Lucrezio, poeta in contemplazione della natura

Lucrezio seppe trasfigurare la filosofia che nutriva il suo spirito in poesia altissima, la cui fonte fu una sensibilità fremente, che non si fece mai estranea al lavoro razionale del filosofo. Questo appare evidente fin dall’inizio del poema, da quel proemio che è uno dei passi più belli, fra i molti bellissimi di Lucrezio, in cui la topica invocazione alla Musa viene sostituita dall’invocazione a Venere, che il poeta elabora allegoricamente, facendone il simbolo prima del piacere, poi della natura procreatrice (per Lucrezio in natura tutto è dominato dalla legge dell’amore, che governa la riproduzione delle stirpi) e infine della serenità e della pace. Alla fine del proemio persino Marte, il feroce dio della guerra e delle stragi cruente, si piega alla bellezza di Venere; così, persino la tragedia della guerra scompare di fronte all’amore che riporta tra gli uomini la pace. Questa interpretazione del mito in senso epicureo offre al poeta l’occasione per un’allusione politica abbastanza scoperta: Venere, "progenitrice degli Eneadi", è presentata come genitrice dei Romani e la descrizione della dea che, con la seduzione della sua bellezza, placa l’ardente divinità guerriera avvolgendola in un’atmosfera di suggestivo turbamento, ha un chiaro valore parenetico per Memmio, cui è dedicato il poema, e per tutti i lettori latini. In una società tormentata e sconvolta come quella di Roma nel primo secolo a.C. non Marte, ma Venere può offrire un’ancora di salvezza agli spiriti tormentati, cioè l’amore, l’amicitia epicurea, che nasce solo in chi sa purificarsi dall’orgoglio, dalle contrastanti passioni, dal superbo desiderio di potenza politica e di ricchezza economica. La dedica a Memmio, uomo di potere appunto, è un tema che serpeggia per tutto il proemio con tanta insistenza da farci capire che essa non proviene da fredda necessità, ma da una profonda esigenza emotiva e dal desiderio di convincere l’uomo politico, come se stesso e tutti i Romani, a seguire l’insegnamento di salvezza di Epicuro.
L’invocazione a Venere, cioè al sommo bene della morale epicurea, è dunque un’invocazione alla serenità, alla pacificazione dell’anima. Ma quel che rende emozionante quest’appello è la profondità con la quale il poeta soffre dei mali dai quali si devono liberare gli uomini e dai quali deve liberare se stesso.
Infatti l’invocazione, dissipata l’immagine radiosa suscitata in noi dalla descrizione di Venere, ci presenta subito la superstizione che pesa sugli uomini e lo sforzo di Epicuro, e del poeta stesso, per affrontarla. In quell’inizio emergono pertanto le tre dominanti della sensibilità lucreziana: l’aspirazione alla serenità, il sentimento doloroso dell’infelicità umana, l’ardore intrepido ed entusiasta per le battaglie della ragione. Al di là delle tante disquisizioni che questo proemio ha suscitato tra i dotti, il fascino del passo è, a mio avviso, nella incantata e suggestiva contemplazione di quel mondo naturale, di cui è matrice Venere, sia essa concepita come forza generatrice della vita cosmica o come Musa capace di conferire alla poesia eterna grazia o, infine, come simbolo di quella pace, politica e interiore, che è fonte di spirituale armonia e serenità.
Rileggiamo i bellissimi versi di apertura: “Progenitrice dei discendenti di Enea, piacere degli uomini e degli dei, Venere datrice di vita, che sotto i mobili astri del cielo ravvivi con la tua presenza il mare che sorregge le navi e le terre feconde di frutti, perché per opera tua tutte le specie degli esseri viventi vengono concepite e giungono a contemplare la luce del sole; te, o dea, fuggono i venti, te, al tuo sopraggiungere, fuggono le nuvole del cielo, in tuo onore la terra con arte mirabile fa sbocciare fiori odorosi, per te sorride la distesa del mare e il cielo rasserenato splende di luce diffusa”.
Difficilmente si trova in tutta la poesia di ogni tempo una rappresentazione così intensa e al tempo stesso soave della natura nel suo sbocciare primaverile, nel suo moto perenne e incessante. La nascita degli esseri è per Lucrezio il loro giungere alle rive della luce; l’opera benefica di Lucrezio sulle anime, come quella di Venere nel cielo, è la pacificazione mediante la luce. In questo quadro, si osservi, non ci sono gli uomini a partecipare di quella vita, ma solo le piante e gli animali: l’uomo porta con sé la riflessione e romperebbe l’incanto. “Infatti, non appena riappare il bell’aspetto dei giorni primaverili e il soffio fecondatore del Favonio riprende vigore, gli uccelli dell’aria annunziano per primi la tua presenza e il tuo influsso colpiti nel cuore dal tuo potente fascino. Poi le fiere selvagge e le greggi scorrazzano per i prati rigogliosi e attraversano i fiumi vorticosi … ; … infondendo nel cuore a tutti gli esseri una dolce voluttà, fai sì che essi propaghino le stirpi”.
Qui e nei versi seguenti c’è una grandiosa visione dell’onnipotente azione di Venere, che col suo fascino provoca il desiderio amoroso attraverso il quale si propaga la vita. “Tu sola reggi e governi la natura e nulla senza il tuo consenso nasce nelle celesti regioni della luce”: ancora l’immagine della luce, a cui si giunge dal buio del nulla.
Dopo queste immagini del nascere e del propagarsi delle stirpi viventi, del fiorire della terra, del placarsi e sorridere del mare e del cielo, la dedica a Memmio porta il poeta a riflettere sulle tristi condizioni politiche di Roma e alle conseguenti minacce di guerra, che Venere soltanto può far cessare: “Fa in modo che frattanto i fieri travagli di guerra, sopiti per mare e per tutte le terre, si acquietino”. Da questo punto fino alla fine del proemio il tema della pace prevale su tutti gli altri. Venere (principio del divenire universale, ma anche dell’armonia universale), è la sola che possa concedere pace agli uomini, vincendo le forze della guerra, qui rappresentata da Marte, “signore delle armi, che spesso si abbandona nel tuo grembo domato dalla eterna ferita d’amore, e così, levando gli occhi, reclinato il ben tornito collo, nutre d’amore i suoi avidi sguardi, in te rapito, o dea, e dalle tue labbra pende il respiro di lui che giace supino”. Mirabile e plastica rappresentazione che sembra ispirarsi a qualche gruppo marmoreo o a qualche pittura. E così prosegue: "Tu, o dea, abbracciandolo col tuo santo corpo sussurra dal tuo labbro dolci parole, chiedendo, o gloriosa, per i Romani una pace tranquilla”. Come si vede ritorna insistente l’aspirazione alla pace e alla interiore serenità, condizione essenziale del saggio, ma anche condizione perché egli possa portare a termine la sua opera e Memmio non sia distratto dalla lettura di essa, poiché egli non può sottrarsi ai suoi doveri di uomo politico. Rimane da sottolineare come questa sollecitudine per i pericoli della patria rientri nello spirito romano del poeta che, accostandosi alla dottrina di Epicuro, l’ha interpretata arricchendola del modo di sentire più genuinamente romano.
 

Giornale di Brescia, 16.10.1994.