Marxismo, religione, potere ne “I nuovi filosofi”

C’è un tema che percorre, in vario modo, la cultura europea del ‘900 e che si esprime nell’idea di “fine epoca moderna” o, più generalmente, di “crisi di civiltà”. Uomini di cultura e filosofi tra i più acuti e appassionati hanno formulato una diagnosi, secondo cui nel nostro tempo un’epoca intera, quella moderna, mostra i segni della sua consumazione, giunge ad un suo definitivo rendiconto. Autori della cultura cattolica come Maritain e Mounier (e con essi Berdjaev) o come Guardini e De Lubac hanno ampiamente mostrato i lineamenti di un umanesimo moderno e ateo che nel XX secolo rivela tutta la sua intima drammaticità e la sua storica tragicità. Ma anche “laici” della portata di un Husserl uno Scheler, un Heidegger o dei caposcuola di Francoforte hanno avvertito con forza e lucidità impressionanti la “crisi” in cui sembra essere entrato irreversibilmente l’Occidente, in correlazione con quei fenomeni di “eclissi della ragione” e di “oblio dell’essere” che segnano la storia e gli esiti della filosofia contemporanea.

Credo che l’improvvisa voce dei “nuovi filosofi” [2] trovi collocazione nel contesto culturale europeo in quanto rappresenta un’ulteriore forma di coscienza critica della condizione di crisi profonda cui è giunta l’età moderna.

In tale prospettiva, a mio avviso, si può trarre dalla esaltazione o dalla polemica, comunque riduttive, il contributo di questi filosofi, la cui riflessione avviene, globalmente, all’interno della categoria del “pessimismo” antropologico, quale coscienza critica del nostro tempo. Su questa linea si può cogliere il filo conduttore che unisce le considerazioni di Lévy e Glucksmann (con altri) sul marxismo, di Lardreau, Jambet e Nemo sul potere e di Clavel sull’esperienza religiosa.

La critica al marxismo

In realtà – si dice – i “nuovi filosofi” sono vecchi nelle loro critiche al marxismo, perché strali simili ai loro, contro l’economia o la filosofia politica marxista, sono stati scoccati da tempo e da varie provenienze. Probabilmente ciò è vero. Ma questo non toglie valore alle loro posizioni, soprattutto se si fa attenzione al punto di forza della loro critica; essa non consiste nel porre in rilievo le contraddizioni interne delle singole dottrine del marxismo, ma piuttosto nel riscoprire in modo autonomo qualcosa che la migliore critica di parte cattolica da tempo aveva evidenziato, cioè il rapporto profondo e determinante del marxismo con la cultura moderna e, in particolare, con certe tare della modernità.

Così, per Lévy, il marxismo va considerato anzitutto come una versione di quell'”ottimismo” che costituisce il contrassegno teorico dell’epoca moderna; non una versione fra le tante, “ma la sua più grave, più grossolana caricatura, la somma delle sue imposture e l’enciclopedia delle sue menzogne. Esso rientra interamente in questo semplice postulato: la Storia così com’è e come si svolge, nelle sue vie più radiose e nei suoi più tragici errori, è il luogo dei bene, la levatrice del meglio, la strada sicura e benedetta Gella rivoluzione obbligatoria» (da La barbarie dal volto umano). Su che cosa si basa questo ottimismo fondamentale? Sulla convinzione dell’intrinseca razionalità di una storia che l’uomo può direttamente amministrare, del cui potere l’uomo dispone. In questo senso, il marxismo è davvero l’erede più coerente e completo della modernità. Come scrive Glucksmann: “se è una scienza, bisogna dire che il marxismo è la scienza dell’autorità, la scienza dell’insieme dei metodi, idee, comportamenti che permettono di conquistare, conservare e consolidare il potere nel XX secolo” (da La cuoca e il mangia-uomini).

Nel marxismo, insomma, l’essere scienza della liberazione coincide con l’essere la più raffinata scienza del dominio e la più scaltrita tecnica del potere. Del resto, a questa conclusione si giunge seguendo dall’interno le stesse indicazioni dei padri del marxismo. Secondo il detto di Lenin, le tre fonti e le tre parti del marxismo sono la scienza economica inglese, la filosofia tedesca e la politica francese: dove è riposto il principio unitario, il fattore omogeneizzante – che fa del marxismo “un blocco d’acciaio fuso tutto d’un pezzo”, come si esprime ancora Lenin – se non nell’unico obiettivo d’essere la scienza del potere? E questo non è confermato dal fatto che il marxismo realizzato si è sempre accompagnato finora ad una concezione e ad una pratica dello Stato come esauriente depositario del sapere e del potere? Inoltre, non ne conferma l’identità di scienza della storia e del dominio il fatto che il marxismo, nella sua dottrina e nella sua prassi, presuppone la figura degli “scienziati della rivoluzione”, che devono dirigere gli altri?

Secondo l’espressione di Clavel, il marxismo si rivela come espressione di quella “teocrazia dello Stato” che è maturata nell’età moderna, a partire dalla filosofia razionalista fino a Hegel, passando attraverso la cultura illuminista e idealista. Così, più radicalmente, il marxismo è erede di quel “prometeismo moderno, che non muta natura per il fatto di essere attribuito agli oppressi” (Clavel).

Per tutto questo il marxismo, agli occhi della critica dei “nuovi filosofi”, risulta essere la punta estrema di un secolare processo culturale e politico centrato sulla idea del dominio. In termini più raffinati dovremmo dire con Maritain che il marxismo è, in profondità, risultato ultimo di quel processo moderno per cui all’idea di verità si è progressivamente sostituita quella di “efficacia”; oppure, seguendo i Francofortesi, dovremmo parlare del marxismo come di un prodotto complesso di quella “ragione strumentale” che costituisce l’inglobante delle varie e contrastanti forme della cultura moderna.

La critica dell’idea di potere

La direttrice della critica al marxismo ci rende comprensibile il fatto che proprio nel discorso sulla realtà del potere si dispiega la maggior originalità (e si incontrano anche le maggiori perplessità) della filosofia dei “nuovi”.

Si potrebbe dire che i “nuovi filosofi” scavano in profondità nel detto baconiano che ha inaugurato l’età moderna: “sapere è potere”, trovando in esso un senso fondamentale, intimo e, per così dire, quotidiano che è loro merito aver drammaticamente posto in risalto.

Il potere è realtà connessa col sapere, con ogni tipo di sapere, coi sapere in quanto tale. Dunque non solo col sapere scientifico o con quello etico-politico, ma col sapere in quanto espressione della umana coscienza e quindi come forma del rapporto col mondo e forma dei nostri rapporti: linguaggio, gestualità, simbologia sociale.

L’idea si rifà anzitutto al secondo Foucault, che, criticando il discorso marcusiano sulla repressione e l’autoritarismo (di sessantottesca memoria), nota come la realtà del potere non sia riconducibile ai problemi delle strutture, delle istituzioni e delle forme politiche, perché il potere non si applica agli individui, ma “transita” attraverso gli uomini. Questo sta a significare – ed è la prima conseguenza che i “nuovi filosofi” traggono – che la realtà del potere ha a che fare con la struttura stessa del soggetto umano.

Non certi rapporti dunque, ma il rapporto umano come tale è la sede e il luogo genetico del potere. Con l’aiuto della psicanalisi lacaniana il discorso è ricondotto fino allo strutturarsi della relazione umana, a livello della relazione parentale, ove da sempre il rapporto ha l’ambiguità del riconoscimento-assoggettamento. A partire di qui il rapportarsi umano è connotato da questa ambiguità: esso è costituito di una sostanza affettiva che rende il riconoscimento che proviene dall’altro ciò di cui si vive e che rende il desiderio di farsi riconoscere dall’altro il desiderio di ogni uomo. Tutte le forme di rapporto umano, tutti i modi dello scambio sono veicoli di assoggettamento, strumenti di dominio. Il potere non ha bisogno della forza e della coercizione, ma del consenso; la sua opera non è la violenta imposizione, ma l'”opera del potere consiste (piuttosto) nel farsi amare” (Legendre), cioè nel far funzionare a proprio favore e a livello di massa la logica del “desiderio” umano.

Qui si radica il pessimismo dei “nuovi filosofi”, la cui antropologia considera il dominio la forma normale e inevitabile dei rapporti interpersonali e sociali. A questo punto si stabilisce anche il loro categorico rifiuto di qualunque forma di storicismo, e più a fondo, dell’idea illuministica di progresso, in forza della quale si attende dallo sviluppo temporale, dall’evoluzione storica o dalla rivoluzione sociale la liberazione dal dominio; rifiuto motivato dalla convinzione che ogni rivolgimento di questo tipo non può essere altro che il dar corso ad una nuova modalità dei potere antico. Ogni illuminismo e ogni storicismo lottano sempre contro questo padrone, non contro il padrone.

Vale la pena osservare di sfuggita che qui si fonda anche l’avversione che, generalmente, la nostra cultura, illuministica e storicista ha mostrato per le idee dei “nuovi filosofi”…

Ora, l’età moderna è caratterizzata da sistemi culturali che hanno sempre teso a coprire, a mimetizzare, ad occultare quella radice dei potere, quella fonte antropologica del dominio. Proprio per questo la cultura moderna ha saputo suscitare forme e strumenti di dominio mai viste ed è stata incapace di discutere, di criticare, di frenare la realtà del potere come mai nella storia dell’uomo. Questo intendono dire i “nuovi filosofi”, quando parlano delle filosofie dell’età moderna come di “concezioni politiche del mondo” (Jambet), cioè di universi culturali che hanno preteso variamente di amministrare il potere, ma che non sono stati in grado di metterlo in discussione e cosi hanno partorito un mondo o molteplici mondi costruiti col potere e per il potere.

Una forma fondamentale di questa ideologia “politica” è comune alle molte filosofie moderne: precisamente la concezione del mondo fondata sull’idea della “natura buona” ultima dell’uomo, cui bisogna far ricorso, da liberare per mettere ordine nella storia e nella società. Si tratti della natura umana occultata o stravolta della civiltà (Rousseau) oppure di quella divisa dalla diversa capacità di possedere (Locke), oppure ancora di quella alienata dalle strutture economiche (Marx), comunque sia c’è una sanità ultima cui rifarsi e da far agire nella storia, affinché, usando del potere di cui dispone, possa sanare, ordinare o rivoluzionare l’assetto del mondo, l’attuale distribuzione del potere nella storia.

Per ciò l’Occidente moderno è vissuto di un’illusione ed ha prodotto tecniche di potere sempre più scaltre e terribili: si, è illuso che facendo leva su uno degli attributi del potere si potesse renderlo buono e utile ed ha prodotto sistemi di vita retti dalla accettazione del dominio come norma dell’esistenza.

Dal punto di vista della cultura cristiana Clavel approfondisce l’analisi, indicando nel tentativo prometeico dell’uomo moderno la radice della sua alienazione e, in definitiva, della sua violenta debolezza. L’abbandono della matrice cristiana ha provocato una riduzione nella statura umana dell’Occidente: da “Uomo” costituito tale da Cristo è divenuto “uomo” che pretende farsi da sé solo. E ciò è avvenuto in un processo scandito in tre fondamentali fasi di trasformazione: il Rinascimento, caratterizzato dalla eliminazione (culturale) del senso del peccato e da una correlativa divinizzazione dei mondo, per cui si stabiliva la continuità dell’uomo con Dio, ma al di fuori dell’avvenimento cristiano; il razionalismo in cui, eliminata la rivelazione come fonte di cultura, l’uomo punta sull’autocomprensione, per risolvere esaurientemente ogni contenuto dell’esperienza, a cominciare da Dio stesso, che viene riassorbito nella costruzione metafisica umana; l’età contemporanea infine, che raccoglie i frutti del processo e assiste o promuove l’eliminazione dell’uomo, ridotto a contenuto di analisi scientifiche e a perno di azione socio-politica. Questo processo involge globalmente l’età moderna: esso riguarda tanto la borghesia, quanto il proletariato, perché riguarda l’uomo come tale ed ha plasmato di sé l’immagine del nostro mondo.

La liberazione è possibile?

Che la liberazione sia possibile, nonostante il radicale pessimismo antropologico e storico dei “nuovi filosofi”, è la scommessa dell'”Angelo”, la figura mitica della purificazione possibile.

“Se tutto il mondo è sotto il segno del dominio, solo qualcosa che non appartenga a questo mondo può rompere la catena delle signorie”, così argomentano Jambet e Larudreau autori di L’Ange. Infatti, essi proseguono, “criticare esige un altro mondo, cui appellarsi, come araldo, come profeta, un punto di appoggio di assoluta esteriorità”. Solo a queste condizioni è possibile qualcosa che non sia una “rivoluzione ideologica”, ma una “rivoluzione culturale”, cioè un fatto di autentico, sostanziale cambiamento.

Secondo gli autori di L’Ange questa possibilità è presente nella storia occidentale, in una linea culturale ed esperienziale che di epoca in epoca si è riproposta, anche se, in ultima analisi, sempre soccombente: si tratta di quella modalità di vita e di cultura che raccoglie come esperienze storiche il manicheismo, il platonismo (in senso dualista), lo gnosticismo, il monachesimo orientale primitivo, alcune forme di eresie medievali (albigesi, catari, patarini, ecc.) e che, in forma moderna “laicizzata”, si può ritrovare nella più profonda ispirazione della filosofia kantiana, in quanto modo di un misticismo dualista – e si pensi in questo senso alle interpretazioni del kantismo di Schopenhauer, di Hartmann, di Renouvier, di Martinetti…

Paradigmatici certamente restano Platone ed il platonismo in quanto riconducibili ad una visione dualista dell’uomo e della storia; il Platone mistico contrapposto a quello politico, il Platone in cui è centrale il tema della metabolé, della conversione come trasformazione integrale del nostro essere, come rottura totale con l’ordine della natura e come apertura ad una salvezza trascendente che non può esser positivamente conosciuta e detta. Insomma il Platone padre della “teologia negativa”, che sotto questo profilo continua in Plotino e che, da un punto di vista antropologico, è ripreso ed esaltato nell’età contemporanea da Schopenhauer. Per questi “nuovi filosofi” infatti, il problema fondamentale è il medesimo di Schopenhauer: la liberazione è liberazione dalla stessa volontà egoistica, è spogliazione della personalità e della stia individualizzazione e, in questo senso, è rinuncia al “corpo”.

E ciò è detto coerentemente, perché, per il pessimismo dei “nuovi filosofi”, la liberazione può essere posta solo al livello della disgiunzione dell’individualità dal suo desiderio. Con le parole del poeta Artaud si deve dire che “l’uomo è malato perché è mal costruito” e perciò è necessario cambiare l’uomo nel suo desiderio: “il corpo è da rifare”. “Il bisogno fondamentale, dunque, conclude Jambet – è rifare gli uomini a nuovo, non convincere nuovamente uomini vecchi”.

Dove conclude questa via ascetica? E’ possibile percorrerla? Può sostenere il peso della storia questo “pessimismo attivo” nei confronti di ogni forma di dominio? Il dualismo antropologico ed il rifiuto di ogni idea di potere, del potere come tale non rischiano di far ricadere il purismo dei “nuovi filosofi” verso il perfettismo da loro denunciato nella cultura moderna?

Sono tutte domande che credo sia legittimo, anzi doveroso, porre a questa filosofia, non per diminuirne la portata, ma, al contrario, per cercare di salvarne quel l’intenzione radicale che non va persa, perché autentica. Nel tempo della nostra crisi, in cui non sono importanti solo delle risposte vere, ma anche delle domande giuste, continuano a risuonare le parole dell’annuncio di liberazione che rispondono all’interrogativo radicale: “chi mi libererà da questo corpo di morte?”. Clavel ha mantenuto aperto nel gruppo il dialogo con l’annuncio della liberazione cristiana, dove è garantito all’uomo ciò che né la scienza né la filosofia possono assicurargli, anzi ormai gli rifiutano: la sua esistenza.

Clavel ha vivo il senso della fede cristiana che libera, da ogni condizionamento culturale e da ogni orizzonte storico (proprio come si vorrebbe che l'”Angelo” fosse capace di fare). Le parole che annunciano la fede, scrive Clavel “non hanno da elemosinare un posto in una data configurazione culturale. Il compito non è quello di inserire il cristianesimo in nuovi sistemi teologici, ma di comprendere che laddove una parola è suscitata dalla fede, è sempre da un luogo diverso rispetto alla cultura e alla società dei tempo che essa sorge”.

E precisamente questa alterità della fede il contrassegno della liberazione possibile che essa è. Questo è l'”in più” che Clavel continuamente ricorda. Anche se, affermato questo, permane la necessità di reperire il punto di incontro tra l’avvenimento cristiano e la condizione umana, affinché all’interno della prospettiva cristiana non si riproduca, come fideismo, una logica dualista.

 

NOTA: testo, non rivisto dal’Autore, della conferenza tenuta a Brescia il 9.10.1979 su invito della Cooperativa Cattolico-democratica di Cultura.

[2] E. BOTTO, F. BOTTURI, F. LENOCI, In rivolta contro i maestri-padroni. i “nouveaux philosophes”, Vita e Pensiero, Milano 1978, pp. 242.