Giornale di Brescia, 7 marzo 1993
“Conosci te stesso” era scritto sul frontone del tempio di Delfi. Socrate fece suo il motto, dandogli un’estensione e una profondità insospettate. Mettersi in chiaro con se stessi, con un atto di coraggio e di sincerità da rinnovare di continuo, significa pervenire all’età della ragione, cioè superare l’egocentrismo, il narcisismo, così come l’istinto del gregge, la falsa certezza delle frasi fatte, dei luoghi comuni. Un siffatto processo di liberazione non potrebbe aver inizio né proseguire senza un ritorno del singolo alla sua interiorità.
Non si può prescrivere all’individuo di identificarsi totalmente nella trama dei rapporti che lo legano al mondo ed insieme attendersi che egli tragga la sua forza da una spontaneità interna di cui non può neppure ascoltare la voce. L’uomo non vive solo nel rapporto con le cose di cui ha bisogno o con gli altri uomini, ma anche in virtù del rapporto con se stesso. Questo rapporto è la coscienza. Il rapporto dell’uomo con se stesso media quello tra l’uomo e le cose e tra l’uomo e gli altri uomini. Se il rapporto dell’uomo con se stesso, cioè la coscienza, è posto tra parentesi, o eliminato, l’uomo diventa una forma vuota che può riempirsi a caso di qualsiasi contenuto. Diventa semplice recipiente di pregiudizi e tradizioni inveterate, di credenze grossolane, di luoghi comuni e slogan. Non si può confondere questa mediazione razionale, questo imperativo etico col narcisismo intimistico di chi passa la vita a contemplare le pulsazioni dei suoi sentimenti, a ruminare sui suoi dolori e le sue gioie, a compiacersi di tutto ciò che può percepire in se stesso. Una personalità autentica non nasce dai contatti epidermici che un individuo può avere con gli altri, né è aiutata a formarsi dalla pressione sociale o dalla folla vociferante. Non nasce nemmeno dall’isolamento superbo dell’individuo che, mentre non rifiuta il carico dei problemi che la vita in comune gli comporta, dimentichi di tener d’occhio se stesso e rifugga dalla pausa meditativa. Occorre ritrovare in sé, nella propria interiorità, le ragioni ed i vincoli per vivere in maniera degna, per sé e per gli altri, per la promozione dell’umanità che è in ognuno di noi e dei nostri simili.
Conoscere se stessi significa, dunque, tener viva in sé una visione di vita matura, la quale comporta sete di verità, ansia di obiettività, rigore etico e razionale. “Conosci te stesso” per Socrate non significa conoscere in sé solo l’individuo con le sue caratteristiche contingenti, coi suoi variabili umori, ma conoscere e riconoscere in sé ciò che è universalmente umano, l’umanità in noi consiste nella consapevolezza delle possibilità e dei limiti a tutti comuni, nonché dei doveri a cui la natura umana ci chiama, dei fini a cui dobbiamo tendere con tutta l’anima.
Per aiutare l’interlocutore a porsi in chiaro con se stesso, Socrate pratica quella forma dialogica della ricerca e della prova che va sotto il nome di maieutica, perché la sua arte vuol somigliare a quella di sua madre, la levatrice Fenarete: come l’ostetrica non genera figli, ma li aiuta a venire alla luce, così l’autentico maieuta non ha alcun insegnamento diretto da comunicare, ma sollecita l’interlocutore a scoprire da sé, nella sua anima, quelle verità che illumineranno la sua esistenza e lo aiuteranno a orientarsi nella vita. Con una schematizzazione approssimativa nel metodo socratico si possono distinguere tre momenti essenziali: la professione di ignoranza consapevole, l’ironia, la maieutica propriamente detta. Socrate – come è detto nello scritto più socratico che ci sia, l’”Apologia” – muove alla ricerca di “quella sapienza che è consentita all’uomo”, e in questo “servizio prestato a Dio”, in questa sua “continua occupazione” egli ha speso tutto se stesso. La verità che deve nutrire la vita non è un dato materialmente trasmissibile ad altri: essa si apre il varco e vive realmente solo nell’anima di chi la riscopre, la fa sua, la interiorizza. Per questa ragione è inutile comunicare agli altri ciò che è il punto di arrivo della nostra riflessione; occorre, invece, cercare insieme, trasformare la sterile disputa sofistica in una forma di collaborazione tra spiriti fattisi ansiosi di verità, anche quando non se ne rendano pienamente conto e quali che siano i rispettivi punti di partenza.
Di qui il paradossale procedere di Socrate: egli disdegna la conferenza, il discorso celebrativo, il discorso in proprio, la lezione e cerca con le sue domande e con i suoi dubbi, con i suoi interrogativi, sia di far affiorare nella coscienza dei suoi interlocutori un problema universale, sia di impostarlo esattamente, rigorosamente. Il dubbio era sistematico, comportava cioè un inequivocabile rifiuto per quanto riguardava la mitologia (nell’”Eutifrone”) e la scienza del tempo (celebri le pagine nel “Fedone” in cui Socrate traccia la sua autobiografia intellettuale); era, invece, un dubbio metodico per quanto riguardava l’etica. Si dubita, ma per rendere più salda con la vittoria sul dubbio l’imperativo della coscienza. Il dubbio e l’interrogazione si accompagnano, da parte di Socrate, alla professione di consapevole ignoranza, perché chi non sa di non sapere non cerca nemmeno, mentre sapere di non sapere fa da pungolo alla ricerca e alla richiesta di risposte non generiche, non evasive, tali da operare il passaggio dall’esempio addotto a un criterio di giudizio, al principio per cui più atti manifestano uno stesso valore.
Dinanzi a un certo tipo di risposte, Socrate dispiega la sua ironia. L’ironia è uno scherzo terribilmente serio, che irrita quasi intenzionalmente l’interlocutore, ma solo per scuoterlo con energia dalle sue false certezze e renderlo, così, aperto a quella verità che ora gli sfugge. L’ironia è un “avanzare mascherato” verso la verità. L’interlocutore, passo dopo passo, è costretto da Socrate a trarre egli stesso le conclusioni insostenibili e contraddittorie, che pure sono innegabilmente insite nelle sue errate affermazioni; ma solo quando egli sente di non poter più poggiare i piedi su di un terreno che frana, finalmente si fa strada nel suo animo una salutare diffidenza per le facili apparenze, le presunte certezze, le formule gonfie di falsa evidenza, le frasi fatte che bloccano nell’uomo la capacità di ragionare con rigore logico.
Il sofista, questo brillante venditore di parole e di pseudo-cultura, non ci sta e di solito si sottrae alla ricerca metodica con un espediente, o fingendo indignazione; ma se si tratta di giovani desiderosi di conoscere il vero, il loro turbamento, paragonabile alla scossa inflitta dalla torpedine marina, è quanto mai salutare. Per loro e con loro Socrate continua a cercare. L’ironia, propria di chi fa avanzare a grado a grado la consapevolezza dell’insostituibile valore del vero per un mondo che voglia essere umano, diventa allora maieutica, estrazione dalle profondità dell’anima della verità presentita, con un tormento paragonato ai dolori del parto: la verità, infatti, non è mai una cosa tra le cose, ma un processo di generazione spirituale. Figlio della levatrice Fenarete, Socrate diceva spesso di avere ereditato dalla madre l’arte della maieutica. L’educazione autentica è e rimarrà sempre, finché la parola “uomo” avrà un senso, una “maieutica della persona”, un punto di incontro tra sollecitazioni e scoperte, un approfondimento dell’interiorità conseguito con e tra gli altri uomini, una conquista che è personale, ma di una verità che vale per tutti.
Con Socrate ha inizio una nuova, profonda visione del rapporto e del processo educativo. L’accresciuta importanza data da Socrate alle risorse della persona gli ha fatto intuire la possibilità e la validità di un metodo che rimarrà esemplare, sempre attuale e sempre di nuovo da scoprire. Nella sua “arte maieutica” troviamo, infatti, per la prima volta chiaramente annunciato il principio che l’educazione, per quanto implichi sempre un insegnamento ed una relazione sociale, un rapporto interpersonale tra educatore ed educando, si realizza eminentemente come autoeducazione. Il socratismo, inoltre, implicitamente affermava che tutti gli uomini hanno, almeno potenzialmente, un eguale valore ed un’eguale educabilità, sebbene di fatto gli interlocutori che Socrate privilegia sono soprattutto quei giovani ben disposti ad accogliere la più elevata formazione intellettuale e morale, l’aretè. Per renderli migliori non c’è che da aiutarli a scoprire ciò che essi sono e quello che devono essere, accostarsi a loro con rispetto, chiamarli a collaborare nella ricerca ed a vagliare insieme le diverse opinioni esercitandoli a quell’ironia critica che fa svanire la falsa scienza e predispone a ragionare sui fatti, ad individuare nelle situazioni concrete in cui l’uomo si trova ad agire la risposta comandata dalla ragione e dunque la prospettiva migliore, la sola da perseguire, costi quello che costi. In tal modo l’educazione non è più privilegio di casta, ma un cammino di auto-formazione che deve essere reso possibile a tutti, poiché ogni uomo è soggetto di un destino spirituale e di una sua personale responsabilità.
Quali che siano le distanze e le differenze fra l’”Apologia di Socrate” ed il “Nuovo Testamento”, l’eccezionalità di Socrate si impone. Egli fu ed è un dono di Dio per la Grecia e per l’umanità. Ai primi cristiani Socrate appariva non a caso come “il convertito della ragione” e il “profeta greco di Cristo”. Erasmo da Rotterdam lo giudicava evidentemente allo stesso modo, chiedendo ai cristiani di invocare il nome come si fa per i santi: Sancte Socrate, ora pro nobis. Sono dunque in buona compagnia, se, proprio perché cristiano, mi professo discepolo di Socrate.