A mezzo il giorno
sul Mare etrusco
pallido verdicante
come il dissepolto
bronzo dagli ipogei, grava
la bonaccia. Non bava
di vento intorno
alita. Non trema canna
su la solitaria
spiaggia aspra di rusco,
di ginepri arsi. Non suona
voce, se ascolto.
Riga di vele in panna
verso Livorno
biancica. Pel chiaro
silenzio il Capo Corvo
l’isola del Faro
scorgo; e più lontane,
forme d’aria nell’aria,
l’isole del tuo sdegno,
o padre Dante,
la Capraia e la Gorgóna.
Marmorea corona
di minaccevoli punte,
le grandi Alpi Apuane
regnano il regno amaro,
dal loro orgoglio assunte.
La foce è come salso
stagno. Del marin colore,
per mezzo alle capanne,
per entro alle reti
che pendono dalla croce
degli staggi, si tace.
Come il bronzo sepolcrale
pallida verdica in pace
quella che sorridea.
Quasi letèa,
obliviosa, eguale,
segno non mostra
di corrente, non ruga
d’aura. La fuga
delle due rive
si chiude come in un cerchio
di canne, che circonscrive
l’oblio silente; e le canne
non han susurri. Piu foschi
i boschi di San Rossore
fan di sé cupa chiostra;
ma i più lontani, verso
il Gombo, verso il Serchio,
son quasi azzurri.
Dormono i Monti Pisani
coperti da inerti
cumuli di vapore.
Bonaccia, calura,
per ovunque silenzio.
L’Estate si matura
sul mio capo come un pomo
che promesso mi sia,
che cogliere io debba
con la mia mano,
che suggere io debba
con le mie labbra solo.
Perduta è ogni traccia
dell’uomo. Voce non suona,
se ascolto. Ogni duolo
umano m’abbandona.
Non ho più nome.
E sento che il mio volto
s’indora dell’oro
meridiano,
e che la mia bionda
barba riluce
come la paglia marina;
sento che il lido rigato
con sì delicato
lavoro dall’onda
e dal vento è come
il mio palato, è come
il cavo della mia mano
ove il tatto s’affina.
E la mia forza supina
si stampa nell’arena,
diffondesi nel mare;
e il fiume è la mia vena,
il monte è la mia fronte,
la selva è la mia pube,
la nube è il mio sudore.
E io sono nel fiore
della stiancia, nella scaglia
della pina, nella bacca
del ginepro:
io sono nel fuco,
nella paglia marina,
in ogni cosa esigua,
in ogni cosa immane,
nella sabbia contigua,
nelle vette lontane.
Arduo, riluco.
E non ho più nome.
E l’alpi e l’isole e i golfi
e i capi e i fari e i boschi
e le foci ch’io nomai
non han più l’usato nome
che suona in labbra umane.
Non ho più nome né sorte
tra gli uomini; ma il mio nome
è Meriggio. In tutto io vivo
tacito come la Morte.
E la mia vita è divina.
1. Analisi e interpretazione di “Meriggio”
Meriggio appartiene a quel consistente gruppo di liriche dell’Alcyone la cui data di composizione, a noi ignota, viene probabilisticamente fissata in un periodo compreso tra la metà di luglio e il 13/14 agosto 1902. Il poeta si trovava allora a Romena, nel Casentino.
Se l’ipotesi di datazione, ben motivata, coglie nel segno, la lirica è fondata su uno o più ricordi, oltre che sul solito taccuino datato 2 luglio 1899, che nel volume mondadoriano degli Altri taccuini ha il numero 10. Utilizzato in ogni sua piega per l’Alcyone esso peraltro fornisce singoli particolari ma non mostra alcuna traccia che annunzi la struttura e il senso complessivo della lirica. Dai realisti e dai naturalisti il poeta aveva forse assunto l’uso dei taccuini di lavoro, ma ormai in uno spirito diverso. Non appunti documentari raccolti, spesso, in vista di un’opera già progettata (e nemmeno, come pure s’è detto, journal intime), ma deposito di notazioni, cioè d’immagini e situazioni, destinate a trovare nuove funzioni in incognite opere future. Talvolta nella notazione stessa è già un primo avvio di ricerca espressiva, l’intento di fissare un brevissimo nucleo lirico o narrativo.
Meriggio consta di quattro strofe, ciascuna di 27 versi, più un verso di chiusa stroficamente isolato ma correlato alla 3a e 4a strofe dalla rima in -ina. La “strofe lunga” qui adottata, e celebrata nell’Onda, presenta una fenomenologia tutt’altro che uniforme. In Meriggio i versi che la compongono sono quinan, senari, settenari, ottonari, e si appoggiano su due o tre accenti forti. Mancano i ternari e i novenari caratteristici d’altri testi composti in strofi lunghe, quali ad esempio La pioggia nel pineto o Le stirpi canore. Parrebbe che di proposito D’Annunzio abbia voluto contenere, senza castigarla, la straordinaria agilità ritmica sfoggiata altrove. (Pur se, ad esempio, un verso come “coperti da inerti” potrebbe essere scomposto in due ternari).
La tecnica della strofe dell’Alcyone non è propriamente quella del verso libero, che già s’era affermato nel secondo Ottocento. Le innovazioni metriche del poeta abruzzese, quando non siano recuperi arcaistici (ad esempio, il madrigale trecentesco, che tanta fortuna incontrò tra Otto e Novecento, ma già usato da uno sperimentatore come Tommaseo), associano di solito libertà e costrizione, imprevedibilità e regola. Il poeta non rinuncia alla rima né alla misura strofica fissa (almeno quanto al numero dei versi); i suoi versi, presi singolarmente, sono versi regolari. Ma le rime sono irregolarmente disposte e talvolta tralasciate; e versi parasillabi e imparisillabi si mescolano senza remore. Le strutture compositive sono di volta in volta inventate. Così, in Meriggio, le quattro strofi sono collegate a due a due: la la con la 2a, e la 3a con la 4a.
Si hanno relazioni verbali e di situazione tra le due prime strofi. Al “Mare etrusco / pallido verdicante / con il dissepolto /bronzo dagli ipogei” della la corrisponde nella 2a un particolare della descrizione della foce dell’Arno:
Come il bronzo sepolcrale
pallida verdica in pace
quella che sorridea.
A “Non bava / di vento” della la corrisponde nella 2a, in identica posizione enjambante: “non ruga / d’aura”; e i due sintagmi erano congiunti già nelle ultime pagine del Fuoco: “Non la più lieve bava di vento corrugava l’infinito specchio”. A “Non trema canna / su la solitaria / spiaggia (…)” corrisponde: “e le canne / non han susurri (…)”.
Sia la 1a, sia la 2a strofe sono inoltre gremite di toponimi: Livorno, Capo Corvo, isola del Faro, Capraia, Gorgona Alpi Apuane, San Rossore, Gombo, Serchio, Monti Pisani. E interessante che Gombo sia frutto d’una variante sostitutiva d’un precedente laggiù. E’ un universo dove i luoghi serbano ancora i nomi dati dall’uomo, nei quali vivono i segni della sua storia passata e presente. Ecco allora anche la “riga di vele”, sia pure “in panna”. Ecco, col nome Livorno, evocata la stessa città – pur se invisibile. Ed ecco l’associazione facilmente, in questo caso, libresca (ma Dante ha un ruolo del tutto particolare nell’opera dannunziana):
l’isole del tuo sdegno,
o padre Dante,
la Capraia e la Gorgona.
Si può anche osservare che la 1a strofe si chiude con una notazione visivamente ascensionale:
Marmorea corona
di minaccevoli punte,
le grandi Alpi Apuane,
regnano il regno amaro
dal loro orgoglio assunte.
Ma anche la 2a strofe si chiude con lo spicco – sia pure più modesto – delle colline pisane:
Dormono i Monti Pisani
coperti da inerti
cumuli di vapore.
Scompare nelle strofi successive ogni toponimo, come ogni esplicito riferimento culturale; perché qui, ormai, “Perduta è ogni traccia / dell’uomo”.
Anche tra la 3a e 4a strofe corrono inoltre alcune relazioni verbali: quella tra i vv. 72-74:
(…) la mia bionda
barba riluce
come paglia marina,
e i vv. 92-93, dove però, secondo la progressione che caratterizza il passaggio dall’una all’altra strofe (nella 4a scompaiono i come), la similitudine diventa identificazione:
io son nel fuco,
nella paglia marina.
E tra il v. 68:
Non ho più nome,
e i vv. 99 e 105:
E non ho più nome.
(…)
Non ho più nome (…).
Accomunavano inoltre le due ultime strofi la rima in -ina (marina: s’affina : supina : pina : marina) e il ricorrente aggettivo possessivo mio, assente nelle prime due.
E nondimeno altre relazioni verbali collegano la 1a e la 3a strofe “Non suona / voce, se ascolto”, “Voce non suona, / se ascolto”); la rima in -ona dei vv. 10, 22 e 23 torna nei vv. 65 e 67. E trascorre su tutto il componimento, a sottolinearne ulteriormente la compattezza formale, la negativa non.
Le prime due strofi presentano un universo familiare in una situazione d’eccezione. Sotto il sole immobile allo zenit, nella pausa che segna il culmine della sua ascesa e l’inizio della sua discesa (nel tempo mitico dell’Alcyone è lecito ricorrere a una terminologia pre-copernicana), immobilità, calura e silenzio dominano il paesaggio: sul mare “grava / la bonaccia”; le vele – che nel citato taccuino del 1899 “passano in alto mare” – sono “in panna”; la foce dell’Arno è come uno “stagno” e “pallida verdica in pace”; “Non bava / di vento intorno / alita”; “Non trema canna”… E, in questa immobilità, “Non suona voce”; la foce del fiume “si tace”; le canne “non han susurri”; la zona è tutto un “oblìo silente”. La calura è evocata dal fonosimbolismo dei vv. 9-11: “su la solitaria / spiaggia aspra di rusco, / di ginepri arsi”; dall’afa suggerita dalla descrizione dei Monti Pisani “coperti da inerti / cumuli di vapore”; dal “sudore” del soggetto contemplante.
Risultando vano il senso dell’udito, che può percepire solo, in negativo, l’assenza di rumori, in questo paesaggio privo di suoni il poeta, in condizione anch’egli d’immobilità, è anzitutto un soggetto vedente. E si badi al riguardo – con le intense notazioni cromatiche e luminose di altri punti della lirica al tocco “macchiaiolo” dei vv. 13-15:
Riga di vele in panna
verso Livorno
biancica.
Gli effetti fonosimbolici e le figure etimologiche (“regnano il regno amaro”, “s’indora dell’oro / meridiano”, “le foci ch’io nomai / non han più l’usato nome”) conferiscono alla lirica una sonorità esuberante, ma pur sempre inferiore a quella, per esempio della Pioggia nel pineto o dell’Onda.
Alla presentazione dello scenario immobile, silenzioso e quasi funebre (“Quasi letèa” è detta la foce dell’Arno) segue – dopo la pausa “riassuntiva”, come la definisce M. Pazzaglia, che sta all’inizio della 3a strofe:
Bonaccia, calura,
per ovunque silenzio –
il racconto del processo che si svolge nell’intimo dello spettatore. Che è un processo di graduale ma rapida identificazione col paesaggio ormai ridotto a pura natura.
Perduta è ogni traccia
dell’uomo. Voce non suona,
se ascolto:
così si legge. E più oltre:
E l’alpi e l’isole e i golfi
e i capi e i fari e i boschi
e le foci ch’io nomai
non han più l’usato nome
che suona in labbra umane.
Lo stesso poeta non ha più nome, né umani sentimenti. Scompare (e il motivo gli era familiare dal tempo delle letture di Schopenhauer e del primo Nietzsche, e della frequentazione di Angelo Conti) la coscienza dell’individualità in un’estasi che gli consente di avvertire in sé la vita stessa del tutto. Scompare la distinzione tra l’io e le cose, come tra la vita e la morte. Il corpo stesso gli appare come disintegrato e ricomposto nel paesaggio.
E’ un’esperienza di estasi “dionisiaca” (nel senso nietzschiano di oblio del “senso soggettivo”, das Subjektive), un’infrazione del principium individuationis avvenuta nell’ora di Pan, quella che il poeta presenta in Meriggio. Non è azzardato forse un accostamento a quella che Rudolf Otto chiamava la “mistica naturale”, ch’egli vedeva contrapposta alla mistica dello spirito. Sua caratteristica, scriveva lo studioso tedesco, è “l’agitarsi del sentimento nel tutto-uno della natura in modo da sentire in se stessi ogni proprietà, ogni particolarità della natura: si danza con il granello di polvere, si brilla con il sole, si risplende con l’aurora, si mormora con l’onda, si odora con la rosa, si è ebbri con l’usignolo, si vive e si è ogni essere, ogni potenza, ogni piacere, ogni gioia, ogni pena, in tutte le cose, nella unità”. Che cosa egli intendesse dire apparirà più chiaro dalla citazione, fatta dallo stesso Otto, di alcuni versi di Gialâl ad-Dîn Rûmî, il grande poeta e mistico persiano del XIII secolo:
Io sono il granello di polvere nel sole, io sono il globo solare.
Al granello dico: permani. E al sole: fermati.
Io sono il bagliore dell’alba; io sono l’alito della sera.
Io sono il mormorio del bosco, la massa ondeggiante del mare.
E più oltre:
Io sono la catena degli esseri, io sono l’anello dei mondi.
La scala della creazione, l’ascesa e la caduta.
Io sono quel che è e non è. lo sono – o tu che lo sai,
Dschelal ed-din, dillo -: io sono l’anima del tutto.
A bene osservare, nel passo citato sopra, Rudolf Otto riassume in modo che può suonare ingannevole i versi di Rûmi ch’egli allega. Io stesso non ho qui riportato tutti i versi riferiti da Otto, ma solo quelli pertinenti alle parti messe più in risalto dal suo riassunto. In realtà il poeta-mistico persiano s’identificava anche con altri oggetti:
Io sono l’albero, il timone, il timoniere, la nave.
Io sono lo scoglio di corallo dove essa naufraga.
(…)
Io sono il soffio del flauto, io sono lo spirito dell’uomo,
sono la scintilla sulla pietra, il bagliore dell’oro sul metallo.
In ciò che Otto riepiloga, sommariamente, come “ogni essere” sono dunque compresi anche gli uomini e i loro manufatti, rigorosamente esclusi invece dalla 3a e 4a strofe di Meriggio. D’Annunzio mostra quindi di essere piuttosto (come Flaubert, sperimentatore di stati affini) un indiretto discepolo di Rousseau, il quale ci ha lasciato, nelle Réveries du promeneur solitaire, il racconto delle estasi naturali da lui ripetutamente raggiunte nell’isola di Saint-Pierre. La moderna estasi naturale esclude l’umano perché la “natura” è avvertita come un bene perduto a cui tornare.
2. D’Annunzio e il “gran meriggio”
All’insegna del mirto, allegoria dell’amore, e dell’ora meridiana è iscritto l’intero libro dell’Alcyone.
Or ode i Fauni ridere tra i mirti,
l’estate ignuda ardendo a mezzo il cielo:
sono i versi che chiudono la Tregua, il preludio al terzo libro delle Laudi. E anche la presenza di esseri biformi come i fauni (in certa tradizione figurativa, assimilati ai satiri) non è casuale. L’immagine del fauno compare significativamente già nell’episodio del labirinto di villa Pisani, nel Fuoco; e quella, del satiro già in Primo vere. Come il centauro della Morte del cervo, e di una delle Faville del maglio, il fauno è l’uomo che ha conservato la propria naturalità, quella che il protagonista del libro recupera nel tempo ideale dell’estate alcionia. Inoltre, come il poeta certo ben sapeva, i fauni – al plurale – si accompagnavano a Fauno, divinità italica assimilata a Pan, il dio kat’exochén del meriggio. A lui era attribuita una vivace attività amatoria.
Il meriggio è l’ora diurna della Spica, altra lirica composta nell’estate del 1902:
Laudata sia la spica nel meriggio!
Ella s’inclina al Sole che la cuoce,
verso la terra onde umida erba nacque
(…)
A mezzodì è il titolo d’uno dei Madrigali dell’estate. E’ il racconto di un incontro amoroso, tra le canne del Motrone, con una ninfa “nericiglia, sorella di Siringa”: incontro il cui esito è ben diverso da quello toccato in sorte a Pan seguace di Siringa – la menzione del nome della ninfa è qui altamente allusiva. E’ la situazione prefigurata già in due liriche del lontano Primo vere: Fantasia pagana e A un vecchio satiro di marmo, e in un’altra di Intermezzo: Venere d’acqua dolce, dov’è ugualmente ricordata, per contrasto, la disavventura di Pan e Siringa (così nell’Intermezzo del ’94; il richiamo mancava nell’ed. 1884, in realtà, 1883).
E se allarghiamo lo sguardo ancora retrospettivamente, troviamo che il meriggio estivo ha un posto di rilievo nel tempo lirico di Primo vere (con la citata Fantasia pagana si veda Lucertole), del Canto novo del 1882 e del 1896 (Libro primo, V dell’ed. 1882: Canto al sole, VII dell’ed. 1896; Libro terzo, VI dell’ed. 1882; l’Offerta votiva che chiude l’ed. 1886), dell’Intermezzo (Venere d’acqua dolce, I e II; La tredicesima fatica), delle Elegie romane (Il meriggio, che anticipa le insistenti forme negative della lirica dell’Alcyone: “Nulla viveva. Nessuna apparenza / era terrestre (…)”). Il meriggio ha posto anche tra i bozzetti giovanili di terra vergine (Fiore fiurelle). Nel silenzio solenne del meriggio si compie il nuovo annunzio di Maia: “Il gran Pan non è morto!” (L’annunzio). E ancora in Maia sono evocate le delittuose “Manie meridiane” delle città moderne.
Un Sogno d’un meriggio d’estate, poema drammatico da affiancare al Sogno d’un mattino di primavera e al Sogno d’un tramonto d’autunno, era stato progettato nel 1898. E il meriggio come ora propizia alle grandi scelte, anche criminose, è presente nel dramma La gloria (III, 4). Nella Figlia di Iorio il “demonio di mezzodì” è quello che possiede i mietitori (una situazione già fuggevolmente abbozzata nella prima parte del Fuoco, nell’accenno a “colui che meriggia profondo nella messe matura sotto la canicola” e “sente salire alle sue tempie un’onda di sangue”).
Due immagini, una positiva e l’altra negativa, connotano il tema del meriggio in D’Annunzio. Già nel Canto novo del 1882, accanto al “gran meriggio” gioioso e vitale, è presentato – sull’onda d’un impeto polemicamente e ingenuamente “socialista” – un “mezzogiorno” popolato di uomini “curvi (…) / a sudar sangue, a farsi cuocere / il cranio da ‘l sole spietato, senza una sola gocciola d’acqua, // senza una mica di pane!…)”. Nel Trionfo della Morte, un “sole meridiano” incombe come un incubo sul mostruoso pellegrinaggio di Casalbordino, descritto con le forti tinte di uno Zola (a dispetto del già avvenuto ripudio), che determina drammaticamente la fine dell'”esperimento” populistico-religioso di Giorgio Aurispa.
Nelle poche carte conservate al Vittoriale – forse le uniche scritte -, il sole meridiano del Sogno d’un meriggio d’estate è un sole spietato, portatore di morte. E una intensa connotazione funeraria e crudele ha Il meriggio delle Elegie romane. Nella Figlia di Iorio la sensualità gioiosa d’altri meriggi dannunziani è mutata in violenza distruttiva.
Si tratta del resto di un’ambivalenza caratteristica delle credenze e dei miti ab antiquo connessi al meriggio, e già rilevata ad esempio da Leopardi nel Saggio sopra gli errori popolari degli antichi. D’Annunzio la ritrova spontaneamente (come credo), e la rinnova. Nello stesso Meriggio dell’Alcyone, al culmine della trasformazione, afferma il poeta: “In tutto io vivo / tacito come la Morte”. E in questo caso il paradosso del morire a sé stessi (in una sublime ma forse involontaria parodia del misticismo di Dio) per attingere a una condizione non più umana:
E la mia vita è divina.
Se è vero che il meriggio ha uno spiccato rilievo tra i temi dannunziani, anche dove non si tratti espressamente di esso è dato cogliere significativi preannunci. E un sole mattutino, ma un sole trionfante, quello che nel Canto novo dell’82 provoca l’esperienza espansiva e trasfiguratrice, di identificazione naturale:
(…) O fremiti freschi de l’acque
riscintillanti d’ambre e di topazii!
fremiti novi de li alberi su le colline
a l’alitare largo de ‘l maestral, vi sento
ne ‘l cuor palpitante, ne i nervi, ne ‘l sangue, e una strofe
è ogni fremito, una divina strofe
che vola a l’immenso poema di tutte le cose.
Io – grida entro una voce – non sono io dunque un nume?
Sono i versi che chiudono la quarta lirica del Libro primo, e tornano immutati nel Canto novo del ’96.
E’ ancora nel Canto novo, ma solo in quello del ’96 (Canto del sole, VII), che nella celebrazione, questa volta, proprio del gran meriggio si legge il distico:
M’infondon nel sangue non so quale panica ebrezza
gli odori agresti misti a la salsedine.
E sempre nel Canto novo del ’96 (Canto del sole, XII) nell’esaltazione del sole di maggio il poeta esclama negli ultimi distici:
E non è un dio in me? Il palpito eterno del Mondo
questo non è, che il mio cuore mortale muove?
Non vivono forse i germi di tutte le vite
ne la mia vita umana? Sento il prodigio instare.
Ecco, io distendo nel concavo schifo le membra,
offro al paterno sole tutto il mio corpo ignudo.
Tu cullami, o mare, nel tuo infinito respiro;
Compi tu, sole, l’alta metamorfosi.
Da le mie membra, fatte giganti, rampolli una selva.
Scorgeranno l’ignota isola i nauti a sera.
La metamorfosi, che dovrebbe compiersi sotto l’ardore del “paterno sole”, è qui solo invocata. E quell'”ignota isola” selvosa e bagnata di luce serale – tra Böcklin e Ungaretti – non è che il sogno irrealizzabile di una impossibile mutazione fisica. Nel Meriggio dell’Alcyone la metamorfosi invece si compie, ma interiormente.
3. Note sul meriggio nella poesia del XIX secolo.
Resta da prendere in considerazione se il rilievo dato al meriggio nell’opera dannunziana sia o non sia un fenomeno isolato nel suo tempo. Non alludo solo alle eventuali “fonti” della lirica dannunziana. Il “grande meriggio” (der grosse Mittag) ha un’importanza particolare già in Nietzsche, testimoniata dall’aforisma 308 del Viandante e la sua ombra (seconda parte del secondo volume di Menschliches, Allzumenschliches); da più luoghi dello Zarathustra, particolarmente dal capitolo della quarta parte intitolato Mittags; dal penultimo aforisma della seconda dissertazione di Zur Genealogie der Moral; da alcuni luoghi di Ecce homo (nei capitoli sulla Nascita della tragedia e su Aurora), da versi e appunti postumi.
E sarebbe insensato negare la probabile suggestione nietzschiana, soprattutto del capitolo Mittags dello Zarathustra, accolta da D’Annunzio. Ma quale abisso tra il poeta abruzzese e il simbolo del filosofo tedesco. Per quest’ultimo, il meriggio è un momento di transizione, anzi il momento di transizione per eccellenza annunciato con esaltazione profetica, non lo stato di estasi panica fuori del tempo; è il punto ideale in cui l’uomo decide di trasformarsi in superuomo. Il meriggio vive solo proiettato verso la sera, che è l’ora del compimento del cammino dell’uomo dell’avvenire, dell’uomo “più che umano” Come ha scritto K. Löwith, in Nietzsche il meriggio “non è il momento in cui dèi e demoni si rivelano nella vita vegetale o animale del mondo, bensì il punto centrale di un cammino da percorrere”; è “il punto di mezzo di un cammino” tra animale e superuomo. “Il meriggio di Zarathustra assomiglia più al giorno del giudizio dei profeti e degli apostoli che al meriggio nel quale l’esistenza isolata ripiomba nella vita globale della natura”.
Visto anche che il tema si afferma già nelle opere giovanili, occorre piuttosto guardare a Carducci, soprattutto a quello delle Rime nuove: Davanti S. Guido; La leggenda di Teodorico (con la ripresa del tema folclorico della “caccia selvaggia” dell’ora di mezzogiorno); Il comune rustico; forse anche Davanti una cattedrale, di cui, come è stato notato da altri (Praz), fu ben presente a D’Annunzio almeno la prima quartina col verso “L’estate immensa sta” (si veda Stabat nuda Aestas: “immensa apparve, immensa nudità”). Ma anche Avanti! Avanti!, in Giambi ed epodi, conteneva un’intensa rievocazione del “silenzio meridian fulgente” conosciuto nella giovinezza in Maremma e ricordato come una magica sospensione del tempo. E, nelle Odi barbare, la 2a strofe della Madre – lirica ispirata al gruppo marmoreo di Cecioni ora conservato nella Galleria Nazionale d’Arte Moderna di Roma – condensa in sé il quadretto della forte e laboriosa villana nel meriggio estivo. Di Rime e ritmi, infine, va ricordato Mezzogiorno alpino.
Il meriggio di Davanti S. Guido è l’ora delle apparizioni benefiche e quella in cui si rivela la segreta armonia del Tutto, governata, secondo il X inno orfico, dal canto di Pan (e il sintagma a mezzo il giorno è proprio quello che apre, trasformato in un autonomo quinario, Meriggio):
Rimanti; e noi, dimani, a mezzo il giorno,
Che de le grandi querce a l’ombra stan
Ammusando i cavalli e intorno intorno
Tutto è silenzio ne l’ardente pian,
Ti canteremo noi cipressi i cori
Che vanno eterni fra la terra e il cielo:
Da quegli olmi le ninfe usciran fuori
Te ventilando co ‘l lor bianco velo;
E Pan l’eterno che su l’erme alture
A quell’ora e ne i pian solingo va,
Il dissidio, o mortal, de le tue cure
Ne la diva armonia sommergerà.
In altro componimento, anche Carducci aveva annunciato: “Pan è risorto” (nel IV dei sonetti dedicati a Nicola Pisano) alla base era sempre la memoria del celebre aneddoto tramandato da Plutarco nel De defectu oraculorum, e ricordato anche da Nietzsche nella Geburt der Tragödie eppure, che che paresse talora ai suoi contemporanei, il neo-paganesimo di Carducci suona quasi bonario e domestico, persino nelle sue punte più polemiche. Il poeta toscano aveva dietro e con sé Heine e l'”école paienne” di certo romanticismo francese e dei parnassianì, alla quale dedicò un importante, ostile articolo Baudelaire, ma non, come il più giovane collega abruzzese, anche l’odio ossessivo del figlio di un pastore protestante che, in un continuo sforzo di contrapposizione, amava presentarsi come il portatore del “quinto evangelo” – l’evangelo di Zarathustra, il nuovo e ben più efficace Contra Christianos -, e come annunciatore dell’Anticristo”. Nondimeno, non aveva del tutto torto Benedetto Croce quando gettava acqua anche sul “paganesimo” dannunziano – come sul suo nietzschianesimo”.
Nell’ambito di certo romanticismo francese, suggestionato da Heine (in Carducci, a quella di Heine si sommò la suggestione di un “parnassìano” sui generis come August von Platen), già Sainte-Beuve aveva affermato (nell’Eglogue napolitaine):
Paganisme immortel, es-tu mort? On le dit;
Mais Pan tout bas s’en moque et la Sirène en rit.
E Nerval aveva profetizzato in Delfica, uno dei sonetti delle Chimères:
Ils reviendront, ces Dieux que tu pleures toujours!
L’interlocutore neo-pagano finto da Baudelaire nel citato articolo asserisce anch’egli – come poi D’Annunzio – che “le dieu Pan n’est pas mort!” e che occorre tornare alle veraci dottrine oscurate, per un solo istante, dall'”infame Galiléen”. Ed è nel paganeggiante ambiente parnassìano, in particolare, che Carducci poteva trovare splendide celebrazioni di Pan e della sua ora per eccellenza, il meriggio. Alludo a Leconte de Lisle e ai suoi due “poèmes antiques” Pan e Midi.
Midi, in particolare, culmina nella visione del “Néant divin” che il solitario contemplativo porterà in sé tornando alle “cités infimes”. Quello del meriggio silenzioso e abbagliante è un tema che torna in un altro parnassiano, lo squisito cubano francese Heredia, e in Mallarmé. Di José-Maria de Heredia si vedano i sonetti La vision de Khen, I e La sieste, in Les trophées (editi nel 1893); di Mallarmé l’Après-midi d’un faune (con l’indimenticabile evocazione del “fier silence de midi”), a cui s’ispirò Debussy “prolungando” (così si espresse Mallarmé) l’emozione da cui era nato il poemetto.
Occorre supporre che tutto questo fosse ben noto a D’Annunzio, che peraltro si moveva in maniera originale. E ben nota gli era l’affettuosa rievocazione del “meridiano ozio” a cui Pascoli aveva dedicato buona parte di Romagna; e il denso paesaggismo meridiano di Dall’argine: dov’è indicativa tra l’altro la presenza, segnalata dalla Noferi, del verbo biancica (peraltro ben “griffato” anche da D’Annunzio).
Posa il meriggio su la prateria.
Non ala orma ombra nell’azzurro e verde.
Un fumo al sole biancica; via via
fila e si perde.
Ho nell’orecchio un turbinio di squilli,
forse campani di lontana mandra;
e, tra l’azzurro penduli, gli strilli
della calandra.
Molto meno significative, ai fini del presente discorso, liriche come Quel giorno e Mezzogiorno (sempre in Myricae), e anche La calandra (nei Primi poemetti). E del resto il meriggio non ha in Pascoli le valenze mitico-ideologiche presenti invece nella poesia neo-pagana del secolo scorso.
Ma anche un altro poeta va qui ricordato, ed è Giacomo Leopardi. Non il Leopardi del bel capitolo sul meriggio nel giovanile Saggio sopra gli errori popolari degli antichi, né quello della seconda stanza della canzone Alla Primavera (un testo così goffamente e con tanto cattivo gusto commentato, nel Secondo discorso su Leopardi, da Ungaretti, che pure, da poeta, seppe trarne partito). Il Leopardi che qui interessa è quello della seconda strofe della Vita solitaria, di cui un verso: “Tien quelle rive altissima quiete”, era riecheggiato nell’Oleandro, di due anni anteriore a Meriggio: “Sotto i profondi cieli le rive alto silenzio tiene”:
Talor m’assido in solitaria parte,
Sovra un rialto, al margine d’un lago
Di taciturne piante incoronato.
Ivi, quando il meriggio in ciel si volve,
La sua tranquilla imago il Sol dipinge,
Ed erba o foglia non si crolla al vento,
E non onda incresparsi, e non cicala
Strider, né batter penna augello in ramo,
Né farfalla ronzar, né voce o moto
Da presso né da lunge odi né vedi.
Tien quelle rive altissima quiete;
Ond’io quasi me stesso e il mondo obblio
Sedendo immoto; e già mi par che sciolte
Giaccian le membra mie, né spirto o senso
Più le commova, e lor quiete antica
Co’ silenzi del loco si confonda.
In questi versi, come annotava M. Fubini, Leopardi “intende esprimere (…) il venir meno di tutti i moti vitali in una quiete antica e obliosa all’unisono con la quiete universale del meriggio”. Il poeta descrive una condizione estatica già raggiunta, non un processo; di qui l’andamento anche ritmicamente monotono del suo discorso. Ma, a parte le differenze che si possono e devono rilevare, non sfugga ad esempio come anche in Leopardi all’immobilità del poeta corrisponda l’immobilità e il silenzio della natura, e l’affinità tra le forme negative di D’Annunzio “Non bava / di vento intorno / alita. Non trema canna / su la solitaria / spiaggia (…) Non suona / voce, se ascolto” ecc.) e quelle leopardiane: “Ed erba o foglia non si crolla al vento, / E non onda incresparsi, e non cicala / Strider, né batter penna augello in ramo, / Né farfalla ronzar, né voce o moto / Da presso né da lunge odi né vedi”. Anche sciolte… le membra (poco importa, nell’àmbito del presente discorso, che si tratti d’un calco omerico) sembra anticipare la dispersione del corpo nel paesaggio della lirica alcionia. A dispetto del disprezzo ostentato in più occasioni nei confronti del poeta di Recanati (ma non mancano testimonianze d’altro tenore), non è questo l’unico “furto” compiuto da D’Annunzio nei suoi confronti. Ed è un discorso questo che potrebb’essere ripetuto, anche a maggior ragione, per Pascoli, polemico la sua parte contro la filosofia e il linguaggio leopardiani.
Può esser forse motivo d’interesse, infine, osservare come il tema torni con insistenza nella letteratura della prima metà del Novecento. L’argomento è stato delibato di recente da C. Ossola nelle ultime pagine dell’introduzione al citato volume di Roger Caillois, e meriterebbe un approfondimento.
Lo studioso torinese menziona, naturalmente, Valéry (Le cimetière marin); e poi Ungaretti (Stagioni; Ti svelerà), Saint-John Perse (Anabase); Wilder (The Bridge of San Luis Rey). Lo stesso Caillois ricordava Le démon du midi di Paul Bourget. Il catalogo è ovviamente allungabile – pur senza sconfinare nelle altre arti. Per la parte francese, si potrebbero citare per esempio anche il dramma simbolico Partage de midi e la lirica La Vierge à midi di Claudel. Ma il nome che soprattutto occorre fare è quello di Montale, nei cui Ossi di seppia l’ora del meriggio è, come ha osservato G. Contini, un mito “centrale”: essa è “un tempo rivelatore, un’ora topica”.
Quello di Montale, nonostante le molte derivazioni da D’Annunzio rilevate nella sua opera, è però un ben diverso àmbito rispetto a Meriggio. Più pertinente all’assunto del presente discorso è chiudere nel nome di Paul Valéry, in un punto del cui Cimetière marin egli canta come gli si offra l’esperienza di perdersi nel grande Tutto, di identificarsi con la pace dell’Essere:
Temple du Temps, qu’un seul soupir résume,
A ce point pur je monte et m’accoutume,
Tout entouré de mon regard marin…
Ma ciò che in D’Annunzio era il culmine d’una beatitudine è qui respinto come una tentazione. Trattiene il poeta e gli fa ricusare la tentazione il senso razionale del limite; quello che gli ha fatto porre a epigrafe del poemetto la frase di Pindaro: “O mia anima, non aspirare a una vita immortale”…
NOTA: testo, rivisto dall’Autore, della conferenza tenuta a Brescia il 11.2.1992 su invito della Cooperativa Cattolico-democratica di Cultura.