La cultura e l’opinione pubblica: anche nel mondo romano antico il rapporto è stato difficile, spesso conflittuale. Le origini della retorica e della filosofia a Roma lo testimoniano, e non solo in un dato momento storico; l’arco di tempo della difficoltà dei rapporti va almeno dall’inizio del secondo secolo a.C., al principio del primo. E non solo: tensioni, incomprensioni e scontri non mancarono anche in epoche successive. Basta pensare alle poche voci di dissenso da Nerone, che erano le voci dei filosofi stoici, in contrasto anche con ciò che la mentalità comune pensava dell’imperatore: ma qui la nostra analisi si limita alla fase iniziale di questo rapporto. La filosofia per prima aveva trovato resistenze nella concretezza tradizionale dei Romani: l’astrazione filosofica di origine greca suscitava sospetti diffusi, come se si trattasse di un imbroglio, un raggiro. Non mancarono le espulsioni dei filosofi a partire almeno dal 190-180 a.C. Celebre la cacciata di Carneade, Critolao e Diogene nel 155 a.C., perché giudicati pericolosi per la società romana: soprattutto tale appariva quel Carneade sul quale si interrogava don Abbondio nella notte degli imbrogli. Ma insieme alla filosofia venne colpita la retorica, cioè la tecnica del parlare bene, che pure era d’importazione greca. Svetonio ci racconta delle difficoltà iniziali per questa disciplina e sappiamo che nel 161 a.C. un decreto del Senato bandiva dalla città insieme retori e filosofi greci. Ma la novità culturale non si arrestava per decreto: e la tecnica retorica riprese fiato, poi un po’ di vigore, progressivamente apprezzata anche dai Romani: purché fosse rigorosamente controllata dall’aristocrazia. E così accadde che nel 93 a.C. venne aperta la prima scuola di retorica a Roma, per iniziativa di un personaggio non molto famoso: Plozio Gallo. Era la scuola dei rhetores Latini, della quale parla anche Cicerone, per testimoniarci dei successo che essa riscontrava presso i giovani di allora e del suo rammarico per non potervi accedere: il giovane Arpinate era infatti trattenuto da altri maestri, che lo indirizzavano allo studio della retorica solo in greco, come una volta si faceva. Ma per quali motivi questo allontamento dalla scuola di Plozio Gallo? Oggi sappiamo dare una risposta alla domanda e possiamo affermare che i consiglieri di Cicerone agivano in tal senso per motivi non solo o non tanto didattici, quanto politici: la scuola dei retori latini rischiava agli occhi loro, e agli occhi di altri benpensanti romani, di trasformarsi in un pericoloso centro di democratizzazione del sapere, e, quindi delle vie di accesso al potere sociale e politico. Sappiamo infatti dell’amicizia del maestro, cioè di Plozio Gallo, col popolare Mario, in anni di contrasti fortissimi in Roma, culminati nella guerra del 91 a.C. per il diritto di cittadinanza degli Italici. È sempre Cicerone a informarci, nel trattato intitolato De oratore , dell’esistenza di questi maestri e del loro insegnamento, e lo fa per bocca di Lucio Licinio Crasso che, allora censore, li aveva colpiti con un editto di chiusura della scuola. Era una scuola di impudenza e di perdita di tempo, agli occhi di Crasso e dei suoi amici: essi andavano ripetendo che la mente dei ragazzi diveniva ottusa e si rafforzava la loro pericolosa sfacciatagggine, mentre i nuovi retori si proponevano esattamente il contrario: aprire la mente degli alunni, farli ragionare, spiegare il perché delle cose e dei problemi. Il nuovo genere di insegnamento consisteva sostanzialmente in una sintesi di retorica e filosofia, in vista della formazione di un uomo di cultura completa. Si doveva trattare quindi del superamento di una preparazione esclusivamente tecnica e precettistica, a vantaggio di una formazione globale dell’oratore: questi diveniva così il depositario di una cultura in grado di fargli reggere con competenza il timone della repubblica romana. È in questo contesto culturale e sociale pieno di fermenti e di stimoli nuovi che si formò il giovane Cicerone.
Giornale di Brescia, 1.6.2005.