Nel 1998 si sarebbe dovuto celebrare il XXI il centenario della morte del poeta Lucilio , il padre della satira latina o, se si preferisce, l’inventore del genere (questo è un titolo, al quale gli antichi tenevano molto). Poeti satirici c’erano stati prima di lui in Grecia e in Roma, ma fu Lucilio a dare definitiva e autonoma fisionomia a questo genere letterario nel modo, col quale ancora oggi noi lo intendiamo (benché non tutta la sua produzione vi si possa riferire in senso stretto, perché il suo mondo e la sua fantasia sono illimitati). Con lui come padre e inventore dovettero perciò fare i conti i poeti posteriori, anche restringendone gli orizzonti. Orazio lo tratta in modo un po’ critico, rimproverandogli la trascuratezza nella forma; Persio invece si entusiasmò tanto alla sua lettura da sentirsi indotto a dedicarsi allo stesso genere, nonostante le differenze dei tempi e del temperamento. Purtroppo della produzione di Lucilio ci sono pervenuti solo seicento frammenti, per la maggior parte conservati da lessicografi, grammatici ed eruditi, che non avevano certo il nostro interesse per la sua vivace personalità e la sua incidenza nella cultura antica. Di questo però ci danno alcune informazioni le molte testimonianze indirette, che attestano la fortuna, sia pure selettiva, dell’autore fino al cristiano Lattanzio. Così si rileva una novità interessante, che si potrebbe dire moderna. Lucilio non è più, come altri arcaici, un poeta-liberto o un poeta-professore, ma un poeta e basta. Diremmo un professionista, se la dizione moderna non comportasse una dimensione economica, che è per lungo tempo assente nell’esercizio delle arti liberali a Roma; dunque diciamo che la letteratura per lui è una missione. Benché proveniente da una famiglia elevata e ricca (un suo fratello senatore sarà nonno materno del famoso Pompeo), egli non coltiva l’aspirazione propria dei romani bene alla carriera politica, che era una strada quasi obbligata in assenza di altre possibilità di autorealizzazione, quali potrebbero essere oggi le professioni o le attività economiche. Non per questo si sente un frustrato, anzi scrive con orgoglio: « Non sono disposto a scambiare me stesso da solo con tutto il mondo e non vorrei essere invece di Lucilio un gabelliere o un esattore d’Asia». Quella provincia era la più ricca dell’impero ed era controllata da grandi società finanziarie italiane per l’appalto delle imposte, più forti ancora del potere politico. La scelta letteraria non significa estraniazione dalla vita attiva, ma la partecipazione in una forma diversa e nuova. La graduatoria dei valori appare negli ultimi versi del celebre frammento sulla virtù, che «è mettere al primo posto il bene della patria, poi quello della famiglia, per terzo e per ultimo il proprio». Lucilio è addirittura attivista di parte, essendo legato, almeno nei primi tempi, al circolo degli Scipioni, di cui condivide gli ideali politici e culturali senza servilismi. Con l’ Africano minore, cioè Scipione Emiliano, partecipa alla guerra di Numanzia nel 133. Gli avversari di Scipione sono i suoi avversari; contro di loro usa la sua satira, che doveva riuscire molto più incisiva di quanto possa apparire a noi oggi. Anche Quintiliano tanti anni dopo gli riconoscerà «una straordinaria cultura e libertà di parola, quindi asprezza e mordacità». Il primo libro delle satire si apriva con la parodia di un concilio degli dei, che, per mettere fine alla decadenza di Roma, decide di togliere di mezzo Lupo, che ne è il principale responsabile. Lupo è Lucio Cornelio Lentulo, che era il princeps senatus, dunque un personaggio autorevolissimo anche senza altre cariche. Egli era un goloso, quindi deve morire per indigestione di brodetto di pesce. Il gioco di parole sottostante è intraducibile: lupo è anche il nome di una specie ittica e ius=intingolo è omografo e omofono di ius=diritto. Il concilio degli dei è un motivo serio dell’epica antica, ma qui scade a parodia e come tale passerà nella letteratura posteriore fino ai poemi eroicomici. La lista dei nemici di Scipione colpiti da Lucilio è lunga. Knoche elenca Q. Cecilio Metello Macedonico col figlio e il genero C. Servilio Vatia, T. Claudio Asello, il pontefice massimo P. Muzio Scevola, Papirio Carbone, Lucio Aurelio Cotta, oltre Lupo (escluso però Tiberio Gracco). Purtroppo lo stato del testo non ci permette di seguire le singole vicende, quando non trovano eco e integrazione in altri autori conservati, come nel caso fortunato di Asello, il cui scambio di battute, senza esclusione di colpi, con Scipione è riportato da Cicerone. La maggior parte dell’attività di Lucilio si svolge però dopo la morte, prematura e sospetta, di Scipione. I. Lana descrive così l’epoca, che allora si apre: «incominciano i torbidi interni, i sommovimenti popolari dei Gracchi, si rivelano gli squilibri dell’ingiustizia sociale, la corruzione che il troppo oro rende facile; si accentuano le trasformazioni della società romana…». In questo quadro Lucilio si sente ancora più libero e allarga la sua prospettiva, ma la sua visione si fa più fosca e pessimistica. Ecco come vien descritta la vita nel foro, centro di tutte le attività romane e quindi specchio del costume: «Adesso invece da mattina a sera, sia giorno di festa o di lavoro, allo stesso identico modo il popolo intero e i padri (= i senatori, ma forse ironico, nota mia), tutti ad agitarsi nel foro e non andarsene altrove, tutti a darsi a un solo e unico scopo, alla stessa arte: di poter imbrogliare con scaltrezza, lottare con l’inganno, gareggiare in lusinghe, fingersi gente onesta, tendere insidie, come se tutti fossero a tutti nemici» (trad.di I. Mariotti, che conserva dell’ originale l’infinito descrittivo). A ragione dunque Orazio potrà affermare che Lucilio «attaccava sia i capi della società che il popolo stesso gruppo per gruppo», cioè non genericamente (la sua satira infatti è spesso nominativa, colpisce gli individui) «favorevole solo alla virtù e a chi la praticava». La vena moralistica non si esaurisce con i politici. I golosi sono «pance viventi»; non potevano certo esserlo i poveri, ma gli arricchiti sì: un intero libro era dedicato ai banchetti di un certo Granio, un ex banditore, i cui inviti dovevano essere molto famosi, se Cicerone arriva a dire che l’unico fatto di rilievo del tribunato di Crasso fu la partecipazione a uno di questi pranzi (“se non vi avesse partecipato, non si saprebbe neanche che è stato tribuno”). Le beghe e il mercantilismo dei grandi trovano la loro perfetta corrispondenza nella vita quotidiana dei piccoli. Un tale, morendo, ha disposto nel suo testamento un legato per la moglie, che contempla solo la provvista di cibi e gli arnesi da toeletta: adesso gli eredi litigheranno per decidere che cosa rientra e che cosa no nella dizione di questo legato. Al mercatino dell’ antiquariato «proprio per vendere le robe vecchie il rigattiere le loda: una striglia spuntata, un pezzo di sandalo». Le piccole manie si collegano alle grandi. Albucio, che si è dimenticato di essere “concittadino di centurioni, di uomini insigni, di combattenti valorosi e di veterani”, non vuole più sembrare romano: “Vive ad Atene, si professa epicureo, parla greco. Trovandosi pretore in quella città, Scevola l’aveva salutato alla greca: “Chaire, Tito” e il seguito e la folla avevano fatto coro: “Chaire, Tito”. La presa in giro provocò la loro inimicizia politica”. Qui la critica linguistica è insieme sociale e politica. Altrove l’interesse per la lingua e la letteratura si impone di per sé, come è naturale per chi di questo mezzo di espressione ha fatto le armi delle proprie battaglie. Lucilio è contrario alle tragedie e ai poemi epici perché troppo lontani dalla realtà, come «il Ciclope Polifemo lungo duecento piedi e con un bastoncello più alto dell’albero maestro di una grossa nave da carico». La sua poesia invece è realistica e non ama i toni alti o le questioni teoriche. Nonostante le frequentazioni colte nel circolo scipionico con filosofi e storici greci di gran nome, può arrivare a dire: «Se proprio vuoi saperlo, un cappotto, un ronzino, uno schiavo, una coperta mi sono più utili di un sapiente». Certo questo è detto in modo paradossale e provocatorio, forse all’indirizzo di qualche sedicente saggio che di filosofico aveva appena la barba. Anche la mancanza di lima, rimproverata da Orazio, è frutto della veemenza e della immediatezza, con la quale il poeta reagisce al reale e secondo la quale va interpretato. Cicerone fornisce la chiave di lettura: «Lucilio, che era un uomo colto e spiritoso, usava dire che non voleva esser letto né dalle persone troppo dotte né da quelle troppo ignoranti, perché queste non capiscono niente e quelle troppo», ossia vanno oltre le intenzioni dell’autore.
Giornale di Brescia, 1.5.1999.