MODUGNO, UN EDUCATORE DI MAESTRI[1]
L’arte dell’educatore è apparentemente effimera e solitaria; sembra effimera come e più dell’arte drammatica; appare fasciata di solitudine come nessun’altra. Sembra così. Ma in realtà essa, incidendo i suoi capolavori sulle anime ha un potere diffusivo senza pari e prospettive eterne. La sua storia è occulta: quella che si racconta nei libri è generica descrizione di istituzioni e di fini comuni; quella vera, concreta, è immanente e operante nell’animo di un educatore e nel commosso ricordo di un discepolo che hanno saputo «ascendere insieme».
La data e le circostanze in cui avvenne il primo incontro col nostro Professore di Pedagogia alla prima classe magistrale superiore ci sono ancora vivamente impresse nella memoria e nel cuore.
Il suo volto e il suo contegno furono per noi una effusione immediata del suo animo e il giudizio di quaranta teste su quell’uomo fu uno solo: la superiorità spirituale è un distintivo che si riconosce a prima vista. Egli volle subito «far la conoscenza» con ognuno di noi ed imparare i nostri nomi: ci rallegrammo con noi stessi per il fatto di essere, per la prima volta, persone degne di un interesse particolare da parte di un… Professore. In quell’atmosfera accogliente il desiderio di conoscere l’oggetto della «materia nuova» di studio si fece urgente ed un alunno domandò: «Professore, che cos’è la filosofia?». Il Professore ci mostrò il suo orologio e ci chiese di qual colore fosse. Molti, sorridendo, risposero: «D’oro». Qualcuno aggiunse: «C’è però il quadrante che è bianco». Ed un altro completò: «E sul quadrante sono segnate le ore in nero». Con quelle tra battute fu avviato il nostro cammino al concetto di filosofia e a quello di storia della filosofia, la quale non è un variare di opinioni sempre contraddittorie o sempre vere, ma, pur attraverso le più pericolose unilateralità (orologio tutto bianco o tutto d’oro), un accostamento alla verità. Il Professore dall’orologio ci condusse a fissare il programma e il metodo della nostra attività di liberi cercatori della verità: cogliere l’anima di verità in ogni pensiero, scorgere la fecondità di un monito o la presenza di un’esigenza giusta da soddisfare, congiungere l’amore per i ricercatori della verità con la testimonianza fedele alla verità, il rispetto per i filosofi con l’indipendenza della nostra mente, raccogliere dovunque i frammenti sottratti all’unità. Ma per essere «liberi» ricercatori della verità, per scorgere la verità non basta rivivere la storia interiore dell’umanità scritta dai filosofi, non basta pensare con la propria testa: bisogna lavorare a ben pensare.
“Mutar d’ale!”
«La luce non si può vedere se si è bendati, bisogna togliersi le bende per porsi nelle disposizioni che si richiedono perché la verità appena si presenti venga riconosciuta. La rassegnazione all’istinto crea l’auto-inganno, il falso. Il dominio di sé spezza la spirale della menzogna, vivifica tutta la nostra vita, da individui ci trasforma in persone, ci aiuta a far delle passioni altrettante virtù». L’intrinseca eticità della filosofia, costantemente balenante, da Pitagora a Varisco, era un invito insistente e convincente a «mutar d’ale», ad ascendere insieme a quel vecchio Professore, giovanilmente proteso nella scalata delle più alte vette ideali. La ricerca della verità ci portò ad impostare così il problema della nostra vita: «purifichiamoci, e ci accorgeremo che se la vita come la intendono i più non è degna d’esser vissuta, una vita degna è nondimeno possibile». Ci avvicinavamo alla filosofia moralmente sinistrati, ma, proprio per questo, più bisognosi di guida; nelle nostre coscienze, deformate ma non spente dalla sensualità, finalmente si risvegliava il senso della dignità e dell’umiltà, scrostando la dissipatezza scettica da una parte e, dall’altra, la boria sofistica dello studentello che si atteggia a pseudo filosofo: l’io migliore, latente e premente in ognuno di noi, per ridestarsi non attendeva che uno sguardo amorevole, una parola di vita e di fiducia. Alcuni, dopo qualche mese, sentirono di non poter più nascondere a se stessi la loro intima tristezza sotto la maschera d’una chiassosa scapataggine; e per essi l’alternativa si chiarì prima in questi termini: «O Callicle o Socrate», e poi: «O il sub-uomo freudiano e nietzschiano o il super-uomo cristiano». Il tono delle risposte date nelle conversazioni scolastiche, la qualità dei libri che liberamente prendevamo in prestito dalla sua biblioteca (i più letti erano Giovinezza pura di Toth Tihamer e Il Sillabario del Cristianesimo di Olgiati), le volontarie relazioni su quegli aspetti che più ci interessavano del libro letto, i temi-sonda fattici assegnare dall’insegnante di Italiano (uno dei temi più semplici e più rivelatori fu: La mia domenica) dicevano eloquentemente a Papà Modugno i nostri bisogni e le nostre ansie. Tanto più eravamo spinti all’auto-osservazione e alla confessione quanto più sapevamo che c’era chi ci leggeva fin nell’intimo del cuore e che nessuno rispettava ed amava più di lui il nostro dolore. Consci del fascino esercitato su di noi dal nostro «mago», istintivamente ci sforzammo a scoprirne il segreto; lo cogliemmo in… flagrante, il mattino d’una domenica, entrando per caso in una chiesa: Egli si nutriva del Pane santo della Vita! D’allora, la sua ascesa al Cristo, intravisto dalle sue opere e dalle vaghe e spesso imprecise notizie a noi pervenute, costituì per noi la più interessante avventura da ricostruire idealmente e, per alcuni, forse da rivivere. Indirettamente, noi pensavamo così: «Se il professore, sitibondo di giustizia e di libertà, è giunto a Cristo in nome di tutta la filosofia e della sua meditata esperienza di vita, vuol dire che Cristo è la via della salvezza. Perché non conoscere Colui che siamo chiamati ad amare o a ripudiare?». In questa apertura di anime al Dio vivente la parola del sacerdote insegnante di Religione era attesa ed ascoltata. Verso la fine della prima magistrale superiore sorse tra condiscepoli una conferenza di S. Vincenzo ed a qualcuno la carità di Cristo donò la fede in Cristo. Il professore di Religione, collaborante in autonomia solidale col professore di Pedagogia, divenne ben presto il direttore spirituale di tutta la classe. Non tutti e non sempre siamo stati fedeli durante e dopo le magistrali, agli impegni liberamente assunti col Signore in quelle ore di Grazia, in quegli anni indimenticabili; ma la figura del Maestro è cara a tutti ed il ricordo d’essere stati suoi alunni è un rimprovero ineludibile per i disertori, è per tutti un incitamento a risorgere e a perseverare nel bene. Il ripeterci spesso e per ragioni spesso opposte: «Se mi vedesse il professore!» – «Chiederò consiglio al professore», – «Andrò a fargli visita» – «Gli scriverò», è già di per sé una molla potente, una spinta interiore all’auto-educazione.
Comunità fraterna
Coloro che più rapidamente e più generosamente si posero sulla via della riforma di se stessi, senza rivestir incarichi di sorta, diventarono ben presto gli effettivi capi della scolaresca e al loro aiuto fraterno erano affidati tutti i compagni. Si compiva un lavoro silenzioso ed abituale che trasformò la nostra classe in una comunità sociale affiatatissima, in cui la mutua illuminazione nelle varie discipline era legge del lavoro quotidiano; nella scuola e fuori, tra un teorema, una formula chimica ed un canto dantesco, spesso un cuore si apriva ad un altro cuore e nascevano propositi di rinascite che Dio benediva. Essere custodi dell’anima di un amico creava soltanto doveri più grandi: l’Amore si irradia solo con l’esempio e con l’anima sorridente. Talvolta però l’irrazionale irrompeva in parole e in azioni inconsulte o incomposte, quasi all’improvviso; allora il più coraggioso doveva dire il suo «no», imporsi e contrastare violentemente a tutti gli altri, in difesa della vera gioia che non è mai fangosa. Alla terza superiore entrò a far parte della nostra classe un giovane che faceva aperta professione di ateismo. Bisognava conquistarlo proprio col rispettare la sua insoddisfatta sete di Dio e ci fu chi, d’accordo col Professore, si mise accanto a quell’amico, ispirandogli simpatia con la sua allegria, profittando di una sua assenza per fargli visita, incontrandolo ogni mattino «come per caso» sulla via della scuola, imparando a trangugiar birra per fargli piacere; dopo qualche mese studiavano insieme filosofia. Un pomeriggio, leggendo ad alta voce alcune pagine stupende del Rosmini, il povero amico non poté più contenere la piena del suo cuore e disse: «Forse tu sapevi qualcosa della mia incredulità. Ebbene ora so che Dio c’è, ma non voglio pensarlo perché non mi sento capace di vivere secondo Dio». Quanto dolore e quanto mistero in quelle poche parole! Il Professore gli donò qualche buon libro di religione. Dio solo conosce gli sforzi e i meriti di ogni uomo. Noi siamo servi inutili.
Uniti nella libertà
Il Professore, per la sua cultura usata per guarire e non per colpire, per la sua passione dell’unità risultante dalla reintegrazione evangelica d’ogni verità prigioniera, per le sue stesse materie d’insegnamento, era l’ideale centro unificatore di tutto l’insegnamento. In una scuola in cui insegnavano persone di diversissime tendenze, l’unità spirituale era una quotidiana conquista grazie anche all’intelligente politica di presenza dei più fedeli collaboratori del Professore; il loro composto ma tempestivo intervento chiariva spesso e slargava le idee morali e religiose degli stessi docenti e preveniva pericolosi sbandamenti nei compagni. Due professori, che nel godimento senza sforzo ponevano il fine della loro vita, amorevolmente… smontati riconoscevano che «chi non si sforza di conseguire il suo valore di persona, sfugge alla fatica che si richiede a conseguirlo, ma non per ciò sta meglio come animale»; un professore di ginnastica finì col vedere nel Cristianesimo la più alta affermazione di vita, contro i superficiali pregiudizi di certe teorie totalitarie da cui era suggestionato; una professoressa diventata atea e capovolgitrice di valori morali per reazione a storture psicologiche di cui era stata vittima in un collegio di suore, scoprì nella nostra scuola che solo il cristiano è partecipe di una giovinezza eterna; e al Presidente della S. Vincenzo che le chiedeva settimanalmente un obolo per i poveri, ricordandole maliziosamente che «il Signore perdona tante cose per un’opera di misericordia» quella professoressa consegnava l’offerta più cospicua.
“È vero? È falso?”
Ogni lezione era un godimento dello spirito ed insieme un personale esercizio alla riflessione e alla scoperta. Una nostra, o una sua domanda, un’osservazione, un episodio di vita scolastica, un nostro dubbio, la nostra esperienza passata di scolaretti e di… allievi maestri, il libro di testo e il classico scelto, l’interpretazione dei programmi per la scuola elementare e la lettura di qualche capolavoro della letteratura per fanciulli, l’Antigone e I Promessi Sposi, Dostoievskj ed Eliot, Leopardi e Freud, Shakespeare e Goethe, tutto serviva a mettere in rilievo un problema educativo o filosofico in funzione pedagogico-educativa[2], a farcelo sentire nostro, a renderci desiderosi di chiarificarlo dentro di noi. Il proposito di essere «non spugne assorbenti, ma filtri», ci induceva a vagliare ogni giudizio al lume della nostra ragione e della nostra esperienza. A casa o in classe, in una conversazione peripatetica o mediante la libera ed ordinata discussione, ci chiedevamo sempre di ogni cosa: «È vero? è falso? fino a che punto può esser falso?». Dopo le prime settimane, incoraggiati dall’affettuosa accoglienza d’ogni nostra opinione e dalla misurata lode delle osservazioni più sensate, ogni timidità fu ben presto bandita e, con la timidità, disparve l’insincerità e la preoccupazione per cui – come acutamente ha notato Mario Casotti – «gli scolari si guardano bene dal dire il loro pensiero, ma cercano nella memoria quelle formule che presumono più accette all’insegnante». Ognuno, esprimendo con calore il suo punto di vista, manifestava se stesso: e così, senza saperlo, c’era chi sosteneva le tesi di Callicle e chi quelle di Socrate, chi ragionava da epicureo e chi da nietzschiano, chi da razionalista e chi da empirista. La discussione era un serbatoio di innumerevoli reattivi mentali, il mezzo insostituibile per guidarci a cogliere i rapporti tra i principi e i fatti, l’incorporarsi di quelli in questi: solo abituandoci a tirare tutte le conseguenze, che logicamente scaturiscono da un principio, prima di ammetterlo, potevamo evitare pericolose astrazioni, involontarie complicità col male e – a un tempo – dare la nostra ragionata e spontanea adesione a quelle verità emergenti dal dibattito in tutta la loro potenza suggestiva.
Il metodo dei chiaroscuro
Dalle risposte date si risaliva alle concezioni filosofiche e pedagogiche ch’esse implicavano, inquadrando storicamente il problema discusso in una determinata corrente di pensiero e, in modo particolare, nel sistema di un pensatore. La spiegazione era compenetrazione di anime: della sua anima con la nostra e della sua e della nostra anima con quella dei maestri del pensiero e dell’educazione. Egli parlava dalla realtà effettuale delle nostre menti per spostarne gradualmente il limite e slargarne gli orizzonti. Col metodo del chiaroscuro Egli ci poneva nel cuore di un sistema, le cui intuizioni centrali non esauriscono e non escludono, ma guidano a capire e ad assumere i motivi periferici e particolari, senza cadere nell’erudizione frammentaria che imbottisce il cervello deformando l’uomo.
“Che cosa avrebbe fatto don Bosco al nostro posto?”
Non si può esprimere con parole la viva commozione e l’entusiasmo ch’Egli destava in noi, parlandoci dell’apostolato di Socrate e dell’itinerario di Agostino a Cristo, dell’armonia sublime delle Summe dell’Aquinate, delle gioie e delle sante sofferenze dell’educatore cristiano da Vittorio da Feltre e S. Giuseppe Calasanzio, a don Bosco; riportandoci ignaziamente nelle scuole popolari di Pestalozzi e nei giardini d’infanzia di Fröbel; mettendo vigorosamente in luce la genialità e la tragica astrattezza di Rousseau e di Nietzsche; esaltando la grandezza di Rosmini e Manzoni, l’appassionata dedizione all’ideale del Mazzini, la concretezza di De Sanctis e di Gabelli. Don Bosco, al terzo anno lo vedemmo più volte dinanzi ai nostri occhi: lo seguimmo a passeggio con i trecento corrigendi della «Generala» di Torino; ci avvicinammo con lui ai ragazzi che l’avevano assalito a sassate per dir loro: «Siamo amici. Lo so bene che avete fatto per ridere. Ora ditemi: vi piaccion le ciliegie?». Don Bosco, interpretato dal Professore, ci fece capire – ma un capire non solo in teoria, ma nella pienezza del sentimento che prepara l’azione – che c’è un solo attivismo integrale e legittimo in pedagogia: quello del Vangelo. È parlando ai giovani di Socrate e di don Bosco che si suscitano le vocazioni magistrali! Per l’avviamento a studi monografici, per chiarificazioni personali, per notizie che presupponevano interessi speciali era riservato il colloquio dell’intervallo tra un’ora e l’altra, il ricevimento in casa, il prestito dei suoi libri. Una lezione speciale sui generis. Ad un alunno, schiavo della sua lingua, fu dato l’incarico di studiare il suo difetto per meglio combatterlo e per tenere una lezione agli amici sull’argomento. Il giorno dell’attesa lezione, l’imbarazzo dell’allievo-maestro, che doveva condurre i suoi ascoltatori a scoprire la genesi di errori funesti in cui lui proprio era caduto, fu straordinario ed un tirocinante volle incidere col temperino sulla tavoletta del suo banco la storica scena del peccatore col capo chino di fronte al Professore, paternamente sorridente[3]. Convinto che da un libro di testo mal adoperato o mal letto ha origine l’incapacità di alcuni di leggere libri di filosofia e pedagogia, il Professore si curò di farci affezionare al libro di testo di filosofia e pedagogia, dapprima, leggendolo e commentandolo con noi; poi, guidandoci a ritrovare sinteticamente in esso ciò che avevamo già capito; infine, lasciandoci studiare sul testo qualche problema non spiegato o assegnandoci sul libro una lezione del tutto nuova per noi. Così i nostri libri di testo non sono stati… venduti dopo la scuola perché essi, interrogati, ancora oggi non «tacciono maestosamente» come diceva Socrate di ogni libro, ma ci ricordano le conquiste compiute e ci additano quelle incompiute. Alla lezione e allo studio del libro di testo seguiva il nostro lavoro di sintesi e di riorganizzazione, che era – di volta in volta – fissato per iscritto in schemi, i quali – a fine d’anno – costituivano un piccolo libro individuale e collettivo di filosofia e pedagogia e di storia della filosofia e della pedagogia. Ma lo sforzo individuale e l’efficienza della preparazione si rivelavano nell’interrogazione. Nella interrogazione trovavamo il modo di renderci conto di ciò che dicevamo, di imparare rispondendo a domande che miravano a un tempo a valutare e a formare la capacità di ragionare. Il Professore aveva una scatola in cui ogni alunno aveva riposto un bigliettino col suo nome. Erano interrogati coloro i cui bigliettini venivano tirati a sorte; altri però potevano essere chiamati dal Professore. In tal modo ogni calcolo di maggiore o minore possibilità d’interrogazione cadeva e tutti sperimentavano la saggezza del motto evangelico scritto sulla bianca scaletta: «Estote parati». Completando o iniziando lo studio di un’epoca, di un classico, di un intero programma, facevamo numerose lezioni di controllo per colmare discontinuità, per rimettere in carreggiata i ritardatari e gli assenti, per chiarire l’oscurità di alcuni punti, per scorgere la fecondità di altri, allo scopo di giungere a dominare sicuramente, con un colpo d’occhio, ogni problema ed ogni pensatore allargando le fonti di studio, leggendo le pagine migliori di un autore o di un critico. Allora ogni protagonista della storia della filosofia e della pedagogia diventava, per le sue verità e per le sue ansie, un nostro vero amico, un maestro di vita: «Come risolve S. Tommaso questo problema?» «Che cosa avrebbe fatto don Bosco nelle circostanze in cui ci troviamo?». Un giorno visitai il Professore, ammalato, come purtroppo spesso accadeva. In casa c’era una bimba di tre anni: le feci festa, la presi in braccio e la baciai più volte. Quando la bimba andò via, il Professore, guardandomi negli occhi, mi disse: «I bimbi sono di Dio. Essi ci rallegrano col loro sorriso, ma non sono fatti per piacere a noi. Io baciavo Pinuccia (la figliola, morta) soltanto in fronte». Il Professore, nel suo apostolato educativo, non aveva posto al centro se stesso o l’educando, ma l’Amore, altissimi donum Dei!
[1] Supplemento Pedagogico, n. 1, 1948-1949, serie X. Il titolo originale è: “Un educatore di maestri”.
[2] Cfr. G. Modugno, Problemi della Scuola Italiana, Macri, Bari 1945, pp. 157 – 161.
[3] Purtroppo il tirocinio – validamente propugnato e attuato dal Modugno –era stato abolito negli anni in cui l’autore di queste note frequentò l’Istituto Magistrale.