodhesia del sud. D’altra parte il disegno concepito dai redattori della carta attribuiva a questo organismo soprannazionale una serie di poteri da esercitarsi in modo graduale; si prevedeva la possibilità, in presenza di minacce o violazioni della pace, di adottare prima delle raccomandazioni, poi delle decisioni implicanti misure economiche e solo alla fine misure coercitive, eventualmente utilizzanti il comitato di stati maggiori e le truppe messe a disposizione dagli stati mediante accordi. C’è stato un aggiustamento funzionale del sistema che ha prodotto l’utilizzazione di questa convergenza, realizzata su certi valori fondamentali, come il no all’apartheid, alla discriminazione razziale, alla colonizzazione o il sì alla autodeterminazione dei popoli; tutto questo per realizzare azioni forti, per mettere le misure economiche al servizio di un nuovo timore nella comunità internazionale: nuovi freni, insomma, alle tendenze bestiali degli uomini che governano la storia. Questo clima di convergenza su valori comuni, si è per altro reso anche più rilevante, perché è rimasto lo spirito della grande alleanza durante la seconda guerra mondiale: gli stati che poi si sono divisi, avevano realizzato una convergenza sul fatto che ci sono alcuni comportamenti che vengono a concretare crimini contro l’umanità. Sulla scia di questa tradizione, fiorita nel corso della seconda guerra mondiale contro i tedeschi e gli italiani, si è venuta ad affermare una dilatazione dell’idea di giurisdizione universale, per cui chiunque si macchi di crimini contro l’umanità può essere perseguito da qualunque stato ovunque sia preso, senza potere invocare i tradizionali privilegi e le immunità di cui godono coloro che agiscono in nome di uno stato. Abbiamo quindi avuto un fiorire di meccanismi di sanzione della comunità internazionale, in linea con quelle che sono le caratteristiche destrutturate della comunità. Parallelamente all’affievolirsi dell’autorità delle nazioni unite, c’è stato un rafforzamento del potere punitivo di ciascuno stato, capace di agire a titolo di agente tutelare dei valori comuni di tutte le genti della comunità internazionale. Terzo fattore importante è stata la capacità di coagulazione delle opinioni pubbliche nazionali, con la possibilità di una incidenza superiore al passato delle organizzazioni non governative. In pratica si è realizzato nella comunità internazionale un fenomeno di superamento della cultura tradizionale, secondo la quale gli stati si pongono nello scenario delle relazioni internazionali come stati sovrani e si è realizzata una situazione di interdipendenza e una costruzione di meccanismi di controllo politico, se non militare, nei confronti degli stati membri della comunità internazionale. I mezzi di comunicazione di massa, poi, e la velocità dell’informazione hanno prodotto una modifica nel modo di atteggiarsi degli stati all’interno di ciascun paese. Credo che gli stati moderni vivano la statualità ed il potere statale in modo molto diverso da quello in cui lo vivevano prima dell’operare dell’ONU; e certamente questo sviluppo dell’idea di statualità è dovuto a forze interne alle società nazionali, in particolare nel nostro paese dobbiamo riconoscere un grosso contributo a questa crescita dell’idea dello stato a movimenti, sindacati, pensatori, e, diciamolo pure, anche ai partiti, oggi tanto vituperati, ma di cui si comincia a sentire la mancanza. Noi cattolici sentiamo lo sbandamento e l’esigenza di ritornare a delle formazioni politiche capaci di rappresentarci e non di dividerci. Ma se i contributi dati all’interno sono stati rilevanti, c’è stato un contributo venuto da questa nuova atmosfera delle relazioni internazionali che ha penetrato l’involucro delle sovranità nazionali e ha dato una spinta importante a che i governanti si comportassero in modo nuovo, non fosse altro perché quando si dovevano presentare in questo forum delle nazioni unite non potessero perdere la faccia. All’interno del sistema delle nazioni unite per altro si sono verificati anche fenomeni più importanti, molto più importanti, quando è caduto il muro di Berlino. Questo avvenimento, non va però visto come la causa efficiente unica di un mutamento di situazione nelle relazioni internazionali; occorre invece vedere in questo spazio nuovo, determinato dallo spirito delle nazioni unite, una concausa della caduta del muro di Berlino. Se dobbiamo analizzare i fattori che hanno determinato questo fatto, metterei in primo piano l’opera del pontefice, degli uomini di Solidarnosc, degli uomini di Gorbacev, della perestrojka; ma accanto a questi e prima ancora di questi, credo che metterei lo spirito universale delle nazioni unite, perché ha creato quel clima che ha costretto alla logica del forum, dell’incontro. Tutto perché quel sentimento di essere noi membri di un’unica famiglia umana, è stato aiutato a divenire un sentimento più ampio e più condiviso dallo spirito delle nazioni unite, perché all’interno del forum si è portata avanti la cultura dei diritti umani. All’interno di uno stato in cui non sono rispettati i diritti umani si deve formare un despota, e un despota non riesce a legittimare il suo potere se non creando dei nemici intorno a cui si compatti tutto il paese assieme a lui. Il mondo dell’Europa occidentale privilegiava i diritti civili personali e individuali; questo dialogo ha fatto sì che la filosofia dei diritti umani, secondo la quale se non è rispettata la persona in quanto tale non c’è neanche rispetto dei diritti collettivi, si spargesse nel mondo e portasse prima alla dichiarazione dei diritti dell’uomo, poi alle diverse convenzioni internazionali sui diritti dell’uomo; questa filosofia ha, inoltre, rotto l’involucro della sovranità comune nei paesi socialisti. E’ penetrata nel mondo socialista, si è unita ai fermenti religiosi, agli esempi di Solidarnosc, e degli uomini della perestrojka, ha dato la spinta decisiva per la caduta del muro di Berlino. Poi l’organizzazione delle nazioni unite si è rivitalizzata e ha dato luogo ad una serie notevole di iniziative. Dopo la caduta del muro ci sono stati tredici interventi per la pace. Certamente il momento della illusione, della speranza e della euforia, è stato durante l’operazione in Kuwait. In quel frangente il consiglio di sicurezza ha trovato l’ebbrezza per poter fare qualcosa di efficiente anche senza il comitato degli stati maggiori; senza fare accordi ha potuto decidere, autorizzando alcuni stati a svolgere funzioni di ristabilimento della pace. Ecco un’altra maniera di aggiustamento funzionale del sistema delle nazioni unite rispetto al disegno originario, che prevedeva il consiglio di sicurezza come cervello di un sistema di polizia internazionale, con attribuzione alla organizzazione delle nazioni unite di funzioni operative, non con forze di peace keeping, ma con caschi blu peace making, cioè truppe che si sarebbero sovrapposte alle parti, imponendo per quanto necessario la pace. La pratica che abbiamo conosciuto in relazione alla aggressione dell’Iraq nei confronti del Kuwait è stata quella di un consiglio di sicurezza che esplica una funzione non operativa, ma direzionale: autorizzazione agli stati per ristabilire la pace. Ha funzionato tanto bene, che si è determinata euforia, illusione; ma abbiamo poi avuto ulteriori iniziative dell’ONU, che si sono collocate in una dimensione diversa, molto più evoluta nell’esercizio della funzione. Nel caso del Kuwait le nazioni unite hanno trovato unità ed efficienza per reagire ad una invasione territoriale. Ma quando ci sono state azioni come quella in Somalia, dal punto di vista modelli evolutivi, siamo andati molto più avanti, perché si è arrivati a dare concretezza a quella convergenza su una filosofia realizzata. Ogni situazione che vede la dignità dell’uomo compromessa, è una minaccia per la pace e l’azione delle nazioni unite deve essere anche di tipo militare. Questo è successo dal punto di vista teorico, ed è stato un fattore di progresso; ma dal punto di vista dell’attuazione pratica si è rivelato un solenne fiasco. Costruire la pace e realizzare un mondo nuovo, non può essere opera improvvisa e determinata da convergenze subitaneamente raggiunte. Costruire la pace, anche attraverso iniziative di carattere operativo e attraverso l’uso dei militari implica una cooperazione costruttiva. Invece le nazioni unite hanno agito attraverso il segretario generale, a cui è stata attribuita una funzione direttiva; diverse truppe sono andate in Somalia, scoordinate tra di loro, e non c’è stata l’efficienza che qualunque opera umana richiede. Non bisogna cadere nell’opposto rispetto all’euforia, nella delusione. Quello che si è realizzato in Somalia è un insuccesso, legato al fatto che costruire un mondo nuovo non è cosa che si possa improvvisare, ma richiede sacrifici, una cooperazione costruttiva e l’approfondimento di una nuova cultura emergente. Siamo in presenza della nascita di una nuova cultura e solo attraverso una cooperazione costruttiva potremo forse realizzare come nazioni unite, qualcosa di utile in situazioni simili a quella somala. Dal punto di vista dell’evoluzione culturale abbiamo realizzato dei grossissimi progressi, già da immediatamente prima la caduta del muro di Berlino; quando io prima parlavo del fatto che la filosofia dei diritti della persona umana è stata una componente importante nella miscela che ha determinato la caduta del muro, alludevo anche ad un fenomeno di cui adesso voglio parlare: l’adozione da parte dell’assemblea generale delle nazioni unite di una risoluzione nel 1988. Può sembrare una piccola cosa, ma secondo me è significativa di un grande mutamento. Ha un nome semplice: assistenza umanitaria alle vittime delle catastrofi naturali e a situazioni d’urgenza dello stesso ordine. Questa risoluzione è stata poi rinforzata da una successiva del 17 dicembre 1991, mirante, appunto, a rinforzare il coordinamento dell’aiuto umanitario di urgenza delle nazioni unite. Con queste risoluzioni si è previsto che nel caso si verifichino catastrofi naturali, ciascuno stato può prestare assistenza alle popolazioni dello stato in cui si svolge la catastrofe, mediante l’invio di medicinali, di assistenza in cibo, e si afferma che in principio dovrebbe esserci il consenso dello stato territoriale in cui viene portata l’assistenza. Non vi sfuggirà il senso del fatto che in questa risoluzione non si dice che ciascuno stato membro che presta assistenza dovrebbe in principio acquisire il consenso dello stato territoriale. Da una comunità nella quale ciascuno stato deve rispettare l’autonomia degli altri, ad una concezione secondo la quale ciascuna popolazione ha il diritto di avere l’assistenza dagli altri stati nell’ipotesi in cui il proprio stato territoriale non riesca a funzionare. Qualcuno, molto attento all’analisi delle parole, potrebbe dire che effettivamente il fenomeno a cui ci si riferisce è minimo, ed è quello del darsi di una catastrofe naturale. Ma chi avrà notato questa cosa, non avrà mancato di osservare che l’intitolazione di questa risoluzione è un poco più ampia: si parla di assistenza umanitaria alle vittime delle catastrofi naturali e situazioni di urgenza dello stesso ordine. L’assemblea generale delle nazioni unite, in cui le opinioni pubbliche nazionali sono più rappresentate, ha espresso questo principio nuovo che non è in relazione solo a queste ipotesi individuate, ma anche ad altre assimilabili. La serie di situazioni al darsi delle quali scatta il diritto dei popoli, all’assistenza da parte degli altri stati, non è chiusa. Al maturare delle nespole, nel 1990, quando questi fermenti già si mostravano come il contributo dello spirito internazionalistico e umanitario delle nazioni unite, si riuniva a Copenaghen la conferenza per la sicurezza e la cooperazione in Europa, con una sessione dedicata esplicitamente ai diritti dell’uomo. In questa riunione si è affermato un principio che costituisce il punto di arrivo di questo contributo delle nazioni unite alla formazione di una nuova cultura: la protezione dei diritti umani deve considerarsi la fonte di legittimazione degli stati. Corollari di questo principio sono due regole: un governo rappresentativo, liberamente eletto è essenziale per la protezione dei diritti dell’uomo; tutti gli stati hanno la responsabilità di proteggere i governi democratici eletti, sia i propri che quelli degli altri paesi, se sono minacciati dalla violenza o dal terrorismo. Il primo corollario è ottimo, il secondo è pericoloso, ma se collocato in questo spirito nuovo, in questo fiorire di forme di controllo nuove sull’esercizio del potere di governo da parte degli stati, suona invece in maniera diversa. La concezione che noi cattolici abbiamo sempre predicato, e con noi tanti uomini di buona volontà che ci ha fatto sentire fratelli di tante persone, indipendentemente dall’ideologia e dal credo, sta per trionfare: lo stato al servizio della persona. Vorrei cogliere in questa filosofia emergente nel sistema delle nazioni unite, un contenuto non solo formale, ma anche sostanziale, perché se noi pensassimo che questa è diventata l’epoca del trionfo dei diritti umani intesi soltanto come diritti civili e politici, correremmo il rischio di fare della retorica e di chiudere gli occhi alle realtà del mondo, in cui esiste un nord e un sud, stati forti e stati deboli. I diritti umani che oggi tendono ad affermarsi non sono solo quelli civili e politici; questo spirito emerso nel sistema delle nazioni unite, ha prodotto un’importante prospettiva nuova con la istituzione dell’organizzazione mondiale del commercio che è stata posta in essere con gli accordi di Marrakech, il primo aprile del 1994. Un accordo molto importante che aprirà alla nostra società italiana molte prospettive positive, ma forse richiederà anche molti sacrifici. Cerca di aprire prospettive non solo per paesi industrializzati ma anche per paesi in via di sviluppo e prova a collocarli in un contesto mondiale, nel quale essi possano avere nuove possibilità di sviluppo economico e sociale. Estende ai prodotti agricoli la liberalizzazione dei commerci: questo da grande speranza ai paesi in via di sviluppo, e allo stesso tempo richiede sacrifici per società come quella europea, che si è data una forte politica commerciale e agricola comune. Ma soprattutto crea una nuova possibilità per gli stati in via di sviluppo, i più deboli della comunità internazionale, perché nel raccordarsi con i tradizionali padroni del mondo questi stati si trovavano in una situazione di strutturale debolezza, per cui erano in una situazione di eguaglianza formale, ma in una disuguaglianza sostanziale con gli stati sviluppati. Tutto il sistema è stato costruito innanzitutto creando dei regimi privilegiati per loro, ma soprattutto creando dei meccanismi multilaterali di soluzioni delle controversie che sono considerate dai paesi in via paesi di sviluppo lo strumento per resistere alla prepotenza economica dei più forti. Nello spirito delle nazioni unite, in questo salotto buono in cui i padroni del mondo sono messi alle corde e costretti a negoziare, i paesi più deboli hanno ricevuto una integrazione alla loro debolezza e tutto questo dà loro una speranza nuova. Ma tutto questo viene ulteriormente a incidere sul modo di vivere del potere di governo dello stato nella società attuale, una società interdipendente, costituita da tanti stati nazionali, viventi ormai nel villaggio globale. L’ultima manifestazione di questo spirito, della nuova cultura delle nazioni unite, è costituita certamente da quel miracolo che è stato l’incontro tra Arafat e Itzhak Rabin. E’ successo perché nel mondo, con il contributo certo del buon senso di alcuni leader, ma soprattutto con il nuovo spirito delle nazioni unite, si è affermata una convinzione secondo la quale siamo componenti di un’unica famiglia umana. C’è un’idea di Itzhak Rabin, che è in un rapporto di inavvertita derivazione da questa nuova cultura delle nazioni unite. Perché quel giovane ha sparato? Per conto suo o per conto di un gruppo? Per non cedere parte del territorio attualmente controllato da Israele. Qual era invece la filosofia di Itzhak Rabin? Dopo che quel giovane aveva contribuito a controllare quel territorio come strumento per l’acquisizione di maggiore sicurezza per il suo paese, Rabin quel territorio era pronto a cederlo in cambio di assicurazioni di non ulteriore violazione del territorio più ristretto di Israele. In sostanza, la sua idea era che lo stato moderno non vale per il territorio che controlla ma per i valori morali che riesce ad esprimere: uomini di buona volontà possono anche su un territorio più ristretto raggiungere la loro dignità umana. La pace vale più di un territorio, e tutto si può realizzare in funzione della promozione umana se in luogo di scontro si realizza una situazione di cooperazione costruttiva. Grandi autostrade, per unire l’Atlantico con l’oriente avrebbero attraversato queste aree prima in conflitto, e ci sarebbero stati grandi flussi di persone per andare a visitare i luoghi religiosi. Tutte queste cose avrebbero potuto restituire ricchezza a Israele, per quello che Israele avrebbe perso in termini di territorio; ma dal punto di vista spirituale l’idea che lo stato moderno vive, non solo perché ha forza militare e controllo di territori, ma perché ha dei valori da proporre alla sua gente e può attraverso questi creare situazioni di civile progresso, mi sembra che sia un filo di grande continuità con le risoluzioni del 1988 e del 1991. In sostanza attraverso diverse vie lo spirito delle nazioni unite scenda nelle coscienze della gente e ciascuno di noi restituisca al mondo l’esperienza di questi cinquant’anni, anche attraverso ciò che di minore ci ha dato.
Testo, non rivisto dell’Autore, dell’incontro tenuto il 10.11.1995 a Brescia su iniziativa della Cooperativa Cattolico-democratica di Cultura.