Perché gli uomini scrivono poesie?
Per raccogliere tutte le possibilità che restano.
Harold Bloom
Commentando con l’amico poeta Franco Loi la poesia di Patrizia Cavalli che si conclude con la constatazione: «certo sì / le mie poesie / non cambieranno il mondo», messa a sigillo dell’antologia di poesia civile a cura di Vanni Pierini dal titolo Foglie della memoria. L’Italia del Novecento nella Poesia del Novecento (Ediesse, 2006), ci è sorta spontanea una riflessione sulla reale funzione della poesia: serve? – ci chiedevamo – e a cosa? Ci siamo posti questa domanda proprio nel momento in cui avevamo tra le mani quella poderosa antologia di poesie che tratta temi forti come il Fascismo e la guerra, il Sessantotto e l’assassinio di Moro, le lotte sindacali e la fame… L’amico poeta concludeva che è vero, la poesia non cambia il mondo, ma perché non viene letta abbastanza.
Alla notizia della morte di Matteo Perrini quel sentimento di inutilità che talora pare avvolgere la poesia mi si è corretto: il ricordo della sua persona mi ha fatto riflettere sul fatto che, forse, la poesia non serve perché non viene letta, ma è proprio inutile se non viene vissuta. Sì, perché Perrini non solo ha operato su vari fronti culturali e sociali, ma ha abitato «poeticamente», secondo quanto dice un verso di Hölderlin: quel “poeticamente abita l’uomo” sul quale Heidegger ha scritto un famoso saggio. Perrini, che conosceva e praticava le due cime della montagna costituite dalla filosofia e dalla poesia, ha sempre considerato quest’ultima come un potente strumento per interpretare la vita e per celebrarla.
Che la poesia facesse parte integrante della sua vita lo ha certamente saputo chiunque ha avuto il piacere di conoscerlo personalmente. Lo ha intuito benissimo Antonio Sabatucci il quale, in occasione della sua morte, così lo ha descritto: «Aveva lo sguardo azzurro dei poeti. Forse non aveva mai scritto un verso ma la poesia l’aveva dentro, con quella guardava le cose e, soprattutto, gli uomini, fossero semplici amici o grandi filosofi».
Matteo Perrini è stato veramente convinto che servisse davvero la poesia, era sicuro che avesse un ruolo importante nella vita dei suoi lettori ed ha avuto con essa un legame profondo, perché l’ha praticata per raggiungere il proprio io più vero, Dio e gli altri. È stato consapevole che la poesia è uno validissimo mezzo «per raccogliere tutte le possibilità che restano». E tra le «possibilità» che ha sperimentato egli stesso, ci sono anche quelle di rendere dicibili le esperienze dell’anima, di trasmettere la propria testimonianza religiosa e di diffondere quel messaggio che, se vissuto, potrebbe davvero cambiare non solo il cuore di ognuno, ma l’intero corso della storia.
Questa sua fiducia nel ruolo della poesia ha trovato conferma nel nucleo consistente di poesie trovate alla morte del padre da Filippo Perrini. Scritte su quaderni e foglietti conservati in un cassetto o sparse, sono tutte pressoché inedite, salvo alcune uscite su Detti e contraddetti, la rubrica settimanale che l’autore ha curato per anni per il Giornale di Brescia.
Aveva intuito Matteo Perrini che il figlio avrebbe deciso di condividere la sua scoperta con altri lettori? Ebbene, Filippo lo ha fatto presentandole ad alcuni amici e chiedendomi di presentare ai lettori alcune poesie tra le più rappresentative della vena poetica paterna. Ed ha deciso bene, perché l’esperienza poetica non costituisce solo il filo d’Arianna per scendere in se stessi e portare alla luce della parola scritta l’esperienza interiore e la propria visione del mondo, ma apre felicemente ad altri infiniti mondi e chiede di essere condivisa.
Del nucleo iniziale di circa 170 di vario valore, sono stati scelti alcuni canti del cuore, esortazioni e preghiere per chiedere e per adorare, dialoghi in cui gli interlocutori (il tu e il Tu) non sono sempre identificabili. In queste poesie si può ritrovare la pienezza della persona umana del loro autore; si possono ripercorrere alcune tappe della sua esperienza spirituale e sociale; si può scoprire il suo amore per la natura, si può conoscere il suo amore per la moglie e per i nipoti, ed anche la sua calda sensualità, svelata insieme alla casta ritrosia della sposa che traspare nelle parole dell’intimità, nei canti d’amore e di desiderio.
Questi quaderni e fogli sparsi costituiscono un diario in versi che accoglie anche le parole infuocate dell’intimità e del desiderio coniugale. Per esprimere lo slancio della sua passione amorosa Matteo Perrini ha usato parole come «uragano… vulcani… tempesta… delirio… ora sublime… intima lama che mi squarcia il petto… giubilo segreto… estasi» che dicono la potente passione per la sposa che lo ha sempre animato. Nella lettura si intravede la trama di esuberante amore coniugale, in cui vibra un sentimento quotidiano alto, che non viene mai idealizzato, ma che nella sua autenticità lascia intuire le richieste e gli assensi all’unione intima e anche la protesta per i dinieghi con i quali la sposa si sottrae, insieme alla testimonianza delle inevitabili dissonanze, come un «litigio» che non può scalfire la verità dell’amore, ma ne rivela la solida profondità.
I temi praticati dall’inizio, negli anni ’60, fino alla fine della sua vita possono essere raccolti in un unico grande tema: l’amore per tutte le creature e per il loro Creatore. Il linguaggio può essere talvolta quello mutuato dalla liturgia; si veda il titolo di una breve poesia scritta quando era commissario agli esami di maturità a Taranto, nell’estate 1966: Se in te m’accogli. Il titolo deriva da un canto liturgico ed indica Dio come interlocutore. I quattro versi di questa poesia religiosa, in una nuova stesura, si trovano nella parte finale della poesia successiva. Nella nuova composizione (Non voglio ) i versi risultano mutati nel significato perché è mutato l’interlocutore: nella prima il Tu è Dio, in quella successiva, scritta a Taranto nello stesso anno, il tu è l’amata sposa lontana alla quale questo “canto” tarantino è stato spedito, scritto sul retro di una cartolina. La lettura in sequenza dei due testi svela che il ragionar d’amore umano trova il suo compimento nell’amore divino che lo alimenta. Ma è vero anche il contrario, quando è l’amore coniugale ad essere vissuto come il compimento dell’amore divino; così in La mia ora sublime, uno slancio poetico dedicato alla moglie.
Il cuore, termine che torna ripetutamente, canta sia quando l’«estasi» viene accesa dall’amata che dall’Amato. Il cuore è il luogo in cui si manifesta il desiderio di Dio e la gioia piena di gratitudine per essere partecipe della creazione; «preda / di un furore simile alla gioia» il cuore alza il suo canto, e talvolta non si distingue se l’oggetto del «desiderio» sia umano o divino.
È stato fedele a se stesso l’autore di queste poesie, scritte in un arco di più di quarant’anni: infatti, esse non conoscono un’evoluzione nello stile, anche se l’autore, intellettuale e uomo di passione, nella sua vena lirica ha sperimentato generi diversi. Tra inni alla natura ed al Signore, aforismi ed epigrammi, si trovano anche alcuni haiku che si rifanno alla tradizione giapponese, come Istantanea, del 1988, ispirato dal famosissimo haiku di Matsuo Bashô sulla rana.
Nel caleidoscopio dei medesimi temi che ritornano, essi vengono rinnovati dalle istanze personali sorte dalle occasioni sempre nuove della vita e dalla sua continua ricerca della verità evangelica. Oltre all’amore coniugale e a quello per il Signore, temi privilegiati sono il tempo e l’Eterno, la Verità, la Luce e la Bellezza increate e la loro manifestazione nella natura e negli esseri umani, insieme all’impegno civile, con l’inclusione di alcuni temi nuovi portati dalla vita, come quello dei nipoti e del suo amore per loro.
«In ogni epoca ci sono nuove forme di bellezza. Talora nelle nostre valutazioni ci dimentichiamo che non esistono canoni fissi del bello e la perenne novità della poesia, come di qualsiasi arte, trova in ogni epoca – e dunque anche nella nostra – nuove vie per offrire agli uomini il suo dono. Il Bello, quello naturale così come quello artistico, non è solo ciò che piace. Oltre ad essere una festa per gli occhi, esso nutre lo spirito e lo illumina, pone tutto l’uomo nella condizione di sentire il mondo come luogo di segrete corrispondenze e di irradiamento del divino.» Queste parole, scritte per Detti e contraddetti, introducono ad un tema alto cantato da Matteo Perrini: quello inerente alle diverse manifestazioni della bellezza che hanno continuato a sorprenderlo. «Il bello mi sorprende in ogni guisa», così confessava in Alla soglia dei sessant’anni, una poesia in cui, oltre alla bellezza naturale, ammirata nel «volo di una rondine», c’è il sentimento della bellezza che l’autore, ancorato alla propria vocazione di promotore di giustizia sociale e di crescita umana, ha sperimentato nella lotta intrapresa «coi giovani» e nella speranza condivisa con loro e per loro.
Nei suoi versi appassionati esplode la gioiosa certezza dell’armonia del creato, che è sempre un riverbero dell’armonia sovrasensibile. Con la penna intinta nell’acquasanta, Perrini ha descritto la santità della natura. Tutto il visibile è sacro sotto i suoi occhi pieni di stupore, come in Plenilunio, dove ha contemplato una elevazione.
La contemplazione conduce lo sguardo e il pensiero del credente oltre la manifestazione della bellezza nella natura e negli esseri umani in cui si incarna, per tracimare verso l’«eterna Bellezza» increata (Per lume non voglio che le stelle). Nel silenzio e nella solitudine la Bellezza si rivela nella visione delle sfere celesti che rivelano il loro Artefice. In alcune poesie lo splendore della natura viene avvertito come «presentimento» dell’Infinito che irrompe nell’anima del poeta ispirato, che è il vero cantore dell’Infinito (Primavera in Puglia; Alla soglia dei sessant’anni; Immensità).
In una Invocazione Perrini canta la Bellezza che lo ha lasciato attonito, con «Il fiato sospeso» alle labbra divine: è la bellezza mozzafiato della Parola accolta in una vita che si lascia trasformare. Nel rapporto tra l’anima e la Bellezza, in alcune poesie che oscillano tra autobiografia interiore e preghiera, anche Perrini celebra quella «bellezza così antica e così nuova» già cantata con questa espressione felice da Agostino. Ed è con citazioni sante (di autori spirituali, dei Padri della Chiesa e del Vangelo), fuse in invocazioni personali che cantano l’evento incarnato, che viene gettato un ponte tra il visibile e l’invisibile.
Le poesie riflettono la cultura spirituale dell’autore, quella del cuore, ed anche quella arricchita dagli studi che non sono mai stati interrotti. In una poesia dal titolo Nei deserti della prossimità, Perrini ha indicato alcuni capisaldi della sua genealogia interiore e culturale, dichiarandosi «Figlio di Abramo e Mosè / di Platone, Agostino e Pascal». In un’altra, intitolata significativamente L’incontro che decide, ad essere riconosciuto decisivo è stato l’incontro con Socrate, il «Profeta laico» del Signore incontrato sui banchi di scuola.
Anche la luce, classico simbolo della divinità, come la bellezza, viene colta nella sua manifestazione terrena e in quella trascendente. In Notturno di primavera domina il lucore dei fiori del mandorlo in piena notte: è la luce della bellezza creata in cui riverbera la luce superna, fonte d’amore e della più alta ispirazione. In Luce verrà, viene cantata la provvidenziale luce dello Spirito portatrice di consolazione nei momenti bui. Luce di Dio è la sua Parola da ascoltare e da pregare. Dio è sorgente di luce in poesie dove il desiderio di Dio viene cantato con le metafore bibliche della fame e della sete (Increata Luce; Non so).
La luce divina viene evocata anche con le immagini della luce e della lampada mutuate dalla versione latina del versetto 29 del Salmo 18 (17): Illuminabis lucernam meam. Nell’interpretazione cristiana, esclamando: «Tu, Signore, sei luce alla mia lampada», il Salmista allude alla realtà vittoriosa della risurrezione. Questa poesia ha la sua prima radice nell’affermazione gioiosa con la quale Paolo ha spiegato la vittoria di Cristo sulla morte: «La morte è stata ingoiata per la vittoria. Dov’è, o morte, la tua vittoria? Dov’è, o morte, il tuo pungiglione? » (1 Cor 15, 54-55).
Una ripresa della meditazione del Salmo 18 (17) si trova anche in Quando, una composizione di tre versi dove l’«arco», simbolo militare nel versetto 35, è diventato lo strumento per prendere di mira il Dio dell’amore cristiano con l’aiuto del suo stesso intervento: «Quando, Signore Dio, / drizzasti al tuo bersaglio / l’arco mio?» Per Matteo Perrini questo è un riconoscimento fondamentale: è il Signore stesso a guidare e a promuovere l’amore umano verso la propria Persona. È questa una certezza ed una consolazione così grande da essere espressa più volte nei versi ma, come vedremo, anche nell’opera in prosa. Nel suo Inventario di ciò che oltrepassa la soglia, attinge «l’eco d’una speranza» dalla bellezza della natura e da quella dell’arte, «colori, note e sillabe sublimi» che si offrono «senza parole», ma soprattutto dalla Parola rivelata nel Nuovo Testamento, luogo del «disvelamento d’ogni vero», e cioè la rivelazione sconvolgente dell’amore sovrabbondante di Dio: l’«infinito Amore che ci amò per primo». Sono queste le parole di un messaggio universale con il quale viene designata la gratuità dell’agape divina, riconosciuta qui in alcune sue manifestazioni. Il dono è così vasto da impegnare il cristiano a tradurre questa grande prova di amore totale e disinteressato nella sua vita, nell’impegno sociale, nel servizio dei fratelli, come raccomanda Giovanni nella sua prima Lettera citata nei versi: «Noi amiamo, perché egli ci ha amato per primo. Chi ama Dio, ami anche suo fratello» (1 Gv 4, 19. 21 b). Matteo Perrini lo aveva ripreso questo principio fondamentale del cristianesimo citandolo nella postfazione all’A Diogneto, lo scritto del secondo secolo che ha tradotto e ampiamente commentato, dove ha così riaffermato questo principio rivoluzionario: «l’umanità tutta è chiamata a riconoscere, a scegliere in primo luogo quel Dio che ci ama per primo e che vuole essere riamato nei figli degli uomini, essendo l’amore di Dio e l’amore del prossimo assolutamente inseparabili di fatto e di diritto, simili a due porte che si aprono e si chiudono insieme». Come confessa in versi, l’amore di Dio ha alimentato in lui «l’arsura di chi cerca / verità e amore» (Cresce), ovvero il bisogno di cooperare per la realizzazione del Regno promesso all’umanità nuova, nell’accoglienza di due principi evangelici inscindibili posti a guida di un retto operare: lo «spirito di verità» e l’«amore». In questo modo si realizza la Sua volontà, così scrive in un titolo il Nostro autore (In cielo, in terra), che ha eletto il Signore a Timoniere della sua esistenza, a dire che si è abbandonato alla volontà divina ed anela a comprenderla per la realizzazione del sogno di una vita più degna di essere vissuta.
Le sue parole di speranza, in parte sorte dal Padre Nostro (Preghiera di ogni giorno), registrano una intensa vita di preghiera: parole che scoccano nell’attesa fiduciosa della realizzazione della volontà del Signore e del compimento del proprio «destino». Esse dicono una «speranza certa»: l’attesa fiduciosa del Regno che Dio ci ha promesso attorno e dentro di noi, e alla fine della nostra vita terrena, come dice in Verrà, tre versi datati Natale 1986 che sono una meditazione sulla vita futura. La fede e la speranza, nominate o sottintese, sono tra i valori più celebrati da Perrini. Un altro è il senso alto, maiuscolo, della Verità posta come guida e a misura del vivere e dell’operare. È questa la Verità luminosa ed eterna, contrapposta alla cecità umana, al vano desiderio di potere, a quegli appetiti che fanno regredire al rango di animali selvaggi gli uomini che vi aspirano, indicati nel titolo come I contendenti.
Da segnalare sono i due versi dal titolo significativo di Il sugo della storia dove, con il «ci», come insegna il Padre Nostro tanto meditato, l’autore assume su di sé, anzi, cristianamente su noi tutti – perché tutti siamo una «cosa sola» (Gv 17,21) -, la riduzione in schiavitù generata dal desiderio di «potere e opulenza»: questi gli idoli, questa la sua amara considerazione sui mali storici che affliggono la società. Con questa ammissione di colpa collettiva Matteo Perrini afferma la sua dolorosa, consapevole solidarietà con i peccatori; il «dramma» è «comune», come ha scritto in un lungo testo che non è entrato in questa scelta.
Conoscere i propri limiti, riconoscersi peccatori, confidare nella correzione divina, è essenziale per ogni crescita umana. In una riflessione su “La poesia e il poeta”, in Detti e contraddetti, nell’agosto 2000 scriveva: «La poesia non è solo espressione della personalità del poeta, ma anche fuga dai suoi limiti così dolorosamente avvertiti». In Dinamica latenza multiforme si trova una dolorosa confessione dei propri limiti, mentre Necessaria separazione è una preghiera nella quale chiede la grazia di essere liberato dalla «pula» al fine di diventare «grano» del Signore, suo autentico discepolo
Alla poesia Matteo Perrini ha affidato intuizioni, pensieri e ispirazioni sorte dalla sua intensa vita spirituale, famigliare e sociale. Alcune poesie segnalano quanto fosse fondamentale per lui la dimensione del silenzio. Tra le diverse dimensioni del silenzio considerate, c’è il silenzio auto-imposto mutuato da Wittgenstein nel celebre detto: «Di ciò di cui non si può parlare si deve tacere», che egli riscrive in Secondo il principio di Wittgenstein: «ciò di cui / tutti chiacchierano / va taciuto.» Un altro ancora è il silenzio in cui si incontra se stessi; altro è il silenzio sublime dell’universo vibrante di luci nella sua armonia: il «pellegrino» bisognoso di infinito lo ascolta nella contemplazione (Immensità). L’ascolto del silenzio apre all’incontro con «chi soffre e spera», per soffrire e sperare insieme (Più fonda è la notte).
Il silenzio della mente, quello in cui si fanno tacere tutti i pensieri e i propri io per la contemplazione del creato, nell’attesa di Dio, della sua Parola silenziosa (Spazio sacro); questo silenzio abissale, religiosamente ascoltato, non è la semplice assenza di suono, ma è l’essenza del silenzio, quello in cui i mistici incontrano Dio.
Meditare il Vangelo in solitudine per lasciarsi nutrire dal «mistero» che la Parola rivela, ha dato a Matteo Perrini la forza di pronunciare il proprio «“sì” al divenire / pronto all’azione». Quello pronunciato in Sine glossa è il docile «sì» di Maria, quell’assenso umile e attivo che muove la sua persona al «bene comune», ed anima il suo sdegno per le ingiustizie sociali, tanto più brucianti quando a farne le spese sono i bambini (Disonore). Ma anche il silenzio umano, se ascoltato nella comunicazione empatica che scocca tra chi si ama, talvolta può rivelarsi più loquace delle parole: «In quel lungo, intenso silenzio / abbiamo sentito / cose che non sapremo mai dire»; così in tre versi scelti da una poesia in cui si esprime la profondità del sentimento reciproco che lega nonno e nipote. Anche in Potrò vedere Perrini loda il fertile tacere insieme, quel silenzio intimo che si desidera condividere per conoscere e conoscersi.
Della sua produzione poetica si ha notizia a partire dagli anni ’60. Le prime tre poesie numerate sono datate 9 gennaio 1960 e sono indicate come “Invocazioni”. Già da questo primo nucleo di versi, che documentano una profonda vita mistica, ad emergere è il desiderio di Dio. L’unione è testimoniata dagli intensi dialoghi alimentati dalla speranza essenziale del cristiano, che vive nell’attesa dell’incontro con l’«increata Luce che non muore». Una speranza, questa, che ha vanificato nell’autore il timore della morte: «penetro per il tunnel della morte / senza paura». Per chi si sente da sempre nel regno del Dio vivente, la vita e la morte sono intrecciate indissolubilmente fino a costituire un tutto unico.
Anche il rapporto con il Signore, così come il rapporto coniugale, conosce i sussulti che lo fanno più vero. Come i Profeti, il Nostro poeta sa che gli esseri umani tendono a spezzare il «patto» con il Signore (Ciò che dura).
La «Grande Domanda» (Oltre) sulla fine e sul fine della vita deve essere risuonata più volte nel corso della sua esistenza. La sua risposta è stato il “sì” alla condizione creaturale, e dunque alla finitezza, al mistero della morte. Dalle poesie si deduce che il sentimento della fine è sempre stato per lui annuncio di compimento. È del 1984 Traguardo, la poesia in cui confessava di essere già «pronto […] al traguardo finale» e chiedeva la grazia di giungervi accompagnato dalla moglie. La sua richiesta è stata assecondata, la sua «agile gazzella», invocata come la sposa del Cantico dei Cantici, gli è stata vicina fino alla fine.
In un verso, Perrini ha sintetizzato qoeleticamente la rapinosità della vita come un «tramonto che annuncia l’Aurora!» (Annuncio). Proprio come nel ciclo perenne della natura allo spettacolo del tramonto segue quello dell’aurora, anche nel ciclo di ogni vita umana, per il credente, la vecchiaia è presagio dell’Aurora senza tramonto. E questo gli fa cantare la sua grande speranza in una poesia intitolata significativamente Immortalità, dove i defunti, con gli «occhi chiusi quaggiù», accedono alla visione beatifica dell’«immensa» Luce senza fine. In Colma di Dio, l’ascesa dell’anima verso Dio viene espressa con la metafora della «goccia di rugiada» che si evapora a quel «sole» divino che può dissolverla in sé con il mistico bacio del suo amore. Sono molte le poesie che dicono l’intimità con il Signore in questa vita, e la stretta famigliarità con la morte, sempre accettata con la speranza del suo glorioso esito ultimo.
Matteo Perrini ha affrontato la sofferenza sperimentandone il valore più alto. Questa consapevolezza gli ha fatto scoprire che «Chi / più / sa / patire / più / vive» (Vita). Lo ha saputo dal Signore stesso che ogni dolore porta in sé l’efficacia della croce, accettata nella sua potenza redentrice (Chiudi gli occhi). Con questa assoluta certezza Matteo Perrini si è sentito condotto dalla sua malattia direttamente negli atri del Signore. Nell’ultima poesia, ritrovata dalla moglie Gianna su un foglietto, l’angelo della morte annunciata sta per giungere, ma lui sa che l’«ultima infermità» è una manifestazione della volontà divina. Nell’attesa di giungere alla «presenza» del suo Tu, vive il privilegio della morte inevitabile e serena. L’ultimo gesto è da compiere. Cristo è il passaggio, la «porta» a cui bussare che apre all’eternità. Prima di attraversare la soglia dall’essere corpo a quando il mondo non lo vedrà più, innalza la sua preghiera serena e confidente, con la certezza del destino glorioso della creatura umana nel suo imminente compimento, quando sarà trasformato in altro da ciò che è stato. Nessuna immagine di ‘vita eterna’. Attingendo all’intuizione e alla fede, con la felice metafora della «tua musica», egli indica l’inizio del nuovo cammino dell’anima vivente nel suo destino ultraterreno. La sua ultima preghiera sgorga in un’atmosfera di fiducia e di pace, nella gioia della fede, nella grande speranza che si fa certezza di continuare il suo «costante andare» nell’eterna armonia divina. Così, nell’ultima poesia, in cui l’instancabile «pellegrino» si avvia all’incontro al quale ha aspirato.
NOTA: testo, non rivisto dall’Autore, della relazione tenuta a Brescia il 19.2.2008 su invito della Cooperativa Cattolico-democratica di Cultura.