«Pregare è pensare al senso della vita» scriveva l’11 giugno 1916 nei suoi Notebooks 1914-1916 Ludwig Wittgenstein, rivendicando con quella lapidaria espressione la necessità della preghiera per ogni vita che intenda farsi e rimanere umana, senza escludersi dalla ricerca e dalla realizzazione del significato. Al di là dell’adeguatezza o meno dei contenuti in cui storicamente si è espressa la dimensione religiosa dell’uomo nel corso dei secoli, essa è in ogni tempo qualcosa di profondo e di alto. L’uomo prega perché pensa, ha il presentimento dell’Infinito di cui avverte la vicinanza e l’inesauribilità, il suo «essere nascosto». L’uomo prega perché ha lo stupore di esistere e non cesserà mai di chiedersi, finché non perderà la sua umanità, qual è il volto del Padre di tutti gli esseri, qual è la sua volontà, che cosa Egli ci autorizza a credere e a sperare, qual è il suo disegno sul mondo e su quel misterioso intreccio di male e bene, di sofferenza immeritata, di gioia e bellezza che caratterizza la nostra esistenza. E ancora e sempre, la coscienza della sua finitezza fa sì che l’uomo chieda al Signore della vita non solo la forza per fare la sua volontà, ma anche la luce che rischiari l’ultimo traguardo, dando un senso alla morte, e alla prospettiva di un’esistenza oltre l’orizzonte terreno.
La preghiera è necessaria all’uomo, ma di una necessità analoga a quella che per il corpo è la fame o la sete. Il Salmo 42 paragona il desiderio spirituale dell’uomo – che, anche quando è allo stato di aspirazione inconscia, non è per questo meno tormentoso – al bramire della cerva assetata. «Come la cerva anela ai corsi d’acqua, così l’anima mia anela a te, o Dio. L’anima mia ha sete di Dio, del Dio vivente: quando verrò e vedrò il volto di Dio?».
E il Salmo 63: «O Dio, fin dall’aurora ti cerco, di te ha sete la mia anima. A te anela la mia carne come terra deserta, arida senz’acqua».
L’uomo entra in grave pericolo quando nella sua vita non vi sia nulla di equivalente alla preghiera. Occorre infatti un movimento opposto a quello della dispersione nell’esterno, all’ottusità dell’uomo sazio e indifferente, alla banalità di una vita superficiale e omologata. Oggi più che mai l’uomo ha bisogno della preghiera per raccogliere le sue energie, per rinnovarsi, per rientrare in se stesso e aprirsi a Dio, per dare sostegno e rettitudine al suo stesso servire i fratelli. Occorre sostare silenziosamente davanti alla santità di Dio, così come in culture e linguaggi ed epoche diverse essa si lascia percepire e interpellare attraverso la preghiera. Ma questo fare silenzio dentro di noi e attorno a noi per parlare a Dio esige uno sforzo e, dunque, una decisione. La preghiera, infatti, non è soltanto un’espressione del nostro intimo, ma è anche un continuo superamento di noi stessi, di ciò che in noi – inquieto disordine, illusoria autosufficienza, pigrizia, colpa – le si oppone.
Nella lunga esplorazione dei testi di preghiere dell’umanità mi hanno sempre procurato una crisi di rigetto quelli che, nel linguaggio e nei concetti, mi sono apparsi affetti da masochismo, da ostilità verso l’uomo. Vizio questo che aduggia non poche pagine di autori che, pur essendo autentici santi e mistici, hanno pagato un prezzo esorbitante a quei canoni di oratoria sacra e a una certa «teologia della tetraggine» che li spingevano a ritenere direttamente proporzionali il disprezzo della creatura e la celebrazione della maestà del Creatore. La preghiera autentica, invece, coniuga inseparabilmente, come ha ben visto Pascal, il senso della miseria dell’uomo e il senso della sua grandezza, il messaggio del Salmo 50, il Salmo dell’auto-accusa della creatura e del pentimento, e quello del Salmo 8 («O jahwh, nostro Signore, / che cosa è mai l’uomo perché te ne ricordi, / l’essere umano perché te ne curi? / Eppure l’hai fatto poco meno di un dio, / l’hai coronato di gloria e di magnificenza») in cui l’umanesimo cristiano si è sempre riconosciuto. Bisogna insomma stringere in unità le due espressioni con cui Agostino definisce dialetticamente la condizione umana: homo indigens Deo, e dunque miserabile; homo capax Dei, e dunque soggetto di un’incomparabile dignità che deve rendere preziosa ogni persona ai suoi stessi occhi. Più semplicemente l’Apocalisse, nel giro di poche frasi e di una sola immagine, esprime nel modo più forte la toccante discrezione di Dio – poiché «Dio è Amore», Agàpe (1 Gv 4, 8 e 16) – dinanzi alla libertà dell’uomo, e la libertà dell’uomo quale ragione profonda della sua grandezza: «Ecco – dice il Signore – io sto all’uscio e busso. Se uno ascolta la mia voce e apre l’uscio, io entrerò da lui» (Ap 3, 20).
Mi ha sempre colpito il rapporto singolare che hanno tra loro la poesia e la preghiera, e credo che uno dei maggiori poeti inglesi, Gerard M. Hopkins, in una lettera del 22 dicembre 1887 abbia pienamente colto nel segno scrivendo: «Le migliori preghiere sono scritte dai poeti, anche se in altre composizioni essi con il buono mescolano una forte dose di insensatezza e qualche tratto di ribellione». Si capisce allora perché alle preghiere poetiche, o «poesie oranti» – dagli inni siriaci a quelli latini del nostro Medioevo, dalle liriche di John Donne a quelle di Rilke e di tanti altri poeti dell’Ottocento e del Novecento – dovrebbe essere dedicata un’attenzione assai maggiore di quanto finora si sia fatto. Di più: si dovrebbero articolare in distinti versetti anche le preghiere in prosa, perché se ne possa meglio evidenziare il ritmo, l’immanente poeticità. Né si deve tacere che le vette più alte della preghiera sono state raggiunte da autori – si pensi a David, ad Agostino, a Tommaso d’Aquino, ad alcuni mistici mussulmani, ma anche a Kierkegaard e a Newman – che erano anche poeti, e lo erano in grado eminente.
In uno dei suoi seminari Jacques Lacan, cercando di individuare la natura profonda della poesia, perveniva a queste conclusioni: «Si ha poesia ogni volta che uno scrittore ci introduce in un mondo diverso dal nostro, dandoci la presenza di un altro […] La poesia è creazione di un soggetto che assume un nuovo ordine di relazione simbolica con il mondo. La poesia ci induce in una nuova dimensione dell’esperienza» (Le Séminaire III, Le Seuil, Paris 1981, p. 91). Ebbene, si provi a sostituire il termine «poesia» con quello di «preghiera» e ci si accorgerà che il testo acquista persino una nuova e più convincente validità. Tutto vero. Ma se dovessi scegliere risposte ancora più stringenti e profonde all’interrogativo sul perché della preghiera, è ancora ai poeti che dovrei ricorrere. In particolare a due di essi, a Borís Pasternák e a Charles Baudelaire. «E noi siamo in preda a una medesima / trepidante dedizione al mistero» scrive l’autore del Dottor Zivago (Poesie di Jurij Zivago, La notte bianca). E l’Autore dei Fiori del male: «Veramente, Signore, la miglior prova / che possiamo dare alla nostra dignità / è questo ardente singhiozzo che rimbalza, d’età in età, / per venire a infrangersi ai confini della tua eternità» (6, Les Phares).
Humanitas, n. 3 – 1992.