La saggistica brillante, di stile giornalistico, sovrabbonda oggi persino in filosofia. Si abusa della apparente facilità del saggio, in cui assai spesso il gusto del paradosso fa sfuggire la complessità dei problemi e maschera la precarietà di certe soluzioni.
Il saggio propriamente filosofico, invece, trae tutto il suo vigore dallo sfondo speculativo da cui rampolla o a cui conduce la sua particolare ricerca, dovendo essere «l’espressione, sia pur rapida e concisa, di un mondo di pensiero che s’intravvede in prospettiva»: così è almeno per chi si rifiuta alla riduzione, da più parti in atto, della filosofia a psicologia descrittiva o a sublimazione di atteggiamenti e stati d’animo cari al gusto crepuscolare e al possibilismo estremo che caratterizzano tanta parte della produzione filosofica attuale.
A chi voglia saggiare la consistenza delle più tipiche forme del pensiero contemporaneo, in capitoli di schietta discussione filosofica, aventi ciascuno una sua relativa compiutezza, tornerà perciò gradita la lettura di “Meditazioni critiche”, il recentissimo volume di Nicola Petruzzellis .
Il libro è tutto un serrato dialogo con le più note posizioni di pensiero oggi qua e là prevalenti. L’Autore, evitando con ogni cura di sovrapporre il suo pensiero a quello altrui, si rende conto onestamente delle esigenze che in certo modo spiegano o concorrono a spiegare la genesi ed il favore di alcune concezioni filosofiche e, quando queste esigenze risultano in tutto o in parte valide, si studia di soddisfarle per altra via, individuando il punto in cui una verità certa o un dato di fatto accertabile subiscono quella deviazione, forse a prima vista impercettibile, che li trasforma e li sfigura fino a sommergerli nell’errore.
Tra le “Meditazioni critiche” un grande rilievo va subito dato a quelle in cui l’illustre docente di teoretica dell’università partenopea affronta «Il problema del valore» (pp. 45–93), indaga il rapporto tra «Logica e fenomenologia» (pp. 111-139) e discute «Sulla categoria di possibilità» (pp. 141-204): si tratta di tre saggi di forte impegno teoretico e di viva attualità e, di certo, sarebbe bastato uno solo di essi a rendere il volume che stiamo presentando di notevole pregio. Gli altri saggi, virgulti nati anch’essi sul tronco di ricerche sistematiche, attraggono l’interesse dell’uomo colto oltre che dello studioso di filosofia sia per l’importanza dei temi in essi dibattuti («Mito e filosofia» – «Psicologia e filosofia» – «Operatività intellettuale del conoscere» – «La spiritualità dell’anima e i problemi del pensiero contemporaneo» – «Educazione ed espressione» – «L’esistenzialismo ed il significato del nostro tempo» – «Il ritorno del diritto»), sia per l’acuta revisione di giudizi su valutazioni e atteggiamenti assai diffusi e ricorrenti («Aristofane e la sofistica» – «Freud e la guerra» – «John Dewey e il problema religioso» – «I grandi filosofi secondo K. Jaspers»).
Funzionalità immanente e trascendenza ontologica dei valori.
La discussione su “Il problema del valore” si è fatta estremamente complessa e sottile. Il Petruzzellis elabora una concezione filosofica del valore e ritiene insufficiente la dottrina dei trascendentali; la problematica dei valori si è, infatti, arricchita, nella storia del pensiero, di nuove e divergenti prospettive e, soprattutto, «è legittimo rilevare che il concetto di valore resta illuminato tanto più profondamente e compiutamente quando noi lo studiamo nella sua correlazione con il corrispondente atteggiamento dello spirito umano» (p. 62).
Il Petruzzellis si addentra nella trattazione del problema con un’agilità che è frutto di precedenti, decisive indagini . In via preliminare vi è una distinzione da fare: il dover essere della immaginazione, il dover esser quintessenza degli ideali romantici delle anime belle inette alla vita e alla comprensione della storia, non ha nulla a che fare con il dover essere della ragione inteso come legge e linea strutturale dell’essere stesso.
La struttura del pensiero umano è assiologica: pensare è giudicare, ed i giudizi di valore sono ineliminabili dal comune discorso come dal pensiero scientifico, perché il valore è sempre attuale anche nei suoi negatori, che possono negare questa o quella forma di bellezza, questa o quella verità, questo o quel bene, ma non già l’esigenza del bello, del vero, del bene che li fa uomini nel senso eminente dell’espressione. «Uno dei più fieri avversari dei giudizi di valore, il Croce, esercitò per tutta la vita attività di critico: e la critica non si fa se non con i giudizi di valore, impliciti o espliciti che siano» (p. 54), osserva acutamente il Petruzzellis, di cui ci pare opportuno riportare un altro passo chiarificatore: «I sostenitori del non giudicare credono di potersi valere dell’autorità del Vangelo, in ogni altro caso oppugnata e misconosciuta, ma non pongono mente che il non giudicare evangelico vuol dire non condannare farisaicamente, non già rinunciare al pensiero che non è senza giudizio e senza valutazione di cose, di fatti e di uomini» (p. 50).
Sgombrato il terreno dall’ipotesi pessimistica, sorge allora il problema: se valutiamo, come e perché valutiamo? La valutazione, infatti, è possibile solo in funzione di categorie e norme, di concetti o criteri di valutazione, ossia di valori. Il valore, però, non esiste in una fantastica ed eterea purezza, ma incarnato in concreti valori di diverso ordine e grado: i valori fondamentali, nel significato autentico dell’espressione, sono il bello, il vero, il bene. Nel pensiero corrente si sono coniati concetti surrogativi dei valori, ma siffatti concetti (quali, ad esempio, la positività, la fecondità storica, la operatività, l’autenticità, ecc.) valgono proprio ad indicare aspetti particolari dei valori. Una esemplificazione pratica? «L’opportunità storica, che lo storicismo fa assurgere a suprema categoria discriminante della prassi, si chiarisce come un aspetto del bene, quando non sia in contraddizione con altre sue caratteristiche fondamentali, come il bonum utile, che può essere associato col bonum honestum, ma che non si identifica con esso…» (p. 53).
Nella vita personale e nella storia il valore si rivela come esigenza stimolatrice e ragione intrinseca dell’orientamento dell’attività umana; ma il valore può assolvere al compito di criterio di valutazione e di idea regolativa dell’attività spirituale perché la sua funzionalità immanente è resa possibile dalla realtà ontologica del valore e dalla sua trascendenza ontologica. «L’essere è la comune radice di tutti i valori non concepibili se non come perfezioni dell’essere; il valore è dell’essere e nell’essere; il valore è vita dell’essere». E poiché il valore non si esaurisce in nessuna cosa, opera o azione finita – donde per lo spirito umano l’esigenza di sempre nuove ed inesauste realizzazioni di valori – la trascendenza ontologica dei valori supremi è richiesta irrevocabilmente, come pure la distinzione tra valori finiti (naturali e storica) e valori infiniti.
I problemi filosofici si articolano senza soluzione di continuità: e così il problema axiologico sbocca in quello teologico, quando si sia pervenuti alla consapevolezza critica dell’infinità dei valori e della inderivabilità di essi dall’uomo. Quando l’an sit e il quid sit di Dio si sia già dimostrato ed illustrato in sede propria, l’assolutezza dei valori trova la sua radice e la sua giustificazione nell’infinità di Dio, sintesi personale assoluta di tutti i valori.
Nel rapporto tra la persona umana e i valori è il nodo dei massimi problemi filosofici e il senso dell’uomo e della storia: il valore non è fondato dall’uomo (come con forte imprecisione affermano i filosofi personalisti), ma è per l’uomo una conquista di cui egli porta in sé l’esigenza e la potenzialità. Rispetto ai valori l’uomo «non è come l’asino che porta i sacramenti» scrive incisivamente il Petruzzellis, servendosi di una espressiva immagine bruniana: il valore sollecita l’assenso libero della persona, senza determinarlo fisicamente. Resta, dunque, aperta la tragica possibilità del rifiuto; a questa possibilità, quando si traduce in atto, si devono la produzione dei disvalori e spesso anche il culto degli pseudo-valori. «L’apparente paradosso della storia… consiste proprio in questo: che la storia, orientata verso l’incremento dei valori, è spesso impegnata a disperderli» (p. 66).
I limiti della fenomenologia.
La fama europea di Edmund Husserl ha moltiplicato studi filosofici ed esegetici, nonché le varie imitazioni del suo pensiero. Il Petruzzellis nello scritto “Logica e fenomenologia”, che qui prendiamo in esame, saggia la struttura e l’interna coerenza della logica husserliana, per riproporre poi una rinnovata posizione dei rapporti tra logica e fenomenologia. Da questo saggio risulta un chiaro giudizio sui limiti della fenomenologia come metodo di ricerca e come pseudo-soluzione dei problemi filosofici, ed è su questo punto che ci pare più opportuno soffermarci rapidamente.
La fenomenologia si pone sulla linea del pensiero critico, che va da Cartesio a Kant, è fortemente influenzata dalla esperienza idealistica, non ignora le istanze dello scientismo: «nata dalla confluenza di motivi diversi, può dare l’impressione di un superamento, ma in realtà – osserva l’Autore – ripropone problemi insoluti» (p. 121).
Quale validità ha il nuovo ubi consistam da cui parte l’indagine critica che dà vita alla fenomenologia? L’epoché, lo studio delle strutture della coscienza in quanto intenzionalità si possono ben giustificare come esigenze metodologiche, come approcci a più impegnativi problemi, ma si irrigidiscono in presupposti quando l’indagine vi rimane ancorata. «Nel seno dell’universale intenzionalità della coscienza è possibile un criterio discriminante, che mi assicuri della realtà e del valore dei cogitata? Se questo criterio è possibile, come si giustifica coerentemente coi principi dell’immanenza gnoseologica che nella posizione husserliana non può non implicare anche un’immanenza metafisica?» (p. 124. E come negare le elementari analogie tra le posizioni fondamentali del pensiero di Husserl e quello di Berkeley? (p. 126). L’intenzionalità come pura forma della coscienza non risolve alcun problema, perché «è suscettibile di trascrizioni diverse, di una trascrizione realistica, idealistica e perfino di un’interpretazione scettica e fenomenistica». L’intenzionalità implica il dato, ma non lo spiega se non formalmente come esigenza della coscienza: «neanche il classico scetticismo disconosceva l’immanenza dell’oggetto, dell’altro, del passato, del percepito, o comunque si voglia dire, ma proprio insistendo su questa immanenza, la interpretava come esclusiva di qualsiasi trascendenza dell’oggeto e quindi come semplice apparenza soggettiva, fallace ed illusoria» (p. 129).
In un tempo come il nostro in cui il fascino per il pensiero oscuro e sfuggente esercita una attrattiva forse mai prima raggiunta, è opera di magistero educativo oltre che alto contributo al ritorno alla ragione la programmatica fedeltà del Petruzzellis alla natura e al fine di ogni schietto filosofare: contro ogni soffocante virtuosismo tendere con tutte le forze a vedere e a giustificare con mediazione critica, il più chiaramente possibile, il significato e le strutture del reale, senza disperdersi in esplorazioni periferiche, esclusivo dominio di qualsiasi filosofia dimidiata e senza misologismi o esoterismi di sorta.
La categoria della possibilità.
Risponde ad un bisogno vivamente avvertito l’indagine del Petruzzellis “Sul concetto di possibilità”, ampio studio nel quale si ricostruisce con scrupolosa obiettività e si giudica criticamente la concezione della categoria di possibilità così come si è venuta sviluppando da Kierkegaard a M. Heidegger, K. Jaspers, N. Hartmann e N. Abbagnano. Lasciando fuori del nostro esame la esposizione dei vari modi di teorizzazione del concetto di possibilità, accenniamo brevemente a qualcuna delle obiezioni fatte valere contro la tesi esistenzialistica del radicale possibilismo.
A chi sostiene che ogni filosofia del virtuale, da Aristotele a Hegel, sarebbe una filosofia della necessità, il Nostro ribatte: «Se la filosofia di Hegel può ben ridursi ad una filosofia della necessità, ciò non costituisce una prova sufficiente per ritenere che di tale riduzione sia suscettibile ogni concezione del potenziale e del virtuale. Non ogni potenza si realizza… La potenzialità non è mai una fatale predeterminazione all’atto, la virtualità non è una preformazione dell’atto concreto» (pp. 179-180).
Il riconoscere come oggetto di scelta una sola possibilità fra tante banali e banalizzanti «significa introdurre un criterio di valore, che ha a sua volta bisogno di una giustificazione critica, aprendo l’amplissima sfera del problema del valore». La soluzione di questo problema è, poi, tutt’altro che riducibile alla tesi che identifica la possibilità autentica con quella che consente di rinnovare la scelta ancora e sempre: «quanti errori e quante follie non sono voluti ripetutamente con zelo degno di miglior causa dall’umanità come dall’individuo?». E non è stato forse l’esistenzialismo a mettere in luce l’esperienza umana dei casi-limite, la quale attesta che ci possono essere scelte senza domani, pur essendo validissime e dotate di alto significato storico e umano?
La filosofia esistenzialistica cade necessariamente nel peggiore astrattismo quando propone una formula unica, «la possibilità», una parola sola per tutta la realtà, in tutti i suoi fattori ed aspetti diversi.
«La possibilità si carica spesso dei nostri sentimenti, ma non c’è ragione alcuna per proiettarvi esclusivamente l’angoscia, per interpretarla prevalentemente come possibilità del male, della sofferenza, della morte, del nulla» (p. 193). Né meno pertinente è l’osservazione che anche la realtà può determinare l’angoscia: «I campi di sterminio sono una spaventosa realtà storica, in cui non pure l’umanità delle vittime, ma ancor più quella dei carnefici fu abbassata fino all’abiezione; e qualunque possibilità, che pur sussisteva, era da preferirsi» (p. 194).
«L’assoluto possibilismo non riesce ad evitare il nullismo»: questa la conclusione a cui perviene il denso saggio “Sul concetto di possibilità”, ed è tesi che ritrova la sua verifica più spietata e coerente nella posizione filosofica di J. P. Sartre.
Non potendo, come pure sarebbe utile e interessante, enunciare i motivi centrali degli altri saggi contenuti in “Meditazioni critiche”, citiamo a conclusione un passo (pp. 222-3) che, in vigorosa sintesi, assai bene esprime come il Petruzzellis concepisce e vive la ricerca filosofica: «La filosofia che non abbia smarrito il senso di se stessa e la responsabilità che vi è congiunta, non si mette, con falsa modestia, alla scuola di scienziati, che non possono risolvere i suoi problemi, perché perseguono i propri, di tutt’altra natura; non si smarrisce in interrogazioni periferiche del reale e della psiche, non si affaccenda nell’inventario minuzioso e compiaciuto dei limiti, delle carenze e delle incapacità umane; non si esibisce nell’autobiografismo e nel falso lirismo di tormenti e di crisi retoricamente vissute, non sfoggia un vago slancio fideistico, frutto di un equivoco agnosticismo, là dove si aprono le vie e le possibilità naturali della ragione. Questa filosofia, fedele alla migliore tradizione del pensiero occidentale, che va dalle intuizioni dell’Ellade alle conquiste della speculazione cristiana, e tuttavia aperta agli eterni richiami di una verità infinita e pertanto inesauribile, non rinuncia ad una sempre rinnovellata indagine sull’essere e sullo spirito ed è oggi particolarmente impegnata nella ricerca delle strutture ontologiche dei valori, di cui ha illuminato l’esigenza e la presenza operante nelle diverse attività dello spirito.
Vista alla luce di questi valori, la storia dell’uomo, lungi dall’apparire come un viaggio impossibile (Gide) si configura come un itinerario, suscettibile bensì di dispersioni e di aberrazioni molteplici, ma investito di un significato universale in relazione a eterni traguardi, e l’esistenza umana si chiarisce non come zum Tode Sein, ma un essere per la vita».
Humanitas, 1960.
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