Posso raccontare non tanto i numeri o la sociologia della migrazione, di quella che io chiamo la Grande Migrazione di cui comunque non sono, lo confesso, un esperto. Non conosco i numeri né i flussi migratori; non saprei dirvi quanti migranti possiamo accogliere in Europa, in Italia, quanto aumento di prodotto interno lordo può introdurre nelle nostre economie la presenza di un certo numero di migranti. Tutto sommato sono cose che mi interessano relativamente. Quello che posso raccontarvi è la mia esperienza con i migranti, la vita che ho condiviso con loro.
Faccio una breve parentesi sul mio mestiere, che è un mestiere derelitto, deprecato, e, spesso anche un po’ a ragione, criticato. Io credo che il giornalismo sia un’unica cosa: vedere, raccontare, condividere. Cum-dividere, magnifica parola latina. Io ho diritto di raccontare solo ciò che ho convissuto con gli uomini che diventano oggetto del mio racconto. A questo semplicissima massima io costantemente resto fedele. Non scrivo, non descrivo, se non ciò che ho vissuto. Per questo unico motivo, e non per una mania di andare a cercare emozioni, che francamente non mi interessano: perché credo che l’unico diritto che ho di trasformare in parola la vita, il dramma, la morte, l’esperienza, la speranza di altre persone stia nell’averlo vissuto con loro. Lo strumento, il mezzo tecnico del giornalismo, è nella commozione, parola che i fautori o i depositari del cosiddetto giornalismo anglosassone trovano così strana. Io invece considero la commozione che vivo e cerco di trasmettere con le parole agli altri il senso stesso del giornalismo. Perché è attraverso di essa che l’esperienza diventa coscienza. E questo è lo scopo del raccontare.
Il mio incontro con i migranti era tutto sommato un incontro obbligatorio. Sono convinto che oggi ci siano solo due esperienze storiche che abbiamo il dovere di raccontare e alle quali abbiamo il dovere di essere presenti: la terribile, sanguinosa esperienza dell’Islam radicale e totalitario e l’esperienza della migrazione. Due fenomeni che non sono, come qualcuno cerca di far credere, l’uno la conseguenza dell’altro, se non in termini marginali, nel senso che una parte dei migranti è costituita da uomini, donne e vecchi che fuggono dai luoghi dove l’Islam totalitario sta costruendo il proprio disegno politico. Tuttavia questo non esaurisce il fenomeno della migrazioni. E per sgombrare subito un altro equivoco, bisogna dire che non esiste in nessun modo un rapporto di subordinazione dei migranti ai progetti dell’Islam totalitario. I migranti non sono uno strumento di cui l’Islam radicalesi serve per introdurre o destabilizzare le nostre società. È un ragionamento semplicissimo, che qualsiasi onesto osservatore di questo fenomeno dovrebbe ricordare. I nemici dei migranti lungo le rotte, lungo le vie della migrazione, sono proprio i jihadisti. Loro uccidono i migranti quando li trovano sulle piste del Sahara che dall’Africa centrale li portano verso il Mediterraneo. Li uccidono, dopo averli ovviamente derubati, perché li considerano traditori della causa. Nella loro ottica i migranti sono musulmani che, invece di battersi perla vittoria del jihadnel loro paese, fuggono, se ne vanno a chiedere l’elemosina agli infedeli, sognano e adottano modi di vita che per loro sono blasfemi. Allora,fino a non molto tempo fa una delle vie della migrazione dal Mali, dal Niger, dal Ghana, dall’Africa occidentale consentiva ai migranti di passare attraverso la Mauritania, risalire verso l’Algeria e infine piegare verso la Spagna, o la Libia, o la Sicilia e da lì verso l’Europa. Ora questa via è interrotta. Non si passa più di lì perché questo percorso è controllato da fazioni jihadiste che uccidono i migranti, per cui oggi sono obbligati a fare un giro molto più largo, attraverso il Mali, il Burkina Faso, la risalita lungo il Niger fino alla Libia, dove il controllo delle milizie jihadiste si è allentato dopo l’attacco francese ad Al Qaeda Maghreb.
La domanda più stupida che si può rivolgere a un migrante – ed è esattamente quella che gli viene posta quando arriva a Lampedusa, a Pozzallo, o in qualsiasi altro luogo d’Europa – è “da dove vieni” e “quale documento hai”. È una domanda totalmente cretina,e non perché queste persone abbiano distrutto i documenti per delle ragioni che, comunque, sono ben comprensibili; ma perché spesso non li hanno mai avuti. Un fatto che uno apprende girando diversi Paesi dell’Africa è che in molti di questi non esiste l’anagrafe: non c’è un ufficio cioè dove ci si possa recare per ottenere la carta d’identità. Questa gente non ha il documento perché vuole nascondersi, ma perché proprio tante volte non ce l’ha. La domanda è cretina anche perché il migrante non è più un eritreo, un maliano, un nigeriano, un somalo. Non lo è più, è diventato un’altra persona, un altro essere umano. L’esperienza del viaggio che noi raccontiamo o accorpiamo nella traversata del mare, dalla Libia a Lampedusa – l’ho fatta, sono 20/25 ore a seconda di com’è il mare – è solo il piccolo e ultimo dettaglio di un viaggio che dura due, tre, quattro anni. Solo dopo questo lasso di tempo il migrantearriva sulla costa del Mediterraneo, dove deve raccogliere i soldi per l’ultimo balzo, il più breve tutto sommato. Ha attraversato deserti, montagne e savane a piedi, in camion, su piccoli bus. È stato spogliato e derubato mille volte dai gendarmi, dai soldati, dai jihadisti e dai banditi. Ha lasciato dietro di sé tutto il poco che aveva, ha lasciato sulle pietre e nella sabbia i propri compagni di viaggio, che non ce l’hanno fatta; ha lasciato dietro di sé, a ogni metro di sofferenza, ciò che era la propria precedente identità umana ed è entrato, attraverso la frazione del dolore e della paura, in un’altra condizione umana. È diventato un altro uomo. Per cui non ha più alcun senso chiedergli cosa faceva prima, da dove viene, qual era il suo villaggio, chi era la sua famiglia. È un’altra cosa. Per questa ragione sostengo che potremo cominciare a ragionare sul fenomeno della migrazione solo quando definiremo concettualmente il popolo dei migranti come un popolo nuovo, come una categoria di esseri umani che non ha più a che fare con identità statali, geografiche, politiche e ideologiche dalle quali sono partiti. Si è formato e si sta formando dal 2011 a oggi un nuovo popolo del mondo. Hanno calcolato che ci sono circa 200 milioni di migranti. Ci sono, dunque, 200 milioni di esseri umani che appartengono a nuova condizione umana. La scelta del viaggio, di partire, li ha staccati da ciò che erano e li ha fatti entrare in un mondo nuovo di cui noi non vogliamo renderci conto. Chiediamo loro cose come “fammi vedere il passaporto, sei del Mali, da dove vieni”. Non c’è un migrante che assomigli a un altro migrante.
Sono andato fino in fondo al Mali lungo le rive del fiume Senegal, che è punto di raggruppamento per le vie di migrazione attraverso il Sahel e il Sahara. Ci sono villaggi dove l’intera popolazione maschile o è già partita o sta per partire. Hanno preso soltanto i pochi soldi necessari per la prima tappa del viaggio, la più semplice, verso la capitale da dove poi proseguiranno il loro cammino. Nello stesso villaggio non ci sono due giovani che partono per la stessa ragione o che sono mossi dagli stessi scopi, dalle stesse speranze, dalle stesse illusioni. C’è chi parte perché ha i parenti in Francia, in Belgio, in Germania che lo hanno aiutato a intraprendere il viaggio e allora vuole andare a vedere[come vivono]. Ricordiamoci che questi sono paesi e villaggi in cui tutto il poco che esiste in termini di infrastrutture – il pozzo, la scuola, il ponte – è stato pagato dai migranti. Lo stato non dà nulla, lo stato prosciuga i soldi che l’Ue dà per tenersi i propri migranti. I governi africani si mettono in saccoccia il denaro e alle popolazioni non arriva niente di niente. Poi ci sono quelli che partono per una sorta di rito identitario, come in alcune località del Mali, dove non puoi prendere moglie o mettere su famiglia se non hai compiuto il viaggio, e quindi sostenuto il rito di passaggio dalla adolescenza all’età adulta. Le motivazioni della migrazione sono infinite, non riusciamo neanche immaginarle. Noi li ammassiamo nel calderone dei numeri: quest’anno ne sono arrivati ventimila, l’anno scorso cinquantamila, come se fosse una massa indifferenziata.
I primi giovani migranti che ho incontrato per caso erano proprio i primi migranti. Mi trovavo in un piccolo villaggio della Tunisia al confine con la Libia, perché stavo cercando di entrarvi. Era il 2011, c’era la guerra contro Gheddafi. Mi sono accorto che in quel villaggio di pescatori, un piccolo porto di mare, c’era un gran movimento di ragazzi e ho scoperto che quello era il luogo dei migranti in partenza verso Lampedusa. Si trattava del posto della prima migrazione, quello che ci ha fatto scoprire l’orrore dei migranti. Erano tutti tunisini e tutti ragazzi maschi. Quella prima migrazione nasceva come conseguenza di un evento politico: la primavera araba, la Rivolta dei Gelsomini, la caduta di Ben Ali e lo scoperchiarsi di un regime autoritario che considerava,negli accordi con l’Unione europea, l’atto del migrare come un reato penale –prendevi cinque anni se ci provavi. E infatti prima del 2011 dalla Tunisia non ne era partito neanche uno. Noi abbiamo barattato il controllo della migrazione con un dittatore grottesco, lercio e corrotto in cambio di fingere che fosse eletto democraticamente con quelle elezioni farsa che metteva in piedi ogni anno. Nel 2011 la migrazione fu un atto di libertà. La gioventù che aveva abbattuto la dittatura di Ben Ali migravacome primo esercizio di un tempo nuovo, perché prima era proibito. E veniva a vedere che cos’era quel mondo meraviglioso, ben ordinato, democratico che stava dall’altra parte del mare. Quello che mi aveva incuriosito e spinto a fare il viaggio con loro era la seguente considerazione: che quei ragazzi pagavano per viaggiare su delle barche marce. Nessuno sa quante ne siano scomparse nel Mediterraneo. Un anno dopo sono andato in una città dell’interno della Tunisia e ho portato a casa mazzi di fotografie e di fototessere che mi hanno dato i padri dei figli partiti e mai arrivati. Questa gente continuava a credere disperatamente che fossero dispersi in Europa o in prigione, e quelli invece erano morti silenziosamente in mezzo al Mediterraneo perché nessuno sapeva nemmeno che fossero partiti, nessuno sapeva che dovevano arrivare, in mare non funzionavano né i satellitari né i telefonini. Quei ragazzi tunisini pagavano mille euro – un tesoro per loro, raccolto centesimo per centesimo da parenti, cugini, famiglie allargate del mondo arabo per consentire al primogenito di avere un’occasione di andare “di là” e vedere. Sapevano benissimo cosa li attendeva, che non c’era un mondo disposto ad accoglierli a braccia spalancate, a dare loro lavori meravigliosi, a riempire la saccoccia e considerarli come eroi della rivoluzione. Non era il ripetersi del fenomeno di un’altra migrazione storica, l’Albania, quando la gente si precipitava da una Paese uscito da una dittatura quasi metafisica, pensando che l’Italia e l’Europa fossero un gigantesco supermercato da cui uno entrava e prendeva tutto quello che gli piaceva. No, questi sapevano bene cosa c’era dall’altra parte: un mondo diffidente, spaventato, xenofobo, che li detestava e pensava che la ragione per cui venivano da noi fosse derubarci, prendere i migliori posti di lavoro, vivere bellamente alle nostre spalle. Lo sapevano perfettamente. Ma venivano lo stesso perché [partire] era l’esercizio di quella possibilità di vedere che è il senso stesso della gioventù di ogni tempo, dall’Iliade a oggi. Andare dall’altra parte, provare di persona, ascoltare il rumore di cose che uno non ha mai sentito, vivere in maniera diversa, uscire dall’immobilità di un mondo che non ti dava nulla. Questa è stata la prima migrazione che ho incontrato. Dico spesso che è un po’ come la storia di Alice nel Paese delle Meraviglie:è un passare al di là dello specchio chiedendosi cosa ci sia. Questi ragazzi sono quelli che abbiamo etichettato come gli scappati di galera, i teppisti; questi erano i giovani della rivoluzione tunisina, poi tradita, perduta e sbrindellata. Allora, cosa abbiamo fatto noi con la prima migrazione? Noi non come Italia, ma noi Europa, noi Unione. Abbiamo detto loro: “Va bene ragazzi, l’Europa è il paradiso dei diritti, dell’eguaglianza, per cui ogni uomo vale non per quello che può dare, o per quello che ha in banca, o per la sua intelligenza o la sua cultura: vale in quanto uomo ed esiste una sacralità dell’individuo che abbiamo il dovere di rispettare”. Questo è vero, è il contributo dell’Europa dato alla storia. Però abbiamo aggiunto: “Questo paradiso è a numero chiuso, non sopporta troppi utenti perché poi diventiamo troppi. Gli alberi non sono come dovrebbero essere, non abbiamo le aiuole, non abbiamo denaro da distribuire a tutti. Fate bene, avete ragione, noi dovremmo essere il vostro modello ma non c’è posto per voi”. Cosa abbiamo fatto dunque? Li abbiamo presi, li abbiamo caricati su degli aerei, senza dire che li avremmo riportati a casa. Io sono andato a vedere il ritorno dei migranti a Tunisi, cosa che nessuno ha fatto. Mi sembrava una cosa strana, volevo capire cosa succedeva nel cosiddetto “rimpatrio”. È una parola che bisognerebbe dissezionare, i politici la usano sempre. Rimpatri dove? Verso che cosa? Questi venivano caricati sugli aerei raccontando loro una bugia perché stessero buoni: gli si diceva che li avrebbero portati sul continente perché non c’era più posto nel campo di accoglienza di Lampedusa. La bugia è sempre un indicatore di cattiva coscienza, perché altrimenti non si mente. Invece atterravano in un piccolo aeroporto di Tunisi, vicino a quello internazionale, destinato ai voli verso La Mecca. Si aprivano le portiere e questi ragazzi che pensavano di trovarsi a Napoli o a Catania scorgevano invece le bandiere con la mezza luna e realizzavano di essere di nuovo a Tunisi. Ne ho visti alcuni piangere. Altri svenire. Il problema non era tanto che fossero tornati indietro, quanto il fatto che avevano fallito, che tornavano indietro da sconfitti. Non erano riusciti in quello per cui i genitori e i parenti avevano raccolto i mille euro. Tornavano battuti, vinti. L’umiliazione che poi ho ritrovato in altri luoghi, in quelli che non erano riusciti a passare il mare e tornavano reietti nei loro villaggi, come se avessero una colpa. Questa è la Grande Migrazione: i tunisini nel 2011. Poi tutto è cambiato radicalmente.
I migranti mutano mentre marciano verso la loro meta, mutano con il mutare delle condizioni storiche, dei luoghi, del tempo. Oggi la migrazione non è fatta più da ragazzi adolescenti maschi: sono famiglie, bambini e donne, che nel 2011 non c’erano. I luoghi della migrazione si sono moltiplicati: dalla Tunisia avanza verso di noi mezza Africa; poi ci sono il vicino Oriente con le guerre di Siria e di Iraq, il Bangladesh, l’Afghanistan. E cambiano anche le rotte. Alle due rotte africane – una dal Mali attraverso il deserto, l’altra che raggruppa i migranti tra il sud Sudan, l’Etiopia e l’Uganda, e sale verso l’Egitto – si è aggiunta la rotta balcanica che unisce soprattutto asiatici e siriani. La migrazione muta mentre è in corso. Sono stato alla frontiera ungherese, quando gli ungheresi hanno eretto il muro per deviare la rotta dei migranti. Da un giorno all’altro attraverso i telefonini e i tamtam delle notizie le persone cercavano nuove strade, si infilavano nei boschi, scavalcavano le montagne, percorrevano camminando le strade ferrate verso la Slovenia. È un fenomeno tumultuoso, di una vitalità strabordante, contro cui è inutile costruire i muri. C’è la vitalità di un mondo nuovo. Perché parlo di esperienza mistica della migrazione? Perché all’interno delle mille motivazioni che il migrante ha c’è l’esperienza interiore del diventare un altro: l’atto del partire è un atto creativo di sé soprattutto quando avviene in questo modo. Chi di noi avrebbe il coraggio di mettersi in viaggio così, con uno zainetto con dentro una maglietta e un telefonino che sarà il primo oggetto che ti verrà rubato, senza sapere quanti migliaia di chilometri dovrà percorrere per arrivare, senza sapere qual è il terreno e quali i mezzi, e cosa c’è che lo aspetta su quel viaggio. Chi di noi avrebbe questo coraggio fondatore? È un atto mistico,che nasce in parte dalle impossibilità di vivere in quei luoghi ma anche dalla volontà straordinaria, violenta, costruttiva, cogente di diventare un’altra persona e costruirsi un’altra identità. In questo senso la migrazione, come la sofferenza di coloro che vivono la brutale situazione totalitaria in alcune parti del mondo, è la vera esperienza mistica di questo tempo.
NOTA: testo, non rivisto dal’Autore, della conferenza tenuta a Brescia il 18.2.2016 su invito della Cooperativa Cattolico-democratica di Cultura.
Nel file in PDF sono riportate anche le risposte alle domande del pubblico.