Corriere della Sera, 23 dicembre 2014
Per chi abbia conosciuto Matteo Perrini – in uno dei suoi impegni intellettuali, fossero la curatela di un testo di Seneca o Erasmo, la preparazione di una conferenza della Cooperativa cattolico-democratica di cultura (Ccdc), o il colloquio con un suo ex studente – costante era l’impressione che la sua fosse una vocazione, un compito cui non poteva sottrarsi. Una vocazione che oscillava tra il dovere morale e la tensione religiosa: un confine in lui tenuto fermo, per non cedere a tentazioni totalizzanti, con il principio della laicità. Tenere separate le sfere, dialogando con chi è lontano, intellettualmente, religiosamente, politicamente: la mèta era scoprire aspetti dell’umano che fossero elementi di riconoscimento comune. Fare ricerca, per Matteo Perrini, era porsi sui sentieri della cultura, senza precludersi la possibilità di esser smentito scoprendo verità inattese là dove meno le cercavi. Uno stile che troviamo nei suoi libri, ma soprattutto nella rubrica Detti e contraddetti tenuta per il Giornale di Brescia per due decenni, dal 1988 al 2007. Una selezione, fatta da lui stesso, di questa rubrica è ora apparsa in una edizione strenna della CCDC: “Detti e contraddetti 1988-1992” (pp. 512, euro 10, in vendita preso la Libreria della Cattolica). Se il rimando immediato del titolo è a una raccolta adelphiana di Karl Kraus, l’origine profonda è di ascendenza classica: la dialettica dei dialoghi socratici di Platone. Una tecnica, attraverso domande e risposte, per mettere alla prova opinioni, sentenze, ideologie. Di qui la ricchezza degli articoli. Partendo da un verso di Anna Achmàtova o di Mario Luzi, passando per un brano di Musil o di Bergson, a essere investigate solo le ideologie che occupano lo spazio pubblico. Una investigazione che trasforma questo libro anche in un diario della crisi della prima Repubblica. Sono gli anni della crisi della DC e del sistema dei partiti. Nelle pagine su Andreotti, Forlani e il declino della cultura politica dei cattolici italiani, Perrini coglieva, con diagnosi insieme sgomenta e disincantata, che un ethos pubblico s’era dissolto: un ethos fatto di disinteresse e passione per la cosa pubblica. Accanto a questo registro nazionale, c’è l’attenzione al dissolversi del marxismo e al ritorno del personalismo teologico e filosofico come orizzonte per ripensare la stessa politica. Per Matteo Perrini ci si trovava di fronte a un paradosso: la politica dei cattolici diveniva irrilevante, quando proprio la loro migliore tradizione filosofica ritornava attuale. Come se ci si dovesse preparare a una lunga traversata di un deserto politico. Con che stella polare? Il dialogo: cercare tracce dell’umano anche là dove non c’è coappartenenza confessionale, ma strenua ricerca di un possibile senso dell’esistenza. Forse, non è improprio delineare il profilo intellettuale di Perrini partendo dal suo carattere: un cercatore di tracce. Tracce dei molti modi in cui si declina la parola “umano”.