Dopo il 1514 Erasmo farà in Inghilterra ancora brevi puntate, ma ormai i suoi lavori lo impegnano direttamente sul continente dove sorgono le «officine» dei suoi editori. Alcuni tra i frutti migliori del suo lavoro sono colti in quel mirabile 1516. Vede allora la luce l’Istitutio principis christiani («L’educazione del principe cristiano»), dedicata a Carlo di Gand, il giovane sovrano dei Paesi Bassi, divenuto nel 1516 re di Spagna per la morte di Ferdinando d’Aragona. Il nuovo re Carlo I nel giugno del ’19 sarà eletto imperatore e si chiamerà Carlo V. A lui e agli altri sovrani che si dicono cristiani Erasmo chiede di abbandonare per sempre le sanguinose illusioni della politica di potenza, foriera d’inevitabili guerre; sostituendo ad essa, nelle intenzioni e nella prassi, l’effettiva ricerca della pace: in politica estera, mediante oneste trattative diplomatiche, per stroncare alla radice il ricorso alla guerra; in politica interna, attraverso il rispetto delle autonomie locali, unica via per tenere uniti popoli fra loro diversi.
Tra l’estate del 1516 e la primavera dell’anno seguente l’umanista mette al centro della sua riflessione politica il tema della pace nel Dulce bellum inexpertis («Dolce è la guerra per chi non ne ha fatto esperienza»). Nel 1516 l’umanista pubblica anche la Paraclesis («Esortazione allo studio della filosofia cristiana») per offrire una visione d’insieme sui fini della cultura e dell’educazione. L’avvenimento culturale e religioso per eccellenza, che segna per sempre la missione e la vita di Erasmo – ponendole al centro dell’attenzione dell’intera Europa, ma anche inevitabilmente delle più roventi polemiche – è, però, la sua edizione, in greco e in latino, del Nuovo Testamento con le annotazioni apparsa anch’essa nello stesso 1516. L’umanista olandese aveva osato riprendere dopo undici secoli il testo sacro così come Gerolamo, il più venerato tra i suoi maestri, lo aveva consegnato alla cristianità con la sua Vulgata, per rileggerlo avvalendosi dei nuovi strumenti filologici acquisiti nella conoscenza del greco. L’arditezza dell’impresa era tale da sembrare a molti blasfema, e comunque scandalosa; per fortuna di Erasmo, papa Leone X aveva dato ad essa il suo avallo, accettando la dedica del Nuovo Testamento.
Preparando Utopia
Ma quale sorpresa ha in serbo per i suoi amici ed estimatori Thomas More? Dieci anni prima aveva dato buona prova della sua cultura e del suo gusto letterario, traducendo in inglese la Vita di Giovanni Pico della Mirandola, scritta in latino dal nipote Gianfrancesco nel 1498, quattro anni dopo la morte dell’umanista, appena trentunenne, tra le braccia di Savonarola. Malgrado il titolo, The Life of John Picus, la biografia occupa appena un terzo del libro che il giovane More dedica a un’amica divenuta clarissa; il resto comprende un’antologia di brani dello stesso Pico e la trasposizione in versi delle sue massime spirituali. Poi, come sappiamo, More aveva curato la versione del greco in latino di alcune operette morali di Luciano. Ebbene, in quel magico 1516, More esce allo scoperto con un’opera che gareggia con l’erasmiano Elogio della Follia per finezza, ironia e passione riformatrice. Quel libro, incominciato nel 1515 nei Paesi Bassi, dov’era in missione, e finito l’anno seguente a Londra, sarà il suo capolavoro: ha per titolo Utopia, dal greco u-topos, «non luogo», ciò che non è in nessun luogo. Una parola che da quel momento è entrata a far parte del linguaggio universale. Il 3 settembre 1516 il manoscritto è inviato a Erasmo, con la preghiera di rivedere il testo prima che venga stampato; l’opera esce alla fine della’anno.
La materia affrontata scotta, non meno di quella dell’Elogio, e More – che nel 1513 aveva cominciato a scrivere in latino La storia di Riccardo III – sa perfettamente che nell’età moderna ci sono poche gallerie di mostri paragonabili alla serie di sovrani di cui, negli ultimi cento anni, ha beneficiato l’Inghilterra. Egli non può, quindi, non porsi un interrogativo: come Nerone nei primi anni del principati, Enrico VIII chiama a servizio dello Stato i migliori tra i sudditi e fa la figura del principe saggio e brillante, ma fino a quando durerà l’idillio? Ci sarà anche per lui, come ci fu per il figlio di Agrippina, un elemento scatenante che, a un certo punto, lo spingerà ad invertire la rotta e a trasformarsi in crudele tiranno capace di ogni arbitrio? E perché mai gli Stati e i popoli dovrebbero essere alla mercè di un potere che si pone al di sopra della legge, invece di ordinare la loro esistenza mediante istituzioni meno ingiuste e regole certe? More è consapevole di quanto sia decisivo il ruolo della politica nella sorte dei popoli, ma conosce anche quanto sia rischioso parlare di politica in un regime assolutistico. Tuttavia, assecondando una sua inclinazione, egli affronta le questioni di fondo del buon governo (de optimo reipubblicae statu), con un tipo di scritture che gli permetta meglio di criticare i mali della sua Inghilterra e, nello stesso tempo, di indicare vie nuove a un’umanità che non voglia rinunciare al sogno di una vita più degna: dopo tutto, non è forse vero che «la realité n’est que dans le rêve», come dirà Baudelaire? Ne verrà fuori uno scritto singolarissimo, che More chiama bagatela litteraria, ma che farà entrare il suo nome tra gl’immortali.
Utopia: i temi
L’Utopia è opera assai complessa, perché il suo autore fa di un racconto fantastico una vera e propria «parabola meta-storica» ricca di profondi significati. Egli indugia a descrivere la mescolanza di acuta razionalità e stravagante insensatezza, che caratterizza la società degli utopiani, perché l’elemento fabulatorio ha uno scopo ben preciso: il viaggio-finzione deve apparire a volte assai poco credibile per aprire più agevolmente il varco alla diagnosi severa dei mali della società e per inaugurare un nuovo tipo di riflessione su problemi di così grande importanza. Ciò permette a More di avere una maggiore libertà di espressione e, nello stesso tempo, di ribadire che il suo pensiero non è sic et simpliciter quello del protagonista dello scritto, il misterioso navigatore Itlodeo. La connotazione enigmatica data al racconto ha colpito in ogni tempo l’immaginazione dei lettori, ma non deve farci dimenticare che anche la prefigurazione della società futura, almeno sotto alcuni aspetti, trova la sua premessa nell’analisi critica dei mali della società inglese, come ebbe a sottolineare Erasmo nell’Epistola 999. L’autore di Utopia ha individuato le tare del mondo moderno, e la maggior parte dei problemi che ne derivano, nella concentrazione del potere politico e della ricchezza, nella spietatezza dei rapporti sociali, nel bellicismo criminale, nella frenesia del danaro «unica misura di tutte le cose», nella riduzione dell’uomo a ciò che produce.
«Quando considero con attenzione – scrive More verso la fine dell’opera – tutti questi Stati che oggi prosperano dappertutto, non riesco a scorgervi nient’altro, e Dio mi perdoni, che una sorta di congiura di ricchi (quaedam conspiratio divitum) i quali, in nome e sotto il pretesto dello Stato, badano solo ai propri interessi».
Insomma, con Utopia entra nella storia un nuovo modo di vedere le cose e una nuova prospettiva per cambiarle. Le proposte utopiane, infatti, una volta divenute oggetto di discussione, non saranno più messe a tacere. Se proviamo solo ad elencarle, ci accorgiamo che nel corso di quasi mezzo millennio esse sono divenute progetti e ideali storici a cui l’umanità migliore non può rinunciare: un regime costituzionale che escluda i diabolici opposti, tirannide e anarchia; la parità tra uomini e donne dinanzi alla legge, nel lavoro e nella cultura; una giustizia penale mite, ma efficace e realmente uguale per tutti; la tolleranza religiosa reciproca tra le diverse confessioni religiose e, più in generale, tra quanti credono in Dio e nella vita ultraterrena in cui solo può realizzarsi la perfetta equazione tra virtù e felicità; l’armonia tra la fatica del lavoro e la libera attività ricreativa, e quindi una vera e propria cultura del tempo libero, di «un tempo dedicato a piaceri onesti fondati sulla natura e la verità».
Non un modello, ma una provocazione
Non si può capire il profondo legame che unisce Erasmo e More, se si prescinde da quello che il Mesnard ha definito il loro «evangelismo politico»; ma è anche vero che, se non si legge correttamente l’Utopia, si rischia di fraintendere la personalità stessa del suo autore.
L’Utopia non va presa, infatti, come un esempio di società perfetta, la quale non esiste e non potrebbe mai esistere nella storia, che presenta ad ogni passo opzioni e risultati ambivalenti, avanzamenti e arretramenti, sviluppi perfettivi e degenerazioni, vittorie e sconfitte prima di tutto di ordine morale. Gli utopiani sono ancora dei primitivi e la loro razionalità si attiene alle regole di una morale prevalentemente edonistica e utilitaria. Essi ignorano l’orizzonte cristiano della fede, del perdono, dell’amore disinteressato; eppure, col loro buon senso, hanno saputo fare di risorse limitate l’uso migliore, costruendo una società non priva di difetti e tuttavia assai più giusta di quella edificata nei regni e nelle repubbliche dei cosiddetti Stati cristiani, in cui la politica si è trasformata in sistema di brutale dominio dell’uomo sull’uomo, in una prassi metodicamente estranea a ogni imperativo morale e religioso. La provocazione di More è dunque questa: se si vuole restituire la politica alla sua propria essenza e al valore che la specifica, se si vuole umanizzarla, occorre assolutamente acquisire la consapevolezza critica degli esiti disastrosi di un potere che, scisso dalla coscienza morale, si ponga come fine a se stesso.
Nel 1532, cinque anni dopo la morte dell’autore, appariva Il Principe di Machiavelli, benché terminato nel dicembre 1513; ma Erasmo nell’Institutio principis christiani e More nell’Utopia, rispettivamente all’inizio e al termine del 1516, ne avevano stilato in anticipo la confutazione, rivendicando la connessione assolutamente necessaria tra morale e politica. Ancora una volta i due amici si trovano a combattere la stessa battaglia, naturalmente ciascuno a modo suo e secondo il suo genio, ma nella comune convinzione che all’opera insostituibile di risveglio delle coscienze, alla rinascita culturale e religiosa, debba essere affiancata una vera e propria riforma umanistica della politica.
Riletture
Mi è stato chiesto se le ideologie marxiste si sono appropriate del pensiero di More, considerando che l’organizzazione sociale degli utopiani era rigorosamente comunista. Le considerazioni prima svolte situano la questione in un quadro d’insieme da cui non si può prescindere; è opportuno, però, ricordare che secondo il giudizio di uno dei maestri del socialismo europeo, Karl Kautsky, More ha sostenuto nell’Utopia la tesi della comunione dei beni e, dunque, l’abolizione della proprietà privata. Ma più che sul collettivismo, che è degli Utopiani ma forse non dell’inventore di Utopia, il Kautsky insiste soprattutto nel presentare More come «il politico dell’uguaglianza e dell’equità, l’uomo di genio che si rese conto dei problemi della propria epoca prima ancora che sorgessero le condizioni atte a risolverli».
In realtà quella piccola, grande opera di More «ha molti strati», com’ebbe a scrivere giustamente Luigi Firpo, e ogni interpretazione riduttiva ne impedisce non soltanto la comprensione, ma anche l’approccio.
In realtà chi ci offre la chiave di lettura del cosiddetto comunismo di Utopia è anche qui Erasmo in un passo della Lettera 999. Erasmo scrive che More, volendo mettere alla prova la sottigliezza del suo ingegno e la sua capacità dialettica, difendeva tesi che sono proposizioni volutamente espresse in modo estremo e provocatorio. Gli adoxos, gli argomenti fuori dal comune, che More sceglie come test sono quelli che più colpiscono i lettori dell’opera platonica: la proibizione per le sole classi superiori di ogni proprietà e quella, ancor più decisa, di una vita familiare. Occorre quindi chiedersi quali verità profonde Platone voleva affermare per loro tramite. Il discepolo di Socrate voleva tener lontano nel modo più radicale dalla politica il potere economico-finanziario ed eliminare la confusione tra interesse pubblico e interessi privati, o familiari.
Ben diverso il discorso riguardante la configurazione mitologica che Platone dette al suo Stato ideale: essa non è solo cosa del tutto secondaria e discutibile, ma spesso contraddice apertamente alla vigorosa affermazione di quei valori che nella Repubblica e in altre opere sono riconosciuti come il fondamento di ogni giusta comunità politica. I due umanisti cristiani sanno che lo spontaneo mettere in comune i propri beni nelle prime comunità della Chiesa nascente non può tradursi in obbligo giuridico; ma essi pensano che da quella esperienza eccezionale, che è religiosa e non politica, giunga un appello a cercare le vie della fratellanza. Nel primo degli Adagi Erasmo giudica negativamente il modo in cui «i cristiani lapidano Platone» invece di sforzarsi di cogliere quello che c’è di profondo nei suoi paradossi.
La Nuova Secondaria, anno XVII, n.9, 15 maggio 2000.